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Autore: pvmacry    09/04/2015    2 recensioni
Una sera trascorsa assieme a Neal insegna ad Henry che un genitore non è necessariamente colui a cui siamo legati geneticamente, bensì chi si prende cura di noi giorno dopo giorno, supportandoci nelle grandi e nelle piccole scelte della vita.
Dal testo: "...ciò che contava per Henry erano le piccole cose: finché, crescendo, aveva iniziato a desiderare qualcosa in più. Un rapporto con lui che non si limitasse semplicemente al resoconto delle sue attività settimanali, al pari di un amico: Henry desiderava un padre, una persona presente che gli insegnasse a diventare uomo."
Accenni SwanQueen
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Emma Swan, Henry Mills, Neal Cassidy, Regina Mills
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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“Non è difficile diventare padre. Essere un padre: questo è difficile.”

Wilhelm Busch

 


GENITORE È CHI TI CRESCE

 


Quando si ritrovava a pianificare gli impegni settimanali, Henry Mills sapeva che il venerdì sera era destinato a un impegno ben preciso: cena a casa di suo padre Neal, con tanto di chiacchierata al seguito che durava per qualche ora, ed era talmente fortunato da poter godere delle sue lamentele su quanto la vita fosse ingiusta con lui.
I primi tempi non gli importava di doversi sorbire ripetutamente le stesse lagne della settimana precedente -e di quella prima, e di quella prima ancora-, bastava solo poter trascorrere pochi, preziosi momenti con il padre che pensava di non poter mai conoscere ma che aveva ritrovato. Dopotutto ciò che contava per Henry erano le piccole cose: finché, crescendo, aveva iniziato a desiderare qualcosa in più. Un rapporto con lui che non si limitasse semplicemente al resoconto delle sue attività settimanali, al pari di un amico: Henry desiderava un padre, una persona presente che gli insegnasse a diventare uomo.
Tuttavia capita che ogni tanto la realtà non corrisponda ai sogni e ai desideri ma conceda soltanto crudeli insegnamenti: e il giovane Mills stava inevitabilmente per scontrarsi con una delle lezioni più impegnative che la vita potesse offrirgli…

Stava ingurgitando a fatica un pezzo di carne che doveva appartenere a una sottospecie malriuscita di polpettone, invidiando Emma che in quello stesso istante stava certamente gustando una delle prelibatezze nate dall’abilità culinaria di Regina. Chiudendo gli occhi avrebbe facilmente immaginato di essere davanti alle succulente lasagne della sua mamma, una specialità tutta targata Mills per cui lui impazziva.
Invece quella sera avrebbe dovuto accontentarsi di quella cena senza arte né parte composta da uno strano blocco compatto di carne, insalata ovviamente confezionata e gelato al pistacchio, senza contare che il pistacchio era uno di quei gusti che letteralmente detestava: tuttavia non si lamentò e continuò a ingerire una forchettata dopo l’altra, mentre il chiacchiericcio senza fine della televisione saturava il silenzio che dominava la piccola cucina.
Sollevò la forchetta e la lasciò per diversi secondi a mezz’aria, preparandosi di trangugiare l’ennesimo morso quando Neal, dopo aver svuotato il suo bicchiere del poco contenuto rimasto, sospirò e iniziò a rivolgergli domande alle quali non aveva nessuna voglia di rispondere.
«E tua madre? È sempre a casa di quella strega?»
Distogliendo lo sguardo castano dal piatto, lo puntò dritto verso l’uomo seduto scompostamente davanti a sé: aveva capito subito che qualcosa non quadrava. L’atmosfera si era rivelata tesa dal preciso momento in cui aveva messo piede in quell’angusto monolocale e sembrava peggiorare di minuto in minuto. Per quanto non riuscisse a digerire la relazione tra le sue madri, Neal non aveva mai espresso tanto chiaramente il suo risentimento, né si era mai posto tanto aggressivamente nei suoi confronti come in quell’occasione.
Deglutendo un boccone amaro, posò lentamente la forchetta sul tovagliolo e respirò a fondo.
«Come?» Domandò, ancora piuttosto perplesso.

