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Autore: Alex Wolf    06/04/2015    1 recensioni
Storia prima denominata "La frusta dell'esorcista."
Dal capitolo 7°.
«Siete spregevole!» La mano di Thierry sfiorò la mia guancia, prima che la mia stessa Innocence gli imprigionasse il polso in una morsa ferrea. Riuscii a vedere il mio riflesso nei suoi occhi sorpresi, spaventati: una macchina assassina che non prova pietà per nessuno, neppure per coloro che combattono nella sua stessa fazione.
«Sono un diavolo, scelto da Dio ma pur sempre un diavolo, e in quanto tale è nella mia natura essere spregevole» sibilai, strattonandolo da una parte. Il corpo dell’uomo volò attraverso la foschia, tagliando la nebbia e creandovi un corridoio che si andò a riempire qualche minuto dopo il suo passaggio; dopo di che, atterrò sotto l’albero del Generale. Richiamai a me l’innocence, tornando a vedere a colori abitudinari e sistemai entrambe le braccia sui fianchi. Gli puntai un dito contro, affilando lo sguardo quasi a volerlo tagliare. «Prova a sfiorarmi ancora e la tua vita finirà in quell’istante.»
Genere: Generale, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Allen Walker, Nuovo personaggio, Rabi/Lavi, Un po' tutti, Yu Kanda
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 12.


Verso Edo.



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Il tempo corre per tutti.
 

Ancora non potevo crederci. Con tutte le terre emerse e i mari che le dividevano la mia fortuna sembrava essersi persa; affondata negli abissi più reconditi e oscuri. E più li osservavo più ne ero certa.
«Avanti, mangia qualcosa figliolo.» Inarcai le sopracciglia, scuotendo il capo. Si, la consapevolezza che la mia fortuna fosse svanita chissà dove cresceva di momento in momento.
«Tzk, ti ho già detto che non sono tuo figlio!» Kanda allontanò con il piede il Generale Tiedoll, costringendolo alla lontananza. Il volto una maschera di rabbia crescente. «STAMMI LONTANO!»
Idioti, non riuscivo a pensare ad altro. Mi ero imbattuta nella squadra di Tiedoll durante un cambio di nave e da allora non avevo più avuto un attimo di pace. Per quanto Kanda m’ignorasse, ed era una cosa reciproca, Marie e il Generale tentavano continuamente di conversare. Volevano farmi sentire parte della squadra, ma io non volevo avere nulla a che fare con loro. Avevo un obbiettivo, e l’avrei portato a termine senza distrazioni.
«Il Generale», Marie si avvicinò un poco a me e sorrise, «è fatto a modo suo. Ma è una brava persona.»
«Si, si, lo so lo so.» Mi stiracchiai un poco, alzandomi. Poi, senza dire una sola parola mi avviai verso l’uscita.
«Vai a prendere un po’ d’aria?» sussurrò Marie, indicandomi con le bacchette del proprio pranzo la porta della cabina.
Mi voltai a guardarlo, annuendo. «Qui dentro ci sono troppi idioti.»
Percorsi il ponte con pigrizia, guadagnandomi qualche occhiata dai vari marinai che erano intenti a lavorare e pulire. Negli ultimi tempi tutti tendevano a ignorarmi, per via del mio brutto carattere e la strana aura che mi circondava ma a me non importava. Tutta quella diffidenza non mi toccava nemmeno un poco, scivolava sulla mia pelle sfregiata come olio.
 Mi poggiai alla ringhiera della nave, in ascolto del mare che ne lambiva lo scafo. Quell’immensa distesa di azzurro brillante si allungava fino all’orizzonte, dove poi si fondeva con il cielo. Produceva un rumore dolce, quasi soave. Era rilassante e strano al tempo stesso. Sebbene avessi viaggiato più volte in nave non mi ero mai realmente fermata ad ascoltare le sue canzoni. Neppure una volta. Affondai una guancia contro il pugno chiuso, sospirando. Che cosa mi ero persa per tutto questo tempo. Mi domandai se, a contrario di me, Lenalee l’avesse mai ascoltato a dovere il linguaggio segreto delle onde, se avesse mai letto fra le righe degli strepiti dei gabbiani che si gettavano in mare e nel soffio del vento frizzantino. Mi ritrovai  a pensare se Allen e Lavi, persino Kanda che come me tendeva a isolarsi da ogni cosa,  avessero pensato, almeno una volta tanto, a queste cose. Poi scossi il capo, risvegliandomi dal sonno apparente in cui mi ero gettata. Non potevo perdermi in queste cose. Prima di farlo dovevo raggiungerli, e anche in fretta. 
