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Autore: Selina    18/12/2008    4 recensioni
È tornato a casa, finalmente. [Riku/Sora]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Riku, Sora
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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Nota legale:

Kingdom Hearts © Square Enix & Disney. Questa Fan Fiction è stata scritta per puro diletto, senza alcuno scopo di lucro. Nessuna violazione di © è dunque intesa.



:: BLACK SHEEP ::



How many times heart's gone through the grinder?

Wherever you look there's a painful reminder.



Continuava a sognare.



Sora sta costruendo una zattera nella baia.

Non seriamente -sono ancora bambini, ed il tempo in cui fuggire sarebbe diventato più importante che restare non è ancora arrivato-, ma ci sta provando per la prima volta. Ha preso due pezzi di legno lunghi quasi quanto lui e li ha portati sulla spiaggia.

Ovviamente ha chiesto a lui di aiutarlo.

Ovviamente è stato lui a portarli.

Ora lui lo sta guardando perplesso, accovacciato sulla sabbia. La brezza che sale dal mare gli increspa i capelli. Ha l’odore del sale.

Tutto, allora, aveva l’odore del sale. Anche la sua pelle.

Sora sta allargando un elastico per capelli rubato a Kairi per farci passare i pali. L’ha tutto deformato, ed ora è gigantesco. Kairi dovrà farlo girare cento volte per usarlo ancora, e ad ogni giro penserà a lui.

Kairi con i capelli cortissimi legati in due codini è carina, ma Sora lo è di più. È ancora troppo piccolo per capire cosa vuol dire, ma sente la nota discordante. Non l’ha detto a nessuno. Non lo farà mai.

Sora riesce a tirare l’elastico abbastanza da farci passare i pali, e quando ci riesce lo guarda vittorioso, il faccino rosso e sudato per lo sforzo di sollevarli.

Ricorda i giorni come non poteva averli percepiti da bambino. Li sente liquefarsi come cioccolato fondente lasciato al sole, incredibilmente densi, anche se non abbastanza dolci. Li sente appiccicarsi alle dita.

Guarda dubbioso l’elastico sfibrato.

«Non durerà.»

Sora sbuffa e si lascia cadere sulla sabbia, le guance gonfie e piene. Un faccino imbronciato, da bambino piccolo.

«Per adesso funziona» risponde, in tono irrevocabile.

Riku pensa che è quella la differenza tra loro. Sora vede l’inizio. Lui la fine.

Sora vede le cose sbocciare.

Lui le vede avvizzire.

Il sole gli scotta la pelle. Quella di Sora è lucida di sudore. L’estate si snoda sulla terra e sul mare come un fiume di lava bollente. L’arcipelago sta bruciando sotto la sua morsa incandescente.

Il tempo si scioglie e scivola via, goccia a goccia.

Potrebbe distruggere la zattera di Sora in un attimo, solo per provargli di avere ragione, ma non lo fa.

Sora resterà lì a costruirla per un altro giorno, ed un altro ancora. Kairi rimarrà sulla riva a guardarli andare via, perché il sindaco non le lascia ancora prendere la barca.

Non ci sono voci sull’isola dei bambini. Sente il suo respiro dentro le vene, lo sente rimbombargli nel cranio.

«Ne hai altri di quei cosi?»

Sora fa un sorriso entusiasta e tira fuori da una borsa il suo bottino.

Sotto il sole rovente, il tempo si congela.

Così. Per sempre.



Riaprì gli occhi sul soffitto familiare della sua stanza.

Si chiese che ore fossero. Le tapparelle abbassate chiudevano fuori la luce come chiudevano fuori il resto dell’arcipelago, ed aveva smesso da tempo di basare il sonno e la veglia su qualcosa di così insignificante come l’alternarsi del giorno e della notte.

Da quando era tornato dormiva quando aveva sonno, stava sveglio quando non ne aveva. Così semplice.

Gli sembrava di ricordare che questo potesse rovinare per sempre il suo ritmo biologico, ma non gli importava. Che potesse rovinare anche quello di Sora lo preoccupava di più.

Era già sveglio, vide girandosi su un fianco. La luce elettrica del televisore lo illuminava in una maniera strana, spettrale, come se non fosse davvero lì. Avrebbe allungato una mano per toccarlo e rassicurarsi della sua presenza, se solo si fosse ricordato come fare. Si era imposto di non sfiorarlo neppure per così tanto tempo che aveva dimenticato come rendere casuale un contatto, com’era avvicinarsi a lui senza la precisa consapevolezza che avrebbe ricordato il calore della sua pelle sotto le dita per giorni e giorni, fino a quando anche il ricordo, abusato, non ne sarebbe stato consumato.

«Sora?» lo chiamò, pianissimo. La sua voce suonò strana, sommessa, come se non avesse voluto svegliarlo.

Lui si girò, di scatto come se avesse ricevuto una scossa, e gli sorrise.

«Ti sei svegliato, finalmente. Iniziavo ad annoiarmi. Hai dormito bene?»

«Ho sognato di nuovo» rispose Riku, alzandosi a sedere. La stanza era stranamente in ordine, per essere la loro stanza da quasi tre mesi. Il letto di Sora era perfettamente rifatto. Doveva essere passata sua madre mentre dormiva.