«Hai sentito, non fare finta di non aver capito: tua madre se la fa ancora con quell’arpia della regina cattiva?» L’altro in risposta liberò un ghigno che gli ricordò lontanamente Gold, ma non si lasciò intimorire.
«Si, certo che stanno insieme.» Puntualizzò con serafica calma. «Sono una il Vero Amore dell’altra: era ora che finalmente trovassero la felicità.»
E lui era il maggior sostenitore di quel rapporto.
Aveva lottato strenuamente per aiutare Emma e Regina a capire che, in fondo, la felicità era a portata di mano e si nascondeva dietro a un paio di occhi verdi, un atteggiamento da sadica malvagia e gesti di reciproca ostilità: a lui non erano sfuggiti i piccoli, insignificanti segnali di affetto che entrambe nascondevano dietro battute al vetriolo e apparente disinteresse. Ma lui, custode del cuore del vero credente, aveva avvertito esplicitamente l’eco sferzante dell’amore e dopo mesi di insistenti -non del tutto casuali- tentativi di farle rimanere da sole, finalmente le due avevano realizzato ciò che era ormai lampante per ogni abitante di Storybrooke tranne che per le due zuccone. Avrebbe sorriso se Neal non l’avesse distolto da quei teneri ricordi.
«È davvero assurdo! È una follia!!» Aveva esclamato con rabbia.
Henry storse la bocca e un’espressione contrariata apparve sul suo volto quando lo vide gettare violentemente una bottiglietta d’acqua contro il pavimento, chiaramente furioso: si sentì stranamente a disagio perché, se una parte di lui manteneva il consueto temperamento pacato, un’altra parte aveva iniziato a ribollire, quasi fosse stata richiamata da quel gesto tanto aggressivo.
«Forse è meglio che me ne vada: le mamme mi staranno aspettando.» Disse scegliendo di ricorrere alla solita scusa, quella che utilizzava ogni qualvolta si stufava di restare in quel luogo e sentiva l’impellente esigenza di tornare a casa. La sua casa. Aveva allontanato la sedia lasciando che scivolasse sulle lucide piastrelle dalle tonalità giallastre ma riuscì a fare solo un passo prima che una mano giungesse rapida a stringergli il braccio, trattenendolo.
Si voltò e si ritrovò il viso del padre a pochi centimetri di distanza.
Lo osservò dunque con attenzione, riconoscendo molti dei propri lineamenti: gli somigliava più di quanto desiderasse. Gli sembrò quasi di trovarsi davanti a uno specchio, intento a scrutare l’immagine dell’uomo che sarebbe diventato in futuro. Un uomo per il quale non aveva il minimo rispetto, che non gli trasmetteva alcun senso del dovere o dell’onore; un uomo vuoto, egoista, pronto a lanciare accuse verso altre persone per giustificare le proprie azioni disdicevoli.
Aveva la sensazione che un’ombra nera lo avvolgesse, sussurrandogli malvagi consigli, spingendolo a compiere scelte sbagliate e crudeli che avrebbero alimentato quel sorriso spietato ora dipinto sulla sagoma senza volto posta accanto a sé.
Ed Henry non voleva affatto lasciarsi ammaliare e diventare così: non voleva che arrivasse il giorno in cui si sarebbe guardato allo specchio e si sarebbe vergognato della sua stessa immagine, così simile a quella di suo padre e, prima ancora, di suo nonno.