Affondai le mani nei capelli, più corti di prima, e tirai un poco. Era strano non sentire i fili scuri intrecciarsi nelle dita dietro la testa, ma rasarli era stato l’unico modo per nasconderli completamente alla vista. Fortunatamente, le ciocche nere si erano rivelate più numerose di quelle bianche e più lunghe del previsto, e riuscivano a coprire ogni cosa. Era strano, ma restavo sempre io: con qualche ciocca più corta, certo, e uno strano e contorto insieme di righe sulle braccia.
A un tratto dei brusii attirarono la mia attenzione. La nave aveva preso a rallentare, le voci a salire e, dopo qualche secondo, avevo iniziato a riempirmi di nervosismo. Perché volevano far durare quel dannato viaggio più a lungo del previsto? A quanto ne sapevo la squadra Cross era ancora in Asia, se non mi muovevo subito non li avrei raggiunti in tempo per unirmi a loro, per viaggiare verso Edo. E non potevo permettermelo. Io dovevo esserci.
Perciò, mi allontanai dal parapetto dell’imbarcazione e mi diressi verso il lato opposto. Il lungo soprabito che copriva la divisa sventolò ai miei piedi, creando come una seconda ombra più scura, che ricordava l’inchiostro. Frusciò un’ultima volta, l’abito, prima che mi fermassi alle spalle dei marinai. «Beh, perché ci siamo fermati? Io non ho tutto questo tempo da perdere» asserii, incrociando le braccia al petto.
«S-signorina», cominciò un ragazzo alquanto giovane. Aveva gli occhi di un animale impaurito, nei quali il predatore trova piacere nell’osservare il proprio riflesso. «Ci dispiace, ma i resti di una nave bloccano il passaggio. Dovremmo aggirarli per non apportare danni alla nave, perc-»
Inarcai le sopracciglia, annoiata. Detestavo le scuse campate in aria e tutto quel tempo sprecato in parole inutili, mentre si potrebbe lavorare. «Tzk, smetti di giustificare questo ritardo e datevi un mossa.» Spostai il mio sguardo dal suo viso al mare e mi sentii tremare dentro. Con la coda dell’occhio lo individuai: un movimento che attirò la mia attenzione.
«Fatti da parte.» Lo spinsi via in malo modo, iniziando ad allontanare tutti quelli che si mettevano sulla mia traiettoria. Solo quando riuscii ad affacciarmi al parapetto mi accorsi del fatto che, sebbene non me ne fossi resa conto prima, il mio cuore aveva smesso di battere.
Li nell’acqua buia e nera dell’ombra della nostra barca, che si scontrava contro lo scafo, stava la divisa nera e argentea di un’esorcista. Alzai il volto a scandagliare i resti dei detriti che galleggiavano più avanti. Cercavo, col cuore in gola e la paura negli occhi. Uno scintillio, un’altra divisa. Ma non la sua. Cercai ancora, convulsamente oserei dire, finché una gonna che aveva continuato a galleggiare fino a quel momento nei pressi di qualche tavola non mi saltò agli occhi. Allora sentii un peso sulle spalle tremendo, e uno squarcio sul cuore ancora più doloroso.
Lenalee.
Ma non poteva essere morta. Non lei. Afferrai il legno del parapetto e lo strinsi forte fra le mani, Rose che pulsava dolorosamente. Doveva essersi salvata in qualche modo. Tutti dovevano aver trovato almeno una via di fuga! «Povera gente» diceva intanto un vecchio marinaio, scuotendo la testa. «Probabilmente si stavano dirigendo in quella città infestata e la sfortuna li ha colpiti.»