Sospirò. Una volta l’avrebbe sentita.

Una volta, del resto, non sarebbe rimasto chiuso nella sua stanza tutto il giorno e non avrebbe costretto il suo migliore amico a vivere come un eremita insieme a lui.

Sora fece per aprire bocca, ma dal televisore uscì una specie di sgradevole lamento che lo richiamò bruscamente all’ordine. Si voltò in tempo per vedere la faccia sanguinante del suo personaggio in primo piano, un attimo prima che un game over di pixel fluttuasse sullo schermo come un’apparizione.

Sora borbottò qualcosa tra i denti e buttò da parte il joypad. Riku avrebbe potuto ricordargli che era suo, e che sarebbe stato carino non distruggerglielo, ma era ancora troppo assonnato per questo.

«Cos’hai sognato, questa volta?» gli chiese Sora, seduto ai piedi del televisore con le gambe incrociate. Si era girato verso di lui, e Riku poteva vedere le ombre che la luce della TV proiettava sulle braccia e sulle gambe nude. Poteva richiamare a memoria la sagoma che i suoi capelli disegnavano sulla parete alle sue spalle.

«La zattera.»

«La notte della tempesta?» chiese Sora, preoccupato. Stava attento a non parlargli mai di quel periodo, come se Riku fosse una specie di bambino traumatizzato.

Riku non era traumatizzato. Era colpevole.

Era colpevole di aver fatto a pezzi il suo mondo ed in mezzo a gente che lo guardava come se fosse un criminale trovava amaramente divertente che Sora lo trattasse come se fosse sul punto di rompersi.

La cosa peggiore era che non gli importava davvero.

Non si sentiva degno di stare al suo fianco, ma non gli importava quello che aveva fatto all’isola. Si sentiva colpevole perché aveva ceduto, perché era stato debole.

Troppo debole, come sempre.

Avrebbe voluto smettere di sognare.

«No. Ricordi la prima zattera?»

Sora fece un sorriso sollevato ed annuì. Viveva nella sua casa e bivaccava nella sua stanza da quando erano tornati, ma i loro genitori non avevano detto niente. Supponeva che fossero semplicemente grati che fossero di nuovo a casa.

Li vedevano pochissimo, a parte la madre di Riku, con una cadenza praticamente settimanale. Ogni tanto anche Kairi veniva a trovarli, ma non restava mai a lungo. Era come se qualcosa la saturasse fino a farla vomitare, costringendola a scappare di corsa.

Riku aveva realizzato con spaventosa lentezza che era la stessa reazione di un ospite in visita in un ospedale. L’oppressione, la sensazione di angosciante premonizione che dà vedere qualcosa che avvizzisce. La fuga.

Soltanto Sora restava. Caparbiamente aggrappato a lui.

Un mondo minuscolo, caldo e buio in cui restare insieme da soli per sempre. La sua soffocante fantasia segreta.

Sora non l’avrebbe lasciato andare da solo nell’oscurità, questa volta.

Sarebbe rimasto con lui nella sua piccola gabbia scura, perché l’arcipelago era diventato troppo stretto per lui, e Riku aveva potuto soltanto chiudersi in una scatola ancora più stretta.

Sarebbe rimasto.

«Credi che fuori ci sia bel tempo, Sora?»

Lui gli fece un sorriso un po’ perplesso, come se fosse indeciso se dargli dello stupido e prendersi una sberla o meno.

«Certo - gli rispose alla fine, scrollando le spalle - Lo sai che c’è sempre il sole, di fuori.»



Kairi ha gli occhi aperti. Sembra morta, più che una principessa addormentata.

Ha le ciglia fitte di una bambola. Gli stessi occhi di vetro.

«Ci ha tradito tutti e due, sai» le dice, spostandole i capelli dalla fronte. «Per questo ti riporterò indietro.»

Il mondo nel caos. I pezzi scombinati che vanno alla deriva.

Lo odia così tanto che vorrebbe sentire sotto le dita il suo collo sottile e flessuoso, ossa e muscoli, soltanto per poterlo stringere. Vedrebbe gli occhi schizzare fuori dalle orbite, allora. La cornea rossa e l’iride lucida, le guance congestionate, la trachea che lotta sotto la sua presa per allargarsi. Lo colpirebbe, lo prenderebbe a pugni.

La sensazione di potere assoluto che gli darebbe costringerlo a chiudere fuori il mondo per vedere soltanto lui.

È una molla ritorta fino allo spasmo. Il potere che gli darebbe tenerlo, finalmente, lo accecherebbe.

Soltanto in seguito capirà che è quello il motivo per cui il desiderio di scoparlo a volte sembra bucargli la pelle come pezzi d’osso in frantumi.

Può sentire la gelosia rabbiosa rivoltarsi nel sangue.

Potrebbe farlo a pezzi in quello stesso momento, davanti agli occhi di vetro di Kairi.

Le sue mani tremano per il bisogno di distruggere. È sempre stato lì, trattenuto a stento, ma ora ha dimenticato perché deve tenerlo in gabbia come un cane idrofobo.

Ha dimenticato così tante cose che quelle che ricorda sono ancora più dolorose, perché ricorda soltanto lui.