«Dove pensi di andare? Sono stufo di sentirmi ripetere ogni settimana la stessa storia; pensi di potermi liquidare tanto facilmente, ragazzino?»
I suoi occhi nocciola si erano dilatati.
L’aveva avvertita forte e chiara.
“Ribellati”. La voce rimbombò in ogni anfratto della sua mente. Ed eccola lì, la sua parte oscura pronta a far capolino dal luogo in cui era rimasta rinchiusa per troppo tempo: più cercava di sopprimerla e più quella acquistava vigore e sicurezza, nutrendosi del suo sconforto.
«Non chiamarmi ragazzino!» Aveva risposto, liberando il braccio dalla presa salda dell’uomo.
«Sei mio figlio, posso chiamarti come mi pare!» Si sbrigò a puntualizzare Neal, mal tollerando il divieto impostogli dal ragazzo di non usare quell’appellativo a cui di solito ricorreva soltanto Emma: per quale ragione Henry concedeva simili privilegi solo alle due donne? Eppure aveva anche metà del suo corredo genetico, non poteva ignorarlo.
Henry d’altro canto era completamente in balia dei suoi sentimenti: il corpo si tese, il battito cardiaco accelerò e la mente iniziò a deragliare. Il vero credente era ormai messo all’angolo, incalzato da quella personalità tutta nuova che non sapeva come contrastare. Perciò fece esattamente quello che avrebbe fatto Emma. Si arrese al suo volere.
Fissando le punte delle proprie scarpe, corrugò le sopracciglia, sollevando poi lo sguardo carico di risentimento contro quello di Neal, annebbiato dalla gelosia.
«Hai ragione, biologicamente sono tuo figlio.» Ammise con un filo di voce, prima di continuare. «Ma a conti fatti tu per me non sei nessuno, niente più di un conoscente con cui sono costretto a trascorrere i miei preziosi venerdì sera che potrei impiegare per studiare, dal momento che presto andrò alle superiori!» Non riconobbe la sua voce.

«Non parlarmi in questo modo, non me lo merito. La colpa è di quella donna malvagia che tu ti ostini ancora a chiamare mamma! Proprio non capisco come tu riesca a vivere tranquillamente sotto il suo stesso tetto consapevole delle sue azioni spietate.»
E quelle parole fecero scattare la serratura del suo autocontrollo: una rabbia nuova, prepotente, s’insinuò nel cervello del giovane Mills, dominandolo. La sua mano fendette l’aria con una rapidità disarmante per afferrare il colletto della camicia dell’uomo, stringerlo e bloccarlo contro la parete. La bocca era deformata in una smorfia adirata; i suoi occhi nocciola, sempre dolci e luminosi, si erano rabbuiati e tinti di un nero pece che nessuno avrebbe mai potuto associare al bimbo che aveva rappresentato la salvezza della città. Lo stesso Neal, stretto tra il corpo del figlio e la fredda superficie bianca, avvertì un brivido di terrore percorrergli la schiena, costringendolo a deglutire rumorosamente più volte.

«Sei l’ultima persona che può permettersi di parlare così di mia madre.» Esplose con voce gutturale che costrinse l’uomo a fissarlo con espressione incredula. «Si esatto, Regina è la mia mamma e lo sarà sempre; non importa se non abbiamo lo stesso corredo genetico, lei è la donna che mi ha cresciuto!»

Chiudendo gli occhi ripensò a tutti quei momenti apparentemente insignificanti, che avevano costellato i suoi primi tredici anni: e in ogni singolo ricordo, l’immagine di Regina era sempre lì, onnipresente, una rassicurante ombra pronta ad aiutarlo nei suoi piccoli passi.