«Parlate di Edo?!» La mia voce uscì dalle labbra con velocità e convinzione, secca. Gli occhia verdi dell’uomo si allargarono e rimpicciolirono svariate volte, mentre mi puntava una mano al cuore come per tenermi lontana. L’avevo spaventato, ma non m’importava.
Partii in gran carriera e gli strinsi le mani sulle spalle, scuotendolo un poco. Il marinaio spostò le mani in avanti e tentò di allontanarmi, inutilmente. Anche se ero una donna e lui un marinaio che si era fatto i muscoli negli anni, ero più forte e determinata. Non avrei lasciato che mi spostasse finché non mi avesse risposto.
Intensificai il mio sguardo fino a che non iniziò a mutare e le forme cambiarono colore. Rose si arrampicò di nascosto sul mio braccio, in modo da non essere vista. Il vecchio sgranò gli occhi e urlò un poco. «Quanto dista da qui, quella città? QUANTO?!»
«Fo-forse qualche ora, forse un giorno, i-io non lo so» ammise, parandosi il capo con gli avambracci. «Non mi sono mai informato troppo, su quell’inferno vivente.»
«Tzk.» Lo spinsi via, e lui dopo aver arretrato di qualche passo cadde fra un gruppo di corde. Quando mi voltai, l’intero equipaggio e i pochi ospiti mi stavano osservando impauriti. «Che c’è da guardare?!» Ognuno abbassò o distolse lo sguardo.
E fu un attimo. L’uomo si rialzò, come mosso da invisibili fili trasparenti, e si scagliò verso di me con brutalità. Rose fremette, portandomi a voltarmi in tempo per vederlo arrivare. Aveva una smorfia orrenda sul viso cotto dal sole, che mi portò a ridere mentre saltavo all’indietro evitandolo. Il suo pugnò andò a vuoto, ma questo non sembrò scoraggiarlo. Intanto nessuno osava intervenire, troppo presi dal combattimento o attanagliati dalla paura di farsi male. Avevo il cuore che batteva a mille per l’adrenalina. In quel momento ringraziai silenziosamente gli anni passati ad allenarmi con un istruttore esperto all’Ordine. Adesso che non potevo usare l’Innocence a piena potenza sulla nave (in quanto eravamo troppo vicini a Edo e questo ci avrebbe fatti scoprire) le mosse rimaste chiuse nei cassetti della mia mente per tanto tempo erano pronte a uscire.
Sorprendentemente, mi ritrovai a evitare ogni colpo con precisione. Mantenni il mio sorriso, quasi con strafottenza, mentre il viso dell’uomo si imperlava di sudore e diventava sempre più accigliato. «Che c’è , vecchio, è tutto quello che sai fare?» Mi abbassai veloce, distendendo una gamba e ruotando: lui cadde a terra come un sacco di patate.
«Strega» sibilò, rialzandosi veloce.
«Mi hanno dato soprannomi peggiori.» Alzai le spalle e feci un salto all’indietro, poggiando le mani sul legno rovinato dal tempo per poi darmi la spinta e atterrare dolcemente sulle piante dei piedi. Due dei marinai alle mia spalle si spostarono, veloci come il vento.
L’uomo serrò la mascella, in un primo momento pensai che volesse abbandonare ma quado lo vidi correre nella mia direzione mi lasciai sfuggire l’ennesimo sorriso. Avanzò come un bufalo, sicuro di se e con il pugno alzato. Mi mossi in fretta, arretrando un poco ancora. Lanciando uno sguardo alle mie spalle notai che ero praticamente attaccata al corrimano che ci divideva dal mare. Tornai all’uomo: era vicino, ma potevo farcela. Dovevo essere più veloce del morso di un serpente. Aspettai che mi raggiungesse prima di scansarmi di lato e poggiargli le mani sulle spalle. Concentrai la forza sulle braccia, sollevandolo quel tanto che bastava per ribaltarlo e gettarlo fuori bordo.