«Ti riporterò indietro» ripete, per zittire la voce dentro la sua testa.

Andato Sora, gli resta soltanto lei.

Negli angoli, l’oscurità si addensa in fitte ombre che lo guardano con occhi gialli e tremolanti, privi di coscienza.

Andato Sora, gli resta soltanto questo.

Non è davvero sorpreso, quando l’oscurità si consolida in una foresta di fitti capelli appuntiti.



Cercarlo fu la prima cosa che fece, quando si svegliò.

Lo faceva sempre, perché soltanto dopo averlo trovato riusciva a respirare. Soltanto quando c’era Sora riusciva a sentirsi davvero Riku, e non uno scarto dell’oscurità rinchiuso nello spazio buio tra le dimensioni.

Sora definiva i contorni del suo mondo. Gli dava un inizio ed una fine, e non gli permetteva di perdere di nuovo la strada.

Lo trovò dall’altra parte della stanza. Era in piedi, ed alla luce tenue della lampada il suo corpo proiettava un ombra scura ed incredibilmente densa sulla libreria.

Stava sfogliando distrattamente uno dei suoi libri. Doveva essere quello giusto, perché si sedette sul letto e lo aprì ad una pagina imprecisata. Poi la strappò come se niente fosse.

«Quello era mio, sai» gli disse Riku, senza disturbarsi a mettersi seduto.

Sora scrollò le spalle. Il suo commento non fu neppure sufficiente a farlo esitare. Aveva preso la pagina strappata e si era messo a piegarla con una velocità ed una abilità impressionanti, come se non avesse fatto altro per tutta la vita.

«Noi abbiamo visto cose che non ci sono su nessun libro.»

Riku non rispose. Era così ovvio che non ce n’era bisogno.

Lasciò vagare lo sguardo sulla libreria ricolma, che copriva tutti i muri della stanza. Era un cambiamento che sua madre aveva fatto in sua assenza. Forse per suggerirgli di ricominciare la scuola, una volta tornato. Non ne aveva idea, sua madre era una donna strana. Non gli aveva neanche chiesto dov’era stato per tutto quel tempo.

«Cosa stai facendo?» gli chiese ad un certo punto, vedendo che Sora aveva appoggiato la pagina piegata sul letto e ne aveva strappata un’altra.

«Una gru» gli rispose Sora, come se fosse ovvio. «Se ne faccio mille posso esprimere un desiderio.»

Riku inarcò un sopracciglio. Sora aveva seri problemi a ritagliare un disegno, visto che si stufava a metà ed iniziava a tranciare bordi e quando andava male anche arti interi.

«Da quando sei capace di fare una cosa del genere?»

Sora scrollò di nuovo le spalle.

«Potresti aiutarmi» disse invece, come se non l’avesse neanche sentito. «Potremmo dividere il desiderio.» Gli fece un sorrisetto appuntito, da folletto. «Oppure potrei cederti la mia metà. Che cosa vorresti, Riku?»

Riku roteò gli occhi.

Oh, santo cielo.

«Niente. Non c’è niente che vorrei.»

Sora rise, come se gli credesse.

Riku scese dal letto e strappò una pagina.



Guardano Sora come se non ci fosse altro da guardare. I confini del mondo chiusi in un bozzolo semitrasparente.

«Cosa farai, alla fine di tutto?»

Sente il loro odore su di lei. Sora e Kairi insieme a formare un’unica persona.

Neppure impregnato di oscurità com’è potrebbe immaginare qualcosa di più orribile.

«Non resterà niente, per allora.»

A volte vorrebbe prenderla per le braccia e farla a pezzi. La smembrerebbe e ridarebbe a ciascuno dei due quello che gli appartiene.

Un po’ di ordine nel suo mondo sottosopra.

«Lo sai che non è vero. » Naminé gli sorride, con una dolcezza spaventosa, inquietante. «Tu puoi scegliere. Non è una cosa che dovresti sprecare.»

Riku fa una smorfia, sotto il cappuccio. Sente la pelle tirare, come se le ossa sotto non la riconoscessero come propria. Ma neanche le ossa sono sue.

«Parli come il Re.»

«Dovresti ascoltarlo, di tanto in tanto.»

Il suo sorriso cambia, lentamente, in una sfumatura contrita.

Eccolo. Arriva sempre. Il momento in cui realizza che non dovrebbe esistere.

«Ma non sono affari miei, non ho il diritto di dirti cosa fare» aggiunge subito, rapidamente, congiungendo le mani piccole e pallide.

La pelle di Naminé è più bianca di com’era la sua. Così vicina a scomparire che è come un miraggio.

Riku guarda il pod, il corpo di Sora che galleggia immobile, profondamente addormentato, come un feto aberrante nel liquido amniotico.

Gli sembra di vederlo crescere di minuto in minuto. La forma un po’ più rigida delle spalle, i pantaloncini che salgono sulle cosce sempre più lunghe.

Sora ha quindici anni, ricorda. È un’età in cui si cresce e si cambia velocemente, e lui ne è la prova vivente. Lo era stato, almeno. Ma non dovrebbe realizzarlo, non con quella lucida, chiara percezione dei cambiamenti che trasformano un adolescente in un uomo, così nitidi sul corpo di Sora che può leggerli come la pagina di un libro, anche se appena sbozzati. L’ha guardato così a lungo che potrebbe dire di quanto sono cresciuti i suoi capelli.

