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Autore: Fonta_S18    30/03/2015    0 recensioni
Due vite distrutte possono aiutarsi a rinascere?
Quando si è talmente tanto sopraffatti dal dolore da non riuscire a versare nemmeno una lacrima, quando non si è più fieri di ciò che siamo voluti diventare, si può davvero cambiare?
Un ragazzo e una ragazza che hanno perso la consapevolezza di chi sono davvero, un abbraccio che sembra unirli per un solo istante.
E tutto ciò che resta è una parola appena sussurrata "Libera."
Genere: Malinconico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Ehi amico, hai per caso una sigaretta?”

 

Mi voltai e vidi un ragazzo biondo che mi sorrideva speranzoso di ricevere quello che aveva chiesto.

Controllai il mio pacchetto: mi restavano solo due Lucky Strike.

Era una fresca e limpida serata di luglio, ero ad una di quelle rumorose ed affollate feste in spiaggia e devo dire che mi stavo divertendo come non succedeva da settimane ormai.

“E' la tua sera fortunata, ecco tieni.”

Gli allungai una sigaretta, lui mi ringraziò augurandomi un buon proseguimento e scomparì dietro ad una ragazza bionda platino con un vaporoso vestito rosso.

Vagabondai un po per il locale ''fai da te'' in legno, costruito apposta per la festa.

Ovunque era pieno di persone felici, non importava se lo erano davvero, l'importante era che lo sembrassero.

Pensai che dopotutto le persone nel mondo reale non erano così diverse.

Ordinai l'ennesimo drink al bar, di certo l'alcool non poteva che aiutarmi ad essere felice.

Ad un certo punto inquadrai da lontano la mia cara amica Sam, ero venuto con lei stasera, aveva detto di voler passare la serata con me per risollevarmi il morale.

Alla fine aveva trovato un 'fusto', come diceva lei, ed aveva deciso che potevo rallegrarmi da solo.

Incrociai il suo sguardo e le feci un cenno con la testa, lei mi sorrise e tornò ad occuparsi della bocca, o meglio lingua, del gran fusto.

Tutto d'un tratto mi sembrava di essere rinchiuso in uno spazio minuscolo, così decisi di andare fuori e mi appoggiai alla ringhiera.

Il mare continuava a muoversi nel suo ciclo impetuoso di onde che caricavano per poi rompersi miseramente sulla riva ed infine si ritiravano verso l'orizzonte come un guerriero sconfitto.

Tutta quella lotta mi ricordava ciò che avevo perso poco tempo prima, e mi rendeva triste.

Buttai giù un lungo sorso del mio cocktail, come se servisse davvero per dimenticare quel che era successo, come se servisse davvero per scrollarmi di dosso quell'orrenda sensazione.

I miei genitori erano morti, mia sorella era morta.

Tutta colpa di un qualsiasi stupido quarantenne ubriaco che aveva deciso di mettersi al volante.

''Credevo di poterlo fare'' aveva detto alla polizia, la verità è che non siamo quasi mai davvero in grado di fare qualcosa se all'inizio della frase c'è un 'credo'.

La loro morte era stata una vera e propria caduta nel vuoto.

Una di quelle cadute sofferte, che fanno una paura micidiale, che ti stringono lo stomaco e ti fanno piangere, una di quelle che sogni la notte e ti ritrovi poi per sussultare dallo spavento.

Eppure non avevo pianto, nemmeno una lacrima.

Non avevo pianto al funerale, nemmeno mentre mi disfacevo della loro roba.

Non piangevo mentre mi facevano le condoglianze e nemmeno mentre guardavo i loro cadaveri ancora pieni di contusioni e sangue per il riconoscimento.

Non vedevo la mia famiglia da mesi, io vivevo lontano.

Eppure mi erano mancati, ogni singolo giorno, nonostante ciò che era accaduto prima che morissero, nonostante non li vedessi da mesi..loro mi mancavano, ora che non erano più con me.

Eppure non piangevo.

“Ho sempre amato il mare, eppure ora sembra così triste...” disse qualcuno al mio fianco.

Mi ripresi dai miei brutti ricordi e guardai chi mi stava parlando.

Era una ragazza alta, mi arrivava alla spalla, ma sembrava enormemente piccola e debole.

L'impressione di quella sua fragilità era sicuramente data dal suo fisico: era incredibilmente magra.

Aveva delle lunghe braccia sottili, degli zigomi alti e riconoscibili, due occhi verdi attenti ed una piccola bocca rosa.

Portava un vestito blu notte in raso, era abbastanza aderente da riconoscere le magre forme dei suoi fianchi, da quel tubino uscivano due gambe slanciate la cui circonferenza però superava ben di poco quella già piccola delle braccia.

Non era particolarmente truccata, aveva soltanto un rossetto chiaro e del mascara nero, la sua pelle bianca sembrava quasi splendere un poco incontrando la luce della Luna, che oltretutto era davvero grande quella sera.

Le sue ditina ossute tenevano in mano un bicchiere che sembrava davvero troppo grande per una persona così piccola.