Lui cadde, accompagnato da un sonoro rumore di onde infrante e di spruzzi d’acqua, che s’innalzarono verso il cielo simili a splendide sculture temporanee.
«Tzk.» Scrocchiai le nocche, voltandomi verso gli spettatori. Nessuno disse nulla, tranne qualcuno che stava cooperando per ritirare a bordo il proprio compagno.
Un gabbiano cantò in lontananza, rompendo il silenzio che si era andato a creare. Assieme a lui, quasi a volerlo accompagnare, un porta cigolò. Il rumore di passi veloci si diffuse sul ponte della nave, fino a fermarsi poco dietro di me. Con la coda dell’occhio colsi i tratti di Marie, attento alla situazione che lo stava circondando. Kanda, affianco a lui, sembrava scocciato come al solito.
«Evangeline-chan» sussurrò una voce dolce «va tutto bene, cara?» Il Generale mi poggiò una mano sulla spalla e, impercettibilmente, mi spinse indietro. Feci per ribattere quel gesto ma poi mi fermai: non era il caso di attaccar nuovamente briga.
Tiedoll avanzò, con quel suo solito sorriso rilassato sulle labbra. I marinai fermarono il proprio lavoro, per l’ennesima volta, e si voltarono a guardarci. L’uomo che poco prima era rotolato in mare era stato riportato a bordo, e adesso si stava alzando, venendoci incontro. Era rosso in volto, sicuramente si era appena accorto di aver avuto paura, di essere stato battuto di una ragazzina appena diciasettenne.
«Tutto bene» borbottai, incrociando le braccia al petto. «Questo qui», con un cenno del mento gli indicai l’uomo di fronte a noi, «si è solo scaldato un po’ troppo e così l’ho aiutato a raffreddarsi. Tutto qui.»
«Piccola str--» Tiedoll gli poggiò una mano sulla spalla, nascondendolo alla mia vista.
«La nostra imbarcazione è pronta?» chiese semplicemente, e mi parve di vedere l’omone deglutire, nuovamente spaventato.
 
 
Il mare brillava, mentre scivolavamo veloci sulle sue onde. Le forti braccia di Marie remavano con forza, aiutate dall’Innocence con fattezze umane del Generale che ci sospingevano sempre più avanti. In lontananza stava scomparendo la nave sulla quale avevano viaggiato, con tutti i suoi stupidi marinai. Ero così felice di essermela lasciata alle spalle, anche se tutto quel trambusto che avevo causato mi aveva divertita un poco. Le vecchie tecniche funzionavano ancora a dovere.
«Evangeline, figliola», osservai Tiedoll corrucciata, avrei voluto rispondergli ma sapevo che questo non l’avrebbe dissuaso dal chiamarmi così perciò mi limitai a sbuffare, «è stato Sokaro a insegnarti a combattere così?»
«Tzk, quell’armatura che cammina? Ovvio che no.» E distolsi lo sguardo, tornando all’infinito orizzonte dove cielo e mare si fondevano. «Per utilizzare quelle tecniche ci vuole anche un cervello, cosa che lui non sembra possedere.»
«E allora c-»
«Qualcuno della squadra speciale di combattimento “corvi”, del dipartimento segreto dell’ufficio centrale» tagliai corto, attirando così l’attenzione dei tre esorcisti. Marie mi osservava sorpreso. «Komui ne chiamò uno dopo che tornai dai due mesi di addestramento con Sokaro.» Solo a ripensarci mi ritrovai a socchiudere le palpebre, chiedendomi quanto il Supervisore avesse sudato per far si che qualcuno accettasse di inviarlo alla sede appositamente per me. Solo per me.
«Dicono che quei combattenti siano i più letali dell’ordine, se escludiamo alcuni esorcisti» ammise Marie, smettendo di remare. La barca, tutta via, non si fermò.
«Così pare» annuii, annoiata. Era strano parlarne però, mi sentivo un po’ come in debito. Solo pensando a quelle lezioni private si era aperta una porta immensa che mi aveva ricondotta a ogni cosa che Komui aveva fatto per me. Più mi fermavo a rimuginarci sopra più l’odio che avevo iniziato a provare il Supervisore quella sera si attenuava. Si placava un poco, quel sentimento così crudele, ma riemergeva subito dopo quando le sue parole tornavano a sfiorarmi.