Il tempo non resta immobile, mai. Nemmeno quando è sigillato in una bolla artificiale come quella.

«Siamo morti, Naminé. Solo che non riusciamo a rassegnarci.»

Feti abortiti e malformati. Ecco cosa sono.

Lei lo guarda, gli occhi blu, enormi, immensi. Sono gli occhi di Sora, ma è lo sguardo di Kairi quello. Comprensione esasperante dentro una cornice oscenamente innocente.

Eppure c’è qualcos’altro in quegli occhi, qualcosa che non appartiene a nessuno dei due.

Niente di vivo può essere così rassegnato. Neanche un animale in agonia.

È l’unico motivo per cui non la uccide. Non saprebbe che farsene di tutta quella rassegnazione.

«Non possiamo. Ci sono ancora delle cose che dobbiamo fare.»

Riku appoggia una mano sul pod.

Grande. Forte. Sporca.

La ritira di scatto, come se si fosse scottato.

Una mano che non lo toccherà mai, si ripromette. Che non lo corromperà mai.

«Sì. Poi potremo riposare, finalmente.»

Neanche mentre lo dice ci crede davvero.

Niente è mai stato più terribile del sorriso di distorta comprensione con cui Naminé gli risponde.



Sapeva che sua madre era preoccupata per lui.

Lo sapeva in una maniera distaccata, quasi estranea, totalmente ovvia -come sapeva che l’acqua è bagnata, o che il mare è salato. Lo sapeva con la stessa certezza e lo stesso disinteresse.

La sentiva parlare con i suoi amici, di tanto in tanto. In quel momento le loro voci strisciavano dall’altra stanza, attraverso la porta socchiusa. Sora si era svegliato per andare in bagno, e nel tornare indietro si era dimenticato di chiuderla.

«Sta andando a pezzi.»

Ora dormiva beato, tranquillo, girato verso di lui. Vedeva il suo faccino disteso, rilassato, attraverso la luce che entrava dalla porta. Il perfetto arco delle sopracciglia, l’ombra pronunciata degli zigomi. Si era mezzo scoperto ed abbracciava il lenzuolo come se volesse strangolarlo.

«Da quanto tempo non esce di lì?»

Poteva vedere la curva brusca del bacino spuntare dalle coperte aggrovigliate, le cosce nude sotto l’orlo dei pantaloncini del pigiama.

«Uscirà al momento giusto, ne sono sicura. Al momento giusto.»

«E chi deciderà il momento giusto? Tu o lui?»

Si sarebbe strappato lo stomaco a mani nude solo per accarezzargli le cosce e strizzargli i glutei, per sentire quanto soda era la carne sotto le mani.

«Come osate parlarmi in questo modo? Non è un problema che vi riguarda!»

Avrebbe fatto qualsiasi cosa per toccarlo. Qualsiasi.

«Hai ragione. È tutto tuo.»

«Non dimenticatevelo. Non ve lo ricorderò una seconda volta.»

Avrebbe voluto soltanto che le sue mani non fossero così tremendamente sporche.



Lo sente nello stomaco nel momento in cui lo incontra.

La tentazione senza la colpa.

L’altra metà di Sora senza il suo cuore.

Niente che possa contaminare.

Lui sbatte la testa contro il muro sporco, l’oscurità della città che preme loro addosso come una seconda pelle. Ma non c’è niente che possa rubare ormai. A nessuno dei due.

«Chi sei? Perché lo stai facendo?»

Continua a chiederglielo, incessantemente, anche con le mani legate dietro la schiena e le sue dita che frugano sotto il cappotto nero.

Mani scure sulla pelle bianca. Una distorta simmetria.

«Che cosa sei tu?»

Gli slaccia i pantaloni. Lui fa un ringhio rabbioso, da animale con una zampa chiusa in una tagliola. Si dibatte più forte, ma il suo corpo gigantesco lo inchioda contro il muro.

Con il suo vecchio se stesso avrebbe potuto liberarsi, forse. Ma il vecchio se stesso non l’avrebbe mai fatto. Neanche se quella era la metà di Sora senza il suo cuore.

Lui gratta la guancia contro il muro, tenta di calciarlo via. Un gatto chiuso in un angolo. Terrorizzato e mortalmente pericoloso, come nell’attimo in cui si è svegliato, sbattuto contro quel muro sporco e con le sue mani addosso.

Un gatto spaventato contro una tigre impazzita.

«Non sono niente, come te. E lo sto facendo perché posso. Non c’è nessun altro motivo.»

Lui sta già piangendo quando gli si spinge dentro come un chiodo, senza nessuna gentilezza. DiZ non farà domande. Lo registrerà come registra qualunque cosa, un dato anomalo nel suo tabulato. Un’altra aberrazione da studiare.

Gli girà la faccia per guardarlo. Lui cerca di mordergli la mano, ma Riku lo evita come se il solo tentativo lo sdegnasse.

Ha i suoi occhi. La sua bocca. Le sue guance.

Lo bacia dolcemente su una tempia e gli sposta i capelli dalla fronte sudata e sanguinante.