«È sempre stata presente nella mia vita: mi ha cambiato i pannolini, ha curato le mie malattie, mi ha sgridato quando me lo meritavo e mi ha coccolato quando avevo bisogno di affetto. Mi ha tenuto nel lettone con lei ogni singola notte in cui ho avuto un incubo o semplicemente perché avevo paura del buio. Lei si è presa cura di me quando non avevo nessun altro.» Risollevò nuovamente lo sguardo su Neal, allentando la presa sul suo colletto.
«È questo ciò che intendevo!» Gli rispose lui con tono deciso, considerando che, per avere quattordici anni, suo figlio possedeva già una forza e una prestanza fisica considerevoli: un’altra eredità della famiglia Charming. «È Regina che, lanciando la maledizione, ci ha separati: è per colpa sua che tua madre ha sofferto crescendo in decine di famiglie che non la desideravano, ed è per lo stesso motivo che io ho dovuto allontanarmi da Emma affinché potesse assumere il suo ruolo di salvatrice!»
«Stronzate! Stronzate! Stronzate! Sono tutte stronzate…» Anche in quel momento in cui la rabbia aveva preso il sopravvento, una parte di sé continuava a brillare pensando alle sue mamme, in particolar modo proprio a Regina. «La mamma ha lanciato la maledizione perché Tremotino, alias mio nonno, alias tuo padre, voleva che il Sortilegio Oscuro si attivasse per ritrovare te! Lei è stata solo una vittima degli eventi.
E tu sei solo un codardo: non hai avuto il coraggio di stare vicino a Mà quando aveva più bisogno di aiuto. Avresti potuto supportarla nel suo cammino verso la salvezza del mondo delle favole invece di andartene; ma è stata quella la tua scelta, adesso non puoi lavartene le mani e scaricare la responsabilità su persone che non hanno colpa! Tra l’altro tu dove sei stato negli ultimi due anni? Da quando ci siamo trovati, quante volte mi sei stato accanto? Quante volte mi hai proposto di vederci in altre occasioni che non fossero questi stupidi e patetici venerdì sera? Tu dici di essere mio padre, ma hai la vaga idea di cosa significhi esattamente essere genitore? Un genitore è chi ti cresce, non chi ti mette al mondo. Quello può farlo chiunque, e non saresti diverso da un donatore di seme.»
Ci aveva riflettuto a lungo: dapprima aveva pensato che fosse un problema di accettazione, che per Neal fosse difficile accettare di avere un figlio del quale non aveva mai saputo nulla in tutti quegli anni. Poi, vista la difficoltà a stabilire un legame che andasse al di là della semplice conoscenza, aveva creduto che dovesse essere una questione di tempo, perciò aveva deciso di concederglielo nonostante il suo desiderio di averlo nella propria quotidianità. Ma dopo decine di avventure pericolose in cui avevano rischiato la vita e quasi due anni di attesa, Henry non aveva raggiunto il tanto agognato legame con Neal, rendendosi dolorosamente conto che forse era solo un suo univoco desiderio. Adesso purtroppo ne stava avendo conferma.

«Ma che diavolo dici? Ragiona Henry: sei stato tu ad andare a cercare Emma per riportare la felicità ai personaggi delle favole e rompere il maleficio. Sei stato tu a credere fermamente nella vittoria degli eroi. E sei stato proprio tu il primo ad accusare Regina di essere una cattiva, una donna malvagia che non ti voleva bene. Perché ora dovresti difenderla? Una persona del genere non è un genitore, è un mostro!»
Era stato lui. La sofferenza di sua madre era derivata proprio da lui, non da Neal. Esattamente come suo padre era stato molto più semplice scaricare su qualcun altro le conseguenze delle sue scelte: aveva ferito Regina più di chiunque altro, e avrebbe dovuto convivere con tale consapevolezza per sempre.

Abbassando il capo, lasciò scivolare il colletto della camicia fuori dalla sua presa e Neal cadde a terra in un tonfo secco.
«Henry-» Mormorò con voce pacata, allungando una mano nella direzione del ragazzo.

«Non toccarmi!!!» Gli gridò con tutto il fiato di cui ancora disponeva. «Tu..»
Puntò l’indice contro Neal, la voce che tremava, carica di emozioni che non aveva mai espresso prima…e fu in quel momento che il cuore di Henry cedette completamente al dolore e al rancore, che senza indugio riversò sull’uomo. «Tu non vali neanche un decimo di lei. Avrà pur commesso tanti errori ma lei c’è sempre per me: ha lottato per me, per avermi, per conoscermi, per guadagnarsi il mio perdono e il mio amore...tu puoi dire lo stesso?»
Chiuse le dita a pugno concentrandosi per trovare l’ossigeno di cui avvertiva l’estremo bisogno: prima di voltarsi, piantò ancora una volta le sue iridi castane su quelle di Neal e lasciò che la sentenza della propria mente risuonasse anche fuori da sé. «Non voglio più vederti.» Mormorò a denti stretti, eliminando ogni più infima traccia di esitazione; con freddezza disarmante, afferrò la giacca accuratamente riposta -come sua madre gli aveva insegnato- sull’appendiabiti vicino all’ingresso e se ne andò senza degnarsi nemmeno di chiudere la porta.

