Elegia ad Sine Requie
[Attenzione: flusso di coscienza come se piovesse, ergo non allarmatevi se
non ci raccapezzate niente, stento io che l’ho scritta.
Vi auguro buona lettura, Isi.
]
Infili
un passo dietro l’altro a muscoli sciolti, con la gomma ed il cuoio degli
anfibi contro il marciapiede duro che calpesti nell’avanzare.
Come
hai fatto a trovare ancora una volta il coraggio di rialzarti?
Dove
hai trovato la forza per andare avanti, per volgere di nuovo il tuo sguardo
all’orizzonte senza voltarti indietro, ad impazzire tra i segreti che le
labbra dischiuse del passato vogliono farsi scappare nel momento meno
opportuno?
Forse
ti sei detto che era inutile starci a rimuginare tanto
a lungo, buttando al vento preziose ore di sonno o credendo di dover perdere il
senno sotto la luce eterea della luna.
Non
è giusto, devi aver pensato, che, bella com’è, debba sempre far da testimone alle più cruente
tragedie, quando la sua unica colpa è quella di accompagnare fedele
l’amata notte.
Eros
non ha né bende né infule sugli occhi, bensì le mani di un
fato che, per una metà è destino già scritto, per
l’altra, caso dalle variabili ancora sconosciute al matematico che vuol
trovare il teorema dell’esistenza.
E’
tenace il dotto, folle forse: gli algoritmi non rendono carne la polvere tiri
negli occhi ai nemici, così come le equazioni non tramutano
l’acqua delle pozzanghere da cui devono i randagi in sangue, eppure egli
non si stanca mai di provare, non si arrende.
Dovrebbe
capirlo, però, che un sacrificio, un sacrificio
vero, chiunque sia ad immolarsi e che lo faccia di propria volontà o
meno, non è mai così a buon mercato.
Credete
forse che Abramo rise allorché Iddio gli chiese
di sacrificargli il suo unico figlio Isacco?
O
che il piccolo, prima abbracciato al seno della madre, non abbia tentato in
qualche modo di divincolarsi dalla stretta del padre che la disperazione
rendeva senza via di fuga?
L’angelo
del loro signore arrivò allora in tempo per
evitare che la terra si macchiasse per l’ennesima volta del sangue di un
innocente; ti viene dunque da chiederti dove diavolo sia finito quello stesso
angelo che fermò la mano del padre, levatasi mortifera sul figlio, sul
sacrificio.
Forse
che il sangue che stilla via dalle vene di chi muore oggi non è
virgineo, puro e casto per mezzo del perdono quanto quello di chi morì
ieri?
Questo,
davvero, non sei mai riuscito a spiegartelo.
L’aria
entra gelida nel petto, quasi smorza il respiro conficcandosi dolorosa nei
polmoni come centinaia di spilli ghiacciati, eppure non gemi,
sai anche tu che non è questo il vero dolore, quello più grande
che lascia davvero senza fiato, quel soffio che, pur leggero, spazza via,
assieme a ciò che ami, ogni tua certezza.
Aveva
ragione Socrate nell’affermare che nulla, neppure le parole che, con i
loro suoni, delimitano immagini e pensieri, presenta
confini invalicabili: per uno il coraggio
potrebbe voler significare abbandonarsi tra le braccia della morte, per
un altro -un altro più o meno folle del primo?- potrebbe rappresentare
la forza imperitura, le unghie e i denti con i quali si vorrebbe rimanere
restare avvinghiati alla vita anche più di quanto non ci sia dato
realmente di fare.
Così
dunque ogni uomo chiama casa il luogo
in cui vive, ma, te lo sei sempre chiesto senza mai riuscire a darti una
spiegazione soddisfacente, dove finisce la convenzione di definire
semplicemente un concetto e dove comincia il sentimento che ad esso ti lega?
Melibeo chiamava casa i suoi dolci campi e la sua patria non per superficiale
abitudine, ma perché sentiva di appartenere ad essi
con ogni fibra del suo corpo, come se i suoi dei l’avessero plasmato
proprio da una manciata di quella stessa terra che lui e tutta la sua gens
aveva passato la vita a coltivare con amore, gioendo degli abbondanti frutti e
perdonando le misere annate di carestia.
Soffri
per Virgilio ed i suoi pastori, eppure i loro sentimenti, il loro dolore non riesci a comprenderli davvero fino in fondo: il senso
d’appartenenza non l’hai mai provato e di conseguenza, almeno fino
ad ora, non ha mai condizionato le tue scelte ed i tuoi sbagli.
Non fai parte del pesino di campagna nel quale sei nato; fosti troppo
asociale, troppo pigro o forse tropo timoroso per scendere in strada a giocare
con gli altri ragazzi: non ti credevi alla loro altezza, fuggivi le loro parole
credendole insulti e correvi a rintanarti nella tua immaginazione,
l’unico posto che forse, ancira oggi, puoi
vantare come tuoi unico riparo dalla crudeltà del mondo.
Non fai parte neppure della
società stereotipizzata di oggi,
in cui orde di zombie tutti terribilmente uguali gli uni agli altri come tante
fotocopie in bianco e nero di un originale ormai perduto ti guardano
dall’alto in basso giudicandoti come un’anomalia.
Forse
dovresti spiegare loro che questo soprannome alla fin fine non ti dispiace poi così tanto: per te, in fondo, è solo una
parola che gli altri usano per indicarti -perché se l’acqua che
cade dal cielo viene chiamata pioggia essi non dovrebbero chiamarti anomalia, pensi- e che l’accezione
naturalmente sottintesa a questo vocabolo sia dispregiativa o meno,
sinceramente a te non importa.
Giudicare,
deridere e condannare sono azioni vitali per loro, scritte con un pennarello
indelebile nel dna come un gene dominante, dipinte con maestria
nell’anima dall’ignoranza e da un’educazione che non prevede
più né l’amor proprio né il rispetto.
E
quando avranno giudicato tutti cosa faranno trovandosi
faccia a faccia con loro stessi, posti di fronte a qualcosa che preferirebbero
non vedere, continuando a far finta di nulla? Posso sentire il tuo cuore
stringersi nell’immaginare il loro spavento, il loro
smarrimento di fronte a vite buttate e ad anni consumati a non essere.
Un lifting
per l’anima
non farebbe comodo solo a loro e lo sai bene.
D’un tratto poi ti fermi, alzi lo sguardo e quasi senza rendertene
conto ti ritrovi a sorridere.
Sorge
il sole all’orizzonte come ogni giorno e per la prima volta, come se
venticinque anni di vita non ci fossero mai stati, come se fossi nato solo ieri,
ti rendi conto di quanto tutto questo sia
meraviglioso, nonostante si ripeta un giorno dopo l’altro da milioni di
miliardi di anni.
Per
quanto tu possa aver sofferto e pianto, per quanto tu possa esserti illuso e
castigato, per quanto tu possa essere stato traviato, confuso ed ingannato
riesci ancora a meravigliarti, a sorridere, ad amare.
E’
una consapevolezza che scalda il cuore e alleggerisce il petto, qualcosa da non
sottovalutarsi.
Dev’essere stato questo a mandarti avanti, nonostante tutto, a
spingerti di nuovo, dopo un così tanto lungo
cammino, sotto i tiepidi raggi che spezzano il gelo di un diniego.
E
allorché servirà nuova forza per mettere in fila nuovi passi non
dubitare che sapremo inventarcela.