«Mi ricorderò di te» sibila lui, minaccioso, terrorizzato, la voce rotta tra le lacrime.

Lo fotte come se volesse squartarlo.

«No, non lo farai.»

Sora deve essere altrettanto stretto, altrettanto riottoso, altrettanto caparbio e testardo e bollente. Oh, sì. Riku lo farebbe sciogliere sotto le sue mani, lo renderebbe languido, morbido. Arrendevole. Liquido.

Lo farebbero nel luogo segreto, davanti al disegno che lui e Kairi si sono scambiato nell’attimo fatale in cui Riku ha voltato le spalle. Si prenderebbe tutto il tempo, per non spaventarlo. Lo farebbe godere, con instancabile dedizione e totale, incondizionata adorazione.

Non lo fotterebbe mai in un vicolo sporco come un animale, e mai, mai lo forzerebbe a sopportare il suo tocco, se non lo volesse.

Non lo stuprerebbe mai contro un muro. Non lo sfiorerebbe mai con quel corpo rivoltante. Non lo contaminerebbe mai.

Ma quello non è Sora, e c’è ancora qualcosa che resta, depositato in fondo al suo stomaco.

Gli viene dentro con una spinta rabbiosa, così forte da essere dolorosa, e lui gli sobbalza tra le braccia come un pupazzo di stracci. Deve essere svenuto, alla fine.

«Ora siamo pari.»

Non gli risponde, e Riku pensa che è l’unica cosa che voleva sentire.



«Roxas!»

Si svegliò con un sobbalzo, scattando a sedere come se qualcuno gli avesse conficcato centinaia di aghi nella pelle.

«Chi è stato?» ansimò, prima ancora di inquadrare la figura seduta ai piedi del letto.

Sua madre lo guardò, turbata.

«A fare cosa, tesoro?»

Riku inghiottì, la lingua spessa, enorme nella bocca impastata.

Non c’era nessun vicolo. Doveva solo lasciar sedimentare tutti i ricordi, tutte le cose orribili che aveva fatto e tutte quelle che avrebbe voluto fare, che sussurravano incessanti dentro la sua testa. Le sentiva come un disturbo di fondo, un’eco sommesso.

«A chiamarlo. A chiamare Roxas.»

Sua madre sospirò, scuotendo la testa.

«Sei stato tu. Non te lo ricordi?»

Lo guardava come se non sapesse veramente chi avesse di fronte. Doveva essere turbata. Spaventata. Alla luce incerta che filtrava dal corridoio non riusciva a distinguere nettamente i contorni, le espressioni.

Annuì, il cuore che batteva come un tamburo. Gli girava la testa. Il respiro gli bruciava nei polmoni.

«Sì, mi ricordo. Dov’è Sora?»

Lei piegò leggermente la testa, indicando con un cenno del capo il letto accanto al suo.

«Sta dormendo, proprio lì. Non lo vedi?»

Sentì il cuore che rallentava i battiti, il respiro che diventava meno doloroso. Tutto tornava normale, soffuso, opaco. Si attenuava in una maniera tremendamente consolante.

«Sì, certo. Certo che lo vedo.»

Dormiva tranquillo, per nulla turbato dal suo grido. Probabilmente non lo aveva sentito.

Riku pregò che quella parte dei suoi ricordi non la sentisse mai.

Così sporco. Lurido. Colpevole.

Tutte le cose orribili che aveva fatto. Tutte le cose orribili che avrebbe potuto fare.

Non dovevano toccarlo, nessuna, mai. Mai.

«Chi è Roxas, tesoro?» gli chiese sua madre, lontanissima ormai.

Le rispose, distratto: «Nessuno.»



C’è un altro se stesso a Castle Oblivion.

È incredibile quanto quello che vede lo spaventi a morte.



Fu sua madre a svegliarlo, in un momento imprecisato di un giorno indefinito.

Aveva perso il conto delle ore, del tempo che scorreva. Restava soltanto Sora, e la sensazione orribile di non riuscire più a stare dentro la sua pelle.

«C’è qualcuno sull’isola dei bambini» gli disse, la voce spezzata, incredibilmente spaventata.

Riku sentì l’impugnatura dura e fredda del Keyblade sotto il palmo prima ancora di pensarlo.

«Chi è?» domandò, cercando Sora con lo sguardo. Non c’era. La constatazione gli scese lungo la schiena come una scossa. «Dov’è Sora?»

Saltò fuori dal letto con gli occhi spalancati, il cuore che pompava il sangue nelle vene come se fosse inseguito, pungolato instancabilmente come un animale. Sentiva un ronzio nelle orecchie, lo stomaco contratto in un nodo doloroso.

«Dov’è Sora

Sua madre fece un passo indietro. Una parte di lui si chiese cosa stesse vedendo, appena prima di avvizzire e morire sotto quell’angoscia rabbiosa. Sora era sparito e la voragine dentro la sua testa lo stava inghiottendo.

Così incredibilmente profonda. Giù. Giù giù giù giù giù.

«È… è andato sull’isola.»

Sentì la voce ansiosa di sua madre chiamarlo mentre scendeva di corsa le scale e spalancava la porta, l’oscurità che gli si chiudeva attorno come una confortevole coperta.