§

Lasciando Neal sulla soglia dell’appartamento con il suo nome sulle labbra, si era messo a correre per tentare di sfogare la collera che gli aveva invaso dapprima la mente e in seguito ogni più infima cellula del corpo: poi aveva rallentato.
Ora camminava con una lentezza sovrannaturale lungo le conosciute vie di Storybrooke illuminate a stento dai lampioni, un passo dopo l’altro, un piede dopo l’altro; il cervello sembrava esplodergli, le tempie erano calde e pulsanti al tatto, il respiro affannoso, le mani sudate.
Non avrebbe mai pensato di arrabbiarsi in quel modo con qualcuno, tantomeno con Neal.
Ogni tanto timidamente si voltava a guardare indietro, a studiare la strada che aveva percorso e in quei momenti l’assaliva la consapevolezza che Neal non l’avrebbe seguito per chiedergli scusa.
Non gli sarebbe corso dietro desideroso di salvare il loro rapporto.
Non si sarebbe presentato alla sua porta chiedendogli di riprovarci, di offrirgli la possibilità di essere un padre per lui…non avrebbe fatto niente di tutto ciò.
Sospirando, ricacciò indietro una lacrima: faceva male. Per quanto volesse negarlo, Neal restava a tutti gli effetti l’uomo che gli aveva permesso di venire al mondo. Eppure per lui non sarebbe mai stato un padre, un genitore.
Si domandò come avesse potuto illudersi fino a quel punto.
L’amore poteva davvero ingannare fino a diventare fonte di dolore?
Ora numerose lacrime avevano iniziato a rincorrersi lungo le sue gote e gli occhi si erano annebbiati.
Arrivato all’ingresso illuminato di casa Mills si fermò. In piedi, nel silenzio di quella sera in cui nemmeno i grilli cantavano, pianse. E pianse.
Per sé, che aveva creduto in una favola senza lieto fine.
Ma soprattutto per Regina. Perché ora sapeva cosa la donna avesse provato pochi anni prima a sentirsi accusata e rifiutata dall’unica persona in cui aveva riposto fiducia e amore. Lei che l’aveva amato incondizionatamente al di là di ogni vincolo genetico e di qualsiasi vendetta o maledizione, lei che per lui aveva intrapreso il cammino della redenzione, aveva ricevuto in cambio il disprezzo e la solitudine.
Ecco la dura lezione che la vita stava impartendo a Henry Mills: la realtà non è una favola a lieto fine e spesso, proprio chi dovrebbe amarti, è la persona che senza indugi sbriciola il tuo cuore fino a ridurlo in polvere.