“Vengo spesso a nuotare qui prima di cena, ma l'acqua non mi è mai sembrata così triste e scura...per caso sei triste?” mi domandò girandosi verso di me.

Senza apparente motivo continuai a guardarla per un'altro intero minuto.

Non riuscivo a capirlo bene, ma qualcosa in quella ragazza mi aveva completamente rapito.

“Dici che il mare lo capisce?” riuscii a risponderle infine.

Lei si voltò ancora verso l'acqua ed annuì piano.

“Credo sia l'unico a capire tutto.”

Restammo a guardare le onde ancora per un po', poi senza dire nulla lei si avviò verso la spiaggia e io mi sentii in dovere di seguirla.

Camminammo sul lungo mare, lei a piedi nudi ed io ancora con le scarpe.

Non parlammo, era un silenzio piacevole, uno di quelli che vuoi e puoi condividere con poche persone, un silenzio che riempie tutto ed è per questo che non c'è bisogno di dire altro.

E' un silenzio che nasce e vive da solo, un silenzio che rassicura, in qualche modo.

Alla fine si sedette sulla spiaggia in modo che le onde la bagnassero appena, io rimasi in piedi dietro di lei.

Più lontano, sul lungomare, vidi il ragazzo che mi aveva chiesto la sigaretta assieme alla bionda di prima.

Si stavano baciando in modo appassionato, il vestito di lei si muoveva in modo confuso quando rideva, la gonna larga si spostava a destra e sinistra in modo convulsivo mentre lei apriva la bocca in una grassa risata in risposta a ciò che lui le stava sussurrava all'orecchio.

Pensai che probabilmente non avevo mai avuto quello che avevano loro, non avevo mai avuto quella spensieratezza in compagnia di una donna.

Avevo avuto le mie storie, certo.

Ma loro sembravano essere perfettamente collegati, ad un gesto di uno corrispondeva una reazione dell'altra.

Io non avevo quel tipo di rapporto nemmeno con la mia attuale ragazza, anche se la nostra storia era cominciata anni fa.

Pensare a Savannah mi fece rattristare ancora di più, probabilmente ora mi odiava, probabilmente stava chiusa in casa a piangere, ma se anche fossi tornato indietro non avrei avuto il coraggio di comportarmi in modo diverso, da vero uomo.

Notai che anche la ragazza in blu li stava osservando, notai che anche lei li guardava come li guardavo io: con risentimento ed un po' d'invidia.

Si spostò i lunghi capelli neri dietro la schiena e sospirò.

“Mi piaceva quella festa..ma tutti fingevano di essere così felici..credo che nel mondo reale le persone non si comportino in modo molto diverso, sai?” disse guardando ancora il mare.

Sentii un tuffo al cuore.

Aveva pensato esattamente ciò che avevo pensato io.

Fissai il mare e notai che si era calmato.

“Hai guardato tu il mare ora e si è calmato, sei felice per caso?”

Mi rispose con decisione, con una voce che non sembrava nemmeno poter appartenere ad un corpo così gracile.

“No, non sono felice. Ho deciso solo di smetterla di essere triste per qualcosa che non posso più cambiare.”

Mi strinse appena una caviglia con tutta quella poca forza che aveva in corpo.

Poi alzò la testa verso di me.

“Dopotutto non ha senso portarsi sempre dietro tutta questa tristezza, no? Tanto vale farla uscire tutta subito.”

La guardai intensamente, e piano piano lei mi sorrise.

Allora pensai in un solo secondo a mio padre, a mia madre, a mia sorella ed infine pensai anche a quella ragazza che mi teneva stretto la caviglia come se potessi fuggire da un momento all'altro.

E cominciai a piangere, silenziosamente, in modo calmo e pacato cominciai a piangere.

Non era un pianto di disperazione o dolore, era solo il pianto di qualcuno che aveva cercato di essere forte per troppo tempo.

Per tutto quel tempo mi ero detto “Credo di potercela fare” esattamente come aveva fatto quell'uomo al volante quella sera.

Ma, come ho già detto, non siamo quasi mai davvero in grado di fare qualcosa se all'inizio della frase c'è un 'credo'.

La ragazza mi guardò perplessa per un secondo, poi annuì e si alzò.

Mi strinse in un abbraccio che doveva essere grande, ma date le dimensioni di lei sembrava molto piccolo.

Ma questo poco importava, importava che fosse un'abbraccio caldo, rassicurante e concepito con il fine di smetterla di essere tristi.

E lo era, cacchio se lo era.

Dopo essermi preso tutto il tempo per lasciarmi andare all'idea di smetterla di essere triste le chiesi una cosa.

“Come ti chiami?”

Lei strofinò la guancia contro l'incavo tra la mia spalla ed il mio collo, come un'animale che cerca casa, oppure uno che vuole nascondersi.

Poi avvicinò le labbra al mio orecchio ed in un solo sussurro mi disse piano il suo nome, come se nessuno dovesse saperlo, come se qualcuno potesse rubarglielo.

“Libera, mi chiamo Libera.”

 

  
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