Mi sei mancato, diceva. Lui poteva solo ringraziare che Sora avesse scelto di sparire di notte, perché era sicuro che il sole l’avrebbe accecato, riducendolo ad un corpo carbonizzato.

La barca di Sora mancava, al molo. Riku ne prese un’altra e remò fino all’isola dei bambini, l’urgenza devastante che saliva a ritmo con il battito rabbioso del suo cuore.

Così inutile. Fino alla fine.

«Sora!» chiamò, come un lamento. «Sora!»

«Non c’è nessun Sora» gli disse qualcuno, una voce che conosceva. «Solo io.»

Non fece neppure in tempo a realizzare chi aveva di fronte -era impossibile, come poteva succedere?-, che Xaldin gli fu addosso. Sapeva chi era, l’aveva visto mentre seguiva Sora -aveva visto Sora che lo uccideva.

«Perché sei qui? Dovresti essere morto!» ringhiò, cercando di rialzarsi.

Alla luce della luna, l’ombra che il cappuccio proiettava sulla sua faccia lo rendeva ancora più indecifrabile. Ma la sua voce era inconfondibile, come il cappotto dell’Organizzazione, le lance acuminate che gli fluttuavano attorno.

«Devi venire con me» gli rispose semplicemente, senza nessuna inflessione particolare nella voce un po’ roca.

Riku mostrò i denti come un animale.

«Non vengo da nessuna parte.»

Xaldin rise rauco, forte, come il grido di un uccello rapace, e dopo la sua voce rimase soltanto il sangue.

Sora.

Aveva un braccio rotto quando si trascinò a casa.

Sora.

Poteva vedere l’osso bucare l’avambraccio squarciato, la punta frastagliata ed annerita, la pelle lacerata.

Sora.

Sanguinava come un maiale.

Sora.

Sua madre lo stava aspettando sulla spiaggia, insieme ai suoi amici. Lo portarono a casa come un animale ferito. Non ricordava esattamente come, doveva essere svenuto.

Stupido, inutile Riku.

Riaprì gli occhi nel suo letto, con uno degli amici di sua madre che gli fasciava il braccio.

«Non morirà. Non oggi, almeno.» Era alto, magro in una maniera malsana, le occhiaie profonde sotto gli occhi piccoli e neri. Non sapeva che fosse un medico. Non sapeva niente di quelle persone, a dire il vero. «Pensavo sapesse fare di meglio.»

«Piantala, idiota.» La voce di sua madre era secca come un ramo spezzato. Si avvicinò, gli carezzò una guancia. Aveva la mano fredda. Lui si sentiva sul punto di andare a fuoco e sciogliersi in un bagno di sangue. «Come stai, tesoro?»

Si stava perdendo, i suoi contorni che diventavano indistinti. Stava tornando nell’oscurità. Stava tornando a casa.

«Dov’è Sora?»

Non c’era nient’altro nel buio dentro la sua testa.

SoraSoraSoraSoraSora.

Sua madre esitò.

«Qui, tesoro. Non è andato da nessuna parte.»

Sora sbucò da qualche parte dietro l’amico di sua madre, titubante come un bambino colpevole.

«Non sapevo che fossi andato sull’isola a cercarmi» gli disse, avvicinandosi al punto da toccarlo, se solo avesse voluto. «Sono sempre stato qui.»

Riku sospirò, in pace.

«È qui che devi restare.»



Le sente sotto la pelle.

L’invidia. La gelosia.

Ad un certo punto hanno smesso di essere due emozioni distinte, e sono diventate un’unica, devastante ondata di collera divorante. La sente avanzare lungo i nervi, salirgli come acido fino al cervello.

È lui il più forte. Il più intelligente. Il più veloce.

Sora ha il suo cuore, ma lui ha il potere. Non importa se lui ha scelto Kairi. Non importa se non è riuscito ad ottenere l’unica cosa che vuole.

È un Keyblade Master ora, il Keyblade Master. Sora non è più importante.

È stato respinto, in una maniera netta, brutale, per ben due volte, ma se nessun altro lo sa non è così grave, in fondo. Può sempre fingere. Ha finto per così tanto tempo.

Ha finto così a lungo che ha dimenticato il confine esatto tra la verità e le bugie, ma ha il Keyblade adesso, e può ridisegnarlo in un attimo con la punta tagliente della sua chiave. È lui a stabile cosa è vero e cosa è falso, ormai.

Sora non è forte. Non lo è mai stato. È lui ad essere speciale, ed è una compensazione valida, forse. Qualcosa che è l’unico a possedere in cambio di quello che chiunque altro tranne lui può avere. Un rimborso per una menomazione.

Il suo faccino deciso, orgoglioso, mentre brandisce la spada di legno è impagabile.

Dovrebbe arrendersi, adesso. Un’umiliazione per un’umiliazione. Ma se ne vuole ancora, Riku non si tirerà certo indietro.

Lo odia così tanto che vorrebbe solo spezzarlo. Pensava di averlo già fatto, ma forse ha sottovalutato la sua tempra.

Non importa. Lo colpirà ancora, e ancora, e ancora, e quando si sarà finalmente squarciato potrà pensare che in fondo non ne valeva la pena.

Rompilo.

Soltanto un’altra piccola, inutile vittoria.