§

«HENRY!!» Aveva gridato sentendo la porta della camera del figlio chiudersi con un colpo secco. «LE SCARPE!» Aggiunse subito dopo notando le converse abbandonate su due gradini diversi delle scale che conducevano al piano superiore.
Con le mani strette attorno alla vita, Regina Mills sbuffò, raccogliendole e riponendole nell’apposita scarpiera sistemata nello sgabuzzino accanto all’ingresso.
Attratta dal trambusto, Emma fece la sua apparizione uscendo dalla cucina e appoggiandosi allo stipite della porta per osservare la compagna in tutto il suo fascino. Incrociando le braccia al petto, sogghignò al pensiero che Regina risultasse affascinante in qualunque momento della sua giornata, e si chiese come riuscisse a mantenere la sua innata eleganza anche in occasioni come quella, in cui si dedicava alle faccende quotidiane.
«Suvvia Regina non essere sempre così rigida.» Mormorò con aria divertita.
La bruna si voltò verso la fonte dalla quale era giunta la voce. Avere i magnetici occhi verdi di Emma puntati addosso era un’emozione a cui non si sarebbe mai abituata completamente. Era come affogare e riemergere al limite del respiro, quando l’ossigeno viene meno e l’unica cosa che resta da fare è nuotare con tutte le forze per tornare a galla; e Regina adorava quella sensazione estrema, quel brivido dolceamaro suscitato dalla consapevolezza di dover affrontare qualcosa di pericoloso.
E alla ex Evil Queen piaceva giocare con Emma nondimeno di quanto le piacesse giocare con il fuoco.
«E tu invece devi essere sempre così accondiscendente!» Si affrettò a rispondere. «Tipico atteggiamento da Charming.» Constatò con una punta di malcelata ironia che fece sbuffare sonoramente Emma.
«Chissà perché ogni difetto sulla faccia della terra è tipico della famiglia Charming.» Si lamentò strappando all’altra una sonora risata e un’espressione di puro compiacimento.
«Ammettilo Swan, se nostro figlio ha sani principi è solamente grazie alla sottoscritta: di certo non grazie a te, che non hai la minima idea di cosa siano le buone maniere, le pulizie domestiche, l’ordine né tantomeno un’alimentazione equilibrata.»
Ed Emma sapeva quanto quelle parole fossero vere. Regina aveva cresciuto il loro figlio in modo impeccabile, trasmettendogli una scala di valori che difficilmente lei sarebbe riuscita a impartirgli.
Sogghignò, avvicinandosi di qualche passo alla compagna.
«Disse nonna Mills.» Biascicò in risposta con il chiaro intento di provocare l’altra, ma ben presto si accorse che non avrebbe ottenuto l’effetto sperato, anzi, quella battutina derisoria presto le si sarebbe ritorta contro.
«Ah è così?? Allora la nonna qui presente stanotte sarà troppo stanca per assecondare i tuoi capricci.
Peccato, avevo comprato un nuovissimo completino intimo che a quanto pare resterà un segreto solo tra me e Victoria.» Confessò mentre i suoi occhi diventavano due fessure impegnate a cogliere ogni minima reazione della donna: e ovviamente, Emma non si smentì. La bocca si spalancò e il viso si contrasse in un’espressione sbigottita.  
«Mi prostro ai suoi piedi, Vostra Maestà, e imploro umilmente il Suo regale perdono…posso tentare di allietare la sua serata con uno di quei film strappalacrime che a lei piacciono tanto e un’insalatina di campo appena raccolta?» Chiese la bionda con fare drammatico. Regina si impose di non ridere, sebbene dentro di sé facesse un’estrema fatica a trattenersi osservando la compagna ancora prostrata ai suoi piedi in un pomposo inchino: nonostante fosse figlia di una coppia di sovrani, Emma Swan rappresentava quanto di più lontano ci fosse dall’eleganza richiesta a un membro della famiglia reale.
«Potrei valutare l’ipotesi di accettare le sue scuse…» Mormorò portando l’indice all’angolo delle labbra con fare pensieroso mentre l’altra le si avvicinava ulteriormente saltellando come un coniglietto felice.
«Grazie tesoro.» Accompagnò il ringraziamento con un innocente bacio sulla guancia della bruna.
«Ho detto potrei…condizionale.» Puntualizzò Regina, facendo tremare Emma che non perse tempo a lamentarsi.
Ignorandola, lanciò uno sguardo corrucciato in direzione del piano superiore. «C’è qualcosa che non va.» Aggiunse a voce bassa, il tono serio che richiamò l’attenzione della compagna.
«A cosa ti riferisci esattamente?» Inquisì Emma, ora intenta a fissarla.
«Henry.»
A sentire il nome del figlio, la salvatrice inclinò leggermente il capo poi delicatamente le afferrò il viso, facendo scorrere i pollici sulle morbide guance del sindaco: gli occhi smeraldo trovarono quelli color cioccolato e sorrise.
«Cosa te lo fa credere?» Regina la osservò a sua volta.
Voltandosi le baciò il palmo di una mano mentre le sue dita correvano a cercare i fianchi di Emma avvolti da una camicia azzurra che lei stessa le aveva regalato: si lasciò circondare dalle sue braccia forti e contemporaneamente, si strinse il più possibile a quel corpo caldo che sapeva sempre come rassicurarla.
«È il mio..» Si corresse prima di proseguire. «Il nostro bambino: so sempre quando qualcosa lo turba.»
Lo aveva imparato dal giorno in cui l’aveva stretto a sé la prima volta, quando era talmente piccolo che le tutine da neonato appena acquistate gli stavano troppo grandi: la prima lezione con cui aveva dovuto scontrarsi era riconoscere le cause dei suoi pianti infiniti, ma con pazienza e con lieve timore, il bambino era cresciuto forte e sano.
Osservandolo giorno per giorno scoprire nuovi aspetti della realtà che lo circondava, Regina aveva sentito rinascere dentro di sé un sentimento apparentemente dimenticato: l’amore.
Oh, quanto amava il suo Henry.
Non le importava se non avevano lo stesso corredo genetico. Quando fissava i suoi vispi occhi castani riconosceva, seppur infima, anche una parte di sé. Proprio perché non era suo figlio biologico si era impegnata a caricarlo di un amore illimitato, incondizionato, superiore; un vero amore ben diverso da quello tra due amanti, un vero amore puro e totalizzante, avvolgente e indescrivibile.
Le mani di Emma scivolarono tra i capelli scuri, gli occhi chiusi e la guancia posata accanto all’orecchio della compagna. Sorrise. Le piaceva quando Regina considerava Henry il “loro” bambino, quasi fosse davvero figlio di entrambe, e nonostante biologicamente appartenesse a lei, sapeva che il ragazzino era molto più legato alla madre adottiva. Vivendo con loro aveva imparato a notare ogni minimo gesto di intimo affetto che i due si scambiavano, ma sebbene lo invidiasse, non ne era gelosa. Al contrario si era ripromessa di prendere esempio dalla donna e imparare ad essere un bravo genitore per Henry, presente, attenta ai suoi bisogni e ai suoi sentimenti.
«Henry è come me: ne parlerà quando sarà il momento.» Sussurrò dolcemente, beandosi del profumo intenso che la chioma castana di Regina emanava. Era consapevole che le sue parole non l’avrebbero tranquillizzata, ma le pronunciò comunque per sottolineare che, nella vita di Henry, ora erano in due. Insieme.
«Lo so.» Fu la semplice risposta dell’altra.

