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Autore: ISI    22/12/2008    2 recensioni
"Forse dovresti spiegare loro che questo soprannome alla fin fine non ti dispiace poi così tanto: per te, in fondo, è solo una parola che gli altri usano per indicarti -perché se l’acqua che cade dal cielo viene chiamata pioggia essi non dovrebbero chiamarti anomalia, pensi- e che l’accezione naturalmente sottintesa a questo vocabolo sia dispregiativa o meno, sinceramente a te non importa."
Flusso di coscienza domina!
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Elegia ad Sine Raquie

Elegia ad Sine Requie

 

[Attenzione: flusso di coscienza come se piovesse, ergo non allarmatevi se non ci raccapezzate niente, stento io che l’ho scritta.

Vi auguro buona lettura, Isi. ]

 

Infili un passo dietro l’altro a muscoli sciolti, con la gomma ed il cuoio degli anfibi contro il marciapiede duro che calpesti nell’avanzare.

Come hai fatto a trovare ancora una volta il coraggio di rialzarti?

Dove hai trovato la forza per andare avanti, per volgere di nuovo il tuo sguardo all’orizzonte senza voltarti indietro, ad impazzire tra i segreti che le labbra dischiuse del passato vogliono farsi scappare nel momento meno opportuno?

Forse ti sei detto che era inutile starci a rimuginare tanto a lungo, buttando al vento preziose ore di sonno o credendo di dover perdere il senno sotto la luce eterea della luna.

Non è giusto, devi aver pensato, che, bella com’è, debba sempre far da testimone alle più cruente tragedie, quando la sua unica colpa è quella di accompagnare fedele l’amata notte.

Eros non ha né bende né infule sugli occhi, bensì le mani di un fato che, per una metà è destino già scritto, per l’altra, caso dalle variabili ancora sconosciute al matematico che vuol trovare il teorema dell’esistenza.

E’ tenace il dotto, folle forse: gli algoritmi non rendono carne la polvere tiri negli occhi ai nemici, così come le equazioni non tramutano l’acqua delle pozzanghere da cui devono i randagi in sangue, eppure egli non si stanca mai di provare, non si arrende.

Dovrebbe capirlo, però, che un sacrificio, un sacrificio vero, chiunque sia ad immolarsi e che lo faccia di propria volontà o meno, non è mai così a buon mercato.

Credete forse che Abramo rise allorché Iddio gli chiese di sacrificargli il suo unico figlio Isacco?

O che il piccolo, prima abbracciato al seno della madre, non abbia tentato in qualche modo di divincolarsi dalla stretta del padre che la disperazione rendeva senza via di fuga?

L’angelo del loro signore arrivò allora in tempo per evitare che la terra si macchiasse per l’ennesima volta del sangue di un innocente; ti viene dunque da chiederti dove diavolo sia finito quello stesso angelo che fermò la mano del padre, levatasi mortifera sul figlio, sul sacrificio.

Forse che il sangue che stilla via dalle vene di chi muore oggi non è virgineo, puro e casto per mezzo del perdono quanto quello di chi morì ieri?

Questo, davvero, non sei mai riuscito a spiegartelo.

 

L’aria entra gelida nel petto, quasi smorza il respiro conficcandosi dolorosa nei polmoni come centinaia di spilli ghiacciati, eppure non gemi, sai anche tu che non è questo il vero dolore, quello più grande che lascia davvero senza fiato, quel soffio che, pur leggero, spazza via, assieme a ciò che ami, ogni tua certezza.

Aveva ragione Socrate nell’affermare che nulla, neppure le parole che, con i loro suoni, delimitano immagini e pensieri, presenta confini invalicabili: per uno il coraggio  potrebbe voler significare abbandonarsi tra le braccia della morte, per un altro -un altro più o meno folle del primo?- potrebbe rappresentare la forza imperitura, le unghie e i denti con i quali si vorrebbe rimanere restare avvinghiati alla vita anche più di quanto non ci sia dato realmente di fare.