Fallo a pezzi.

Il sangue in rivolta, il tempo che si sgretola sotto le dita.

«Ho portato Kairi nel luogo segreto, sai.»

«I miei amici sono la mia forza.»

Scartato ancora. E ancora. E ancora.

Sempre secondo, la cosa più facile da lasciare in coda. Come può essere così umiliante, come può essere così crudele?

Spaccalo.

Cammina nell’oscurità, adesso.

Può fingere di non sentire più la sua voce.

Non lo sorprende sapere che da qualche parte, in qualche modo, si è spenta davvero.

È davvero quello che voleva…?



I Nobody in nero continuavano ad arrivare.

Lui e Sora continuavano ad ucciderli.

«Pensi davvero che possa affrontare Xemnas, in quelle condizioni?»

«Ha sconfitto Xeanhort, non dimenticarlo.»

Una risata maligna, come un latrato. «Dove, a Castle Oblivion

«Che importa? Finora non ha mai perso.»

«È convinto di essere ancora sulla sua dannata isola!»

Le voci andavano e venivano come ronzii.

Sora si sdraiò al suo fianco, il corpo magro ed incredibilmente duro premuto contro il suo. Gli sigillò gli occhi chiusi con un bacio.

Riku sprofondò.



Sono di nuovo bambini. Riku sa che non lo sono più da tantissimo tempo, ma ha dimenticato come tornare indietro.

Sora sta trafficando con qualcosa, seduto davanti all’albero di paopu a gambe incrociate. Riku lo vede dal ponticello e gli corre incontro, i colori vividi dell’isola che gli feriscono gli occhi come vetri rotti.

Come aveva fatto a sopportare tutta quella luce, prima?

«Sora! - lo chiama, raggiungendolo - Che stai facendo?»

Lui si gira. Gli sorride come si sorride a qualcuno che stai aspettando da tantissimo tempo.

È tornato a casa, finalmente.

«Una cosa per te» gli risponde Sora, malizioso. Un bambino che sta tenendo a fatica un segreto.

Riku fa il giro del paopu. È incuriosito, anche se non lo ammetterebbe mai.

«Cos’è?»

Sora solleva le mani insanguinate, la corda viscida e bluastra del suo intestino torta in un cappio.

«Saremo migliori amici per sempre, non è vero?»

Il sangue che sgorga a fiotti dal taglio orizzontale sul ventre ha scurito la terra. Sora gli tende le sue viscere come un’offerta.

Il mondo si capovolge e si scompone.



Si svegliò con un grido lancinante, da animale ferito.

Annaspò nel groviglio di lenzuola, riuscendo a liberarsi abbastanza da respirare proprio quando sua madre spalancò la porta, la sua figura sottile come un coltello che tagliava la luce. Gli altri si accalcarono alle sue spalle, una massa nera ed informe.

«Che succede, tesoro?»

Scosse la testa, l’immagine orribile del sogno che gli riecheggiava nel cervello.

Guardò il letto vuoto. La stanza.

Una mano forte e terribile gli strizzò il cuore.

«Dov’è Sora?»

Sua madre tentennò.

«Non lo vedi?»

Lui la guardò come se fosse impazzita. «No che non lo vedo, non c’è! Dov’è Sora?»

«Ha smesso di vederlo. Forse sta migliorando» disse il dottore, l’ombra della sua barba ritorta che disegnava una strana sagoma sul muro.

«Certo, come l’ultima volta» ringhiò un’altra donna, da qualche parte.

Riku scosse la testa, come per spegnere tutte quelle voci sibilanti. «Dov’è Sora?»

«Stai tranquillo, tesoro.» Sua madre gli si sedette accanto. Cercò di toccarlo, ma lui scattò indietro. La testata del letto si schiantò contro il muro.

«Dov’è Sora

«E quella sarebbe la nostra unica arma contro Xemnas? Un ragazzino a pezzi!» commentò sdegnata un’altra voce, come un fruscio.

«Finora ha funzionato» scattò sua madre. Un serpente nel deserto.

Qualcuno sbuffò. La sua pelle sembrava azzurrognola, malsana. Chi era quella gente? Dov’era Sora?

«Funziona solo finché non ricorda. Poi… beh, guardalo.»

La donna rise. Aveva una voce rauca, maschile quasi. Così fuori posto.

Tutto era fuori posto.

Dov’era Sora?

«Povero piccolo. Ha fatto così tanta strada nella sua testa che è un peccato che non si sia mai mosso da Hollow Bastion.»

Si artigliò il cranio. Perché non se ne andavano e non lo lasciavano in pace?

Doveva trovare Sora.

Sì, doveva trovarlo.

Si sarebbe alzato, appena le voci si sarebbero spente, e lo avrebbe cercato.

Il dottore -dottore?- si tirò la barba. Si arricciò nel momento stesso in cui la lasciò andare, come una molla. «È quasi interessante il modo in cui ha rielaborato quello che ha sentito. È convinto di averli sterminati tutti. Di essere tornato a casa.»

«Con i suoi amici. Com’è tenero.» L’uomo con la pelle azzurrognola rise piano. «Se solo sapesse di averli ammazzati.»

«State zitti» sibilò sua madre, soffiando come un gatto.