«Non sono io che volevo affidarti questa missione, ma i piani alti ti hanno ritenuta adatta e perciò ho dovuto sottostare alle loro regole, ecco la verità.» Con velocità si inginocchiò davanti a me e poggiò le sue mani sulle mie ginocchia. «So cosa stai per dire: “non toccarmi!” ma ascoltami bene: almeno questa volta io vorrei che seguissi meno l’istinto e di più il cervello, Evangeline.»
Strinsi con forza i pugni e li battei sul corrimano della barca con talmente tanta forza che, se non ci fosse stato il fantoccio di Tiedoll a sorreggerci, si sarebbe capottata. Gliel’avrei fatta vedere io, a quel buffone scansafatiche. Se lui non voleva vendicare Lenalee a dovere, perché la verità era che era debole e non poteva fare nulla di concreto, sarei stata io a squartare qualche corpo con la forza bruta.
«A cosa stai pensando, Evangeline-chan?» chiese il Generale, restando a una buona distanza di sicurezza.
Alzai gli occhi nella sua direzione e assottigliai lo sguardo. «Che li ucciderò tutti» ringhiai sommessamente. «Li sventrerò finché non saranno talmente vuoti da assomigliare a un vaso.» Il rumore della mia pelle che si tirava sembrò lo stesso di una frustata.
 
Anita.


Fra le numerose scartoffie di cui doveva occuparsi una in particolare aveva attirato la sua attenzione. Seduta dietro una scrivania, era intenta a leggerla. Sui fogli bianchi come la neve le prole stampate sembravano ferite fresche, sanguinanti. E la foto del compatibile, che si presupponeva dovesse essere attuale stonava con la descrizione: nessuno si era mai preso la briga di aggiornare quel fascicolo. Forse avrebbe dovuto farlo lei…
Sospirò, mettendosi le mani nei capelli chiari per poi tirarli un poco. Non riusciva a capire come mai ma, dopo tutte le parole cattive che negli anni quella giovane le aveva riservato lei ancora non riusciva ad odiarla. Eppure, avrebbe dovuto. Perché non ci riusciva?
«Buon giorno, Anita.» La giovane alzò gli occhi azzurri ad incontrare quelli dell’interlocutore, e sorrise. «Buon giorno a te, Reever.» Reever la guardò per un secondo prima di arrossire e spostare lo sguardo verso la scrivania. D’un tratto, le sue sopracciglia si corrugarono.
Lo scienziato poggiò le proprie scartoffie su una scrivania li vicino e, aggirando il tavolo della giovane, le si posizionò vicino. Lei poteva sentire i loro corpi sfiorarsi, ma non poteva vedere il viso rosso del ragazzo australiano che stava piegato sopra la sua spalla.
Con un movimento veloce, un po’ impacciato, il Caposezione afferrò il fascicolo che prima stava osservando e lo esaminò. Poteva vedere solo gli occhi spuntare da dietro quella cartella, e vi leggeva dentro tante cose: curiosità, confusione e un po’ di tristezza. «Guarda com’era piccola qui» si ritrovò a sospirare l’uomo, abbassando le scartoffie per sfoderare un largo sorriso. «E’ incredibile: non si direbbe nemmeno lei.»
«Troppo carina, vero?» domandò gentilmente Anita, accavallando le gambe prima di girarsi verso di lui, che si era seduto contro il margine della scrivania.
«Sembra una bambolina di porcellana», ammise Reever, «anche se lo sguardo è lo stesso di oggi.» Poi, come appena risvegliatosi da un sogno improvviso, il Caposezione staccò gli occhi dalla piccola foto e li indirizzò alla collega. «Come mai stavi sfogliando il suo fascicolo? Hai avuto qualche sua notizia?» chiese.