Così dunque ogni uomo chiama casa il luogo in cui vive, ma, te lo sei sempre chiesto senza mai riuscire a  darti una spiegazione soddisfacente, dove finisce la convenzione di definire semplicemente un concetto e dove comincia il sentimento che ad esso ti lega?

Melibeo chiamava casa i suoi dolci campi e la sua patria non per superficiale abitudine, ma perché sentiva di appartenere ad essi con ogni fibra del suo corpo, come se i suoi dei l’avessero plasmato proprio da una manciata di quella stessa terra che lui e tutta la sua gens aveva passato la vita a coltivare con amore, gioendo degli abbondanti frutti e perdonando le misere annate di carestia.

Soffri per Virgilio ed i suoi pastori, eppure i loro sentimenti, il loro dolore non riesci a comprenderli davvero fino in fondo: il senso d’appartenenza non l’hai mai provato e di conseguenza, almeno fino ad ora, non ha mai condizionato le tue scelte ed i tuoi sbagli.

Non fai parte del pesino di campagna nel quale sei nato; fosti troppo asociale, troppo pigro o forse tropo timoroso per scendere in strada a giocare con gli altri ragazzi: non ti credevi alla loro altezza, fuggivi le loro parole credendole insulti e correvi a rintanarti nella tua immaginazione, l’unico posto che forse, ancira oggi, puoi vantare come tuoi unico riparo dalla crudeltà del mondo.

Non fai parte neppure della società stereotipizzata di oggi, in cui orde di zombie tutti terribilmente uguali gli uni agli altri come tante fotocopie in bianco e nero di un originale ormai perduto ti guardano dall’alto in basso giudicandoti come un’anomalia.

Forse dovresti spiegare loro che questo soprannome alla fin fine non ti dispiace poi così tanto: per te, in fondo, è solo una parola che gli altri usano per indicarti -perché se l’acqua che cade dal cielo viene chiamata pioggia essi non dovrebbero chiamarti anomalia, pensi- e che l’accezione naturalmente sottintesa a questo vocabolo sia dispregiativa o meno, sinceramente a te non importa.

Giudicare, deridere e condannare sono azioni vitali per loro, scritte con un pennarello indelebile nel dna come un gene dominante, dipinte con maestria nell’anima dall’ignoranza e da un’educazione che non prevede più né l’amor proprio né il rispetto.

E quando avranno giudicato tutti cosa faranno trovandosi faccia a faccia con loro stessi, posti di fronte a qualcosa che preferirebbero non vedere, continuando a far finta di nulla? Posso sentire il tuo cuore stringersi nell’immaginare il loro spavento, il loro smarrimento di fronte a vite buttate e ad anni consumati a non essere.

Un lifting per l’anima non farebbe comodo solo a loro e lo sai bene.

 

D’un tratto poi ti fermi, alzi lo sguardo e quasi senza rendertene conto ti ritrovi a sorridere.

Sorge il sole all’orizzonte come ogni giorno e per la prima volta, come se venticinque anni di vita non ci fossero mai stati, come se fossi nato solo ieri, ti rendi conto di quanto tutto questo sia meraviglioso, nonostante si ripeta un giorno dopo l’altro da milioni di miliardi di anni.

Per quanto tu possa aver sofferto e pianto, per quanto tu possa esserti illuso e castigato, per quanto tu possa essere stato traviato, confuso ed ingannato riesci ancora a meravigliarti, a sorridere, ad amare.

E’ una consapevolezza che scalda il cuore e alleggerisce il petto, qualcosa da non sottovalutarsi.

Dev’essere stato questo a mandarti avanti, nonostante tutto, a spingerti di nuovo, dopo un così tanto lungo cammino, sotto i tiepidi raggi che spezzano il gelo di un diniego.

 

E allorché servirà nuova forza per mettere in fila nuovi passi non dubitare che sapremo inventarcela.

  
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