Sora non poteva essersene andato. L’avevano di certo portato via. Di certo.

Doveva alzarsi e trovarlo. Doveva ucciderli tutti.

La testa sembrava sul punto di spaccarsi come un frutto maturo. I nervi torturati pulsavano.

Dov’era Sora?

«Due in un colpo solo. E senza nemmeno sapere che il cuore della ragazza era dentro il suo amichetto.»

«Il nostro eroe.» Le risate riecheggiavano rauche come strida. «Il nostro Keyblade Master

Zitti.

Zittizittizittizittizittizitti.

Si conficcò le dita nel cranio. Voleva tirarli fuori da lì, non voleva udire più niente.

Sentiva il cuoio capelluto tendersi sotto le dita, la durezza dell’osso.

Se avesse spinto più forte sarebbe entrato e li avrebbe estirpati come edere velenose.

Dov’era Sora?

«Ora basta» ringhiò sua madre, picchiando per terra il bastone -bastone?-. «Ricordate chi dovete ringraziare per essere ancora vivi. Sono io che vi ho riportati indietro, dopo che Sora vi ha uccisi tutti!»

Anche il dottore aveva in mano un bastone. Lo pestò sul pavimento, come un colpo di gong. «Per fare da balie al tuo ragazzino, certo. Grazie, Maleficent. Ne sentivamo proprio il bisogno.»

«Quando arriveremo a Kingdom Hearts…»

«Non sarà mai troppo presto.» Gli sbatté in faccia la cima del suo bastone, gli occhi rossi del cobra che brillavano come pietre preziose colpite dalla luce. «Ricorda quello che è successo, Riku. Sora ti ha sconfitto. Avete chiuso la porta. Castle Oblivion. Il mondo che non esiste. Ricorda.»

La sua caduta. La sua redenzione.

Ancora così sporco, ancora così solo. Dov’era Sora?

Si toccò il braccio che Xaldin gli aveva rotto. Si era saldato velocemente, ed ora teneva solo una fasciatura bianca. L’aveva coperta con uno scaldamuscoli.

No, era successo prima. Nell’oscurità.

Da qualche giorno zoppicava. Era stato Lexaeus, giù al borgo.

No, era stato Xemnas. Nel mondo che non esiste.

I ricordi si rimescolavano nella sua testa. Il suo cuore batteva sempre più lentamente, come un animale in agonia. Il suo respiro rallentava, si cristallizzava.

Non sono ancora abbastanza per restare, Sora?

Si tastò la fronte. Le sopracciglia erano rimaste corrugate così a lungo che distenderle fu quasi un dolore. La luce era accecante.

«Ho bisogno di una benda» disse piano, toccandosi la faccia come se non fosse del tutto certo che fosse la sua.

Era la sua. Il corpo di Xeanhort era andato alla deriva da qualche parte.

Abbassò lo sguardo.

Sora era lì, sdraiato al suo fianco, come se non si fosse mai mosso. Respirava piano, profondamente addormentato. Riku avrebbe voluto toccargli una spalla per sentirne il calore, ma non lo fece. Non lo toccava mai.

«Potreste stare zitti? Finirete per svegliarlo» sussurrò, come se fosse l’unica cosa importante al mondo.

Lo era.

Sua madre allungò una mano e gli accarezzò una guancia. Così dolce. Così oscena. Neanche la vide.

«Certo, piccolo. Andiamo via subito.»

Uscirono tutti, ma lui non li sentì.



Il cappio tra le sue mani brilla di una strana luce, come sangue sotto il sole.

Sembra incredibilmente viscido. Pensa che il nodo non durerà, ma non glielo dice.

Sora vede le cose nascere. Lui le vede morire.

Se lo infila attorno al collo, caldo, scivoloso, orribilmente molle sotto le sue mani. Non gli sfugge neanche una volta, constata incredulo.

«Migliori amici? - ripete Sora, come una supplica - Per sempre?»

Il cappio si stringe. Sangue sui suoi capelli, sui suoi vestiti. Riku sorride, mentre i colori incredibili dell’isola scintillano come il sole riflesso in uno specchio.

Non c’è più niente di cui aver paura, ormai.

«Certo. Per sempre.»



Live with the Black Sheep, live with me.



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Note dell’autrice:

Tutto questo tempo e torno con… questa. WTF non chiedetemi da dove è uscita, stavo ascoltando Black Sheep dei Sonata Arctica ed ho deciso che mi mancavano le RiSo tragiche e Maleficent *_*; (e Naminé ;O;)

Così ecco la storia. È anche la mia primissima what if per Kingdom Hearts, sono quasi commossa ;_; Spero che sia comprensibile e tutto il resto, se non la capite ditemelo che le prossime vedrò di scriverle più chiare.

La canzone citata è appunto Black Sheep dei Sonata Arctica.

Sono stata a lungo indecisa sul rating, ma non mi sembrava ci fosse niente di così esplicito e grafico da turbare giovani menti, così dopo aver consultato la Caska ho optato per R è_é

Altro… mh. Amo il RiSo ;_; Amo Riku fuori come un balcone ;_; Scrivetene di più, accidenti XD

Lasciatemi qualche commentino se passate di qua, così ne avrete ancora e ancora<3

Seli



  
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