Anita scosse il capo, incrociando le braccia al petto e disse: «No, nulla. Nemmeno la più misera delle frasi.» Sospirò, ma non rivelò all’amico che era preoccupata. Certo, Reever sapeva del tipo di Innocence di Evangeline –era l’unico oltre lei della Sezione Scientifica ad esserne a conoscenza- ma non era al corrente degli ultimi fatti accaduti. Non sapeva che ormai la vita della giovane era agli sgoccioli. «Ad ogni modo, stavo mettendo a posto i fascicoli degli esorcisti e mi è capitato il suo. Stavo pensando di cambiare quella foto con una nuova» ammise.
Reever la osservò, annuendo. I suoi occhi chiari la confusero per un’istante, prima che scuotesse il capo silenziosamente e tornasse alla realtà. Perché si era persa a guardarlo così? Sentendo le guance arrossarsi si voltò dall’altra parte, come intenta a fare qualcosa. Prese un fascicolo a caso e lo aprì, nascondendocisi dietro.
Sopra la cartella, nel solito inchiostro nero, stava scritto un nome: Cordelia Leclerc. Anita non sapeva perché, ma quel nome le era famigliare. Così spinta dalla curiosità, aprì il fascicolo, senza troppe parole, mentre si avvicinava al collega. La prima cosa che la colpì furono i due grandi occhi neri dell’esorcista intenti a scrutarla: erano fieri e felici, ma sembravano voler lanciare come lame affilate all’osservatore; poi le labbra: rosse -come i tulipani appena sbocciati- che sorridevano garbate, senza però cercare di nascondere la sua vera natura di combattente. Sembrava una persona meravigliosa e letale al tempo stesso. Così bella da far male al cuore.
Senza accorgersene, si ritrovò la mano di Reever sulla propria intenta a girare il fascicolo verso di se. Sobbalzò un poco. «Ah, Cordelia!» esclamò lo scienziato, rivenendola dall’osservare la donna. «Tu... non l’hai conosciuta, vero?»
Anita annuì col capo, incapace di parlare. Poi, prendendo un bel respiro, aggiunse: «Però, ne ho sentito parlare, ogni tanto.»
«Non ne dubito. Era una donna bellissima, perciò è lecito che qualcuno ne parli ancora.» A quell’affermazione Anita si sentì come pervadere da una scintilla, che le si accese nel petto. Tentò di ricacciarla indietro ma quella non volle sapere nulla, rimase li. Cos’era? La donna si pizzicò un braccio. Non poteva essere gelosia!
«Ricordo che, l’ultima volta che la vidi, era partita per una “missione”, se vogliamo chiamarla così, di recupero di un compatibile in Italia. Qualche ora dopo arrivasti tu» le sorrise.
«Com’è morta?» Aveva sentito parlare di lei, certo, delle sue imprese e della sua leggiadra Innocence, ma non aveva mai indagato più di tanto sul suo conto personale. Così come non aveva mai potuto fare con Evangeline: Komui non le aveva mai voluto rivelare nulla della notte dell’incidente, dei nomi dei suoi genitori o di altro, in quanto voleva che quella faccenda fosse sepolta il prima possibile.
 «Komui, non te l’ha mai detto? Si, insomma, non ti è mai pervenuta la storia intera della sua morte?» chiese curioso il Caposezione. Anita scosse il capo: avrebbe dovuto importargliene qualcosa di quell’esorcista? «Strano. Ad ogni modo, Cordelia era la madre di Evangeline.»
Le parve che il mondo si fermasse. Riguardò quegli occhi, così silenziosamente scaltri e affilati e deglutì a vuoto. Erano gli stessi della sua Eve, solo più tendenti al blu, e lei non se n’era accorta. Ecco cos’era quella strana aura di somiglianza che aveva sentito fino ad ora. Anche i tratti del volto erano simili, il taglio di capelli… Perché non se n’era accorta?
«Cordelia e Alex, il marito, andarono in Italia dai figli per conto delle Sfere Interne. Avevano già provato a far sincronizzare il figlio maggiore, ma a scarso risultato, così provarono con la minore e la scoprirono in grado di usare l’Innocence. Il resto della storia credo tu lo sappia.» C’era una scintilla di tristezza nello sguardo di Reever, mentre le riporgeva entrambi i fascicoli. «Mi domando cosa farebbe ora Cordelia, se sapesse a cosa è destinata sua figlia.»
«Lei… lei non sapeva di che tipo di Innocence si trattava, quando l’ha portata a Eve?» Anita sentì lo stomaco stringersi in una morsa di ferro. Com’era possibile una cosa del genere? Quale genitore…
«Nessuno di noi sa, di per certo, che tipo di Innocence nascerà quando la si dona a un compatibile. Tutto dipende dai due protagonisti della vicenda.» Il Caposezione si accarezzò stancamente le meningi, e le sembrò così stanco che, senza accorgersene, si ritrovò a sorridergli poggiando una mano sul suo ginocchio.
«Grazie mille dell’informazione, Caposezione. Credo che sia ora che tu vada a riposarti, penserò io a tuo lavoro.» Reever socchiuse le labbra, prima di scostare lo sguardo. Verso qualcos’altro. Era la seconda volta che lo faceva in pochi minuti di conversazione.
Anita sbuffò, incrociando le braccia al petto con impeto. «Oh, ma insomma, ho qualcosa in faccia?!» sbottò, rossa in viso. Sperava sul serio che non fosse così, ma dopo tutti quegli straordinari era probabile che senza accorgersene si fosse toccata gli occhi e sbavato il trucco.
«C-cosa?» Reever sbatté le palpebre.
«Andiamo Wenhamm, avrai distolto lo sguardo all’incirca cinque volte da quando abbiamo iniziato a parlare. Ho qualcosa in faccia!?» Cominciò a sfiorarsi le guance, ripetendo continuamente “qui?” “qua?” “o magari qui?”
Il Caposezione sbiancò, poi riprese colore e si portò una mano al collo della camicia che indossava tirandolo un poco. «N-no. Non hai nulla che non vada.» Si alzò con velocità, accarezzandosi i capelli appena tagliati. «I-io devo andare. Ci vediamo, Anita.» E scappò velocemente immergendosi fra le pile di libri, così com’era arrivato.
Ad ogni modo, quel comportamento non le andava a genio. Continuò a toccarsi il viso, mentre si alzava e usciva dalla Sezione Scientifica. «KOMUIIIIIIII!» Ci mise poco ad entrare nell’ufficio del suo direttore e a gettarsi sulla scrivania. Lui sobbalzò colto alla sprovvista e impaurito. «HO QUALCOSA SULLA FACCIA!?»
«No Anita, non hai nulla sul tuo viso. Perché?» Lei arrossì, allontanandosi da lui con velocità per sventolare innocentemente una mano in aria. «No, così» disse.
«Senti Anita» la bloccò prima che se ne andasse. Lei gli rivolse il proprio sguardo, le sopracciglia inarcate. «Non hai avuto anche tu, si insomma, una strana sensazione? Non ti sembra che qualcosa non vada?»
«Mh?» La scienziata socchiuse le palpebre e poi sorrise, avvicinandosi all’amico. Gli accarezzò i capelli liberi dal capello gli baciò la fronte. Poteva benissimo capire la preoccupazione che lo attanagliava: da quando Eve era praticamente scappata per raggiungere Lenalee nelle condizioni in cui si trovava, beh, il supervisore non si era dato pace. Aveva paura per sua sorella, molta, e anche per quella giovane donna che aveva preso sotto la sua ala. Soffriva per la loro lontananza. «Non preoccuparti per loro, Komui» sussurrò la bionda «sono grandi e forti, e sai che Lenalee sarà ben protetta se Eve dovesse raggiungerla.» Incontrò i suoi occhi, e continuò a sorridergli anche mentre gli accarezzava le guance e sostava leggermente la testa verso sinistra. «Sai benissimo anche che, nonostante tutto, Eve non morirà così facilmente. Non finché non avrà riportato a casa Lenalee.»

 

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Isil: Non mi dilungherò troppo, in quanto ho davvero troppo da fare, maaaaaaa T.T Ormai siamo agli sgoccioli (ma ho tante tante ideeeeeee per i prossimi capitoli). Ora devo andare, un bacione.
  
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