§

Henry era rimasto chiuso nella sua stanza per un paio d’ore.
Steso sul suo letto, intento a contemplare il pallido soffitto spoglio, aveva permesso alla sua mente di rallentare e tornare finalmente a respirare: essere nella propria casa aveva contribuito a recuperare un minimo di lucidità. Era bastato il profumo familiare proveniente dalla cucina e da ogni angolo della villa a confortarlo, accarezzandolo e cullandolo.
Soltanto quando fu completamente certo di aver concesso alla rabbia di placarsi, uscì per raggiungere le madri nel grande salone.

Le trovò comodamente distese sul divano, Emma con le gambe allungate e i piedi abbandonati sul tavolino -gesto per cui l’altra l’aveva di sicuro rimproverata- e Regina elegantemente accoccolata al suo fianco: la stanza era immersa nel buio, l’unica luce proveniente dal televisore sul quale stavano scorrendo le immagini di un film che non riconobbe.
«Oh, guarda chi si è degnato di scendere tra i comuni mortali e degnarci della sua regale presenza!» Esclamò Emma con tono sarcastico. Senza pensarci due volte, scavalcò le lunghe gambe della bionda per poi lasciarsi cadere esattamente tra le due donne. «Hei ragazzino!! Chi diavolo ti ha detto che puoi sederti qui?»
Ovviamente la salvatrice non gradì la scelta del figlio di sedersi proprio in mezzo a loro, costringendole a dividersi e mandando in fumo l‘”operazione coccole” che aveva progettato durante l’intero pomeriggio.
«Fatti più in là Mà, le tue chiappone occupano più di metà divano!» Affermò Henry spingendo la bionda di lato in modo da guadagnarsi più spazio sul comodo divano.
«Henry! Quanto volte ti ho detto di non usare termini presi dal ‘dizionario della lingua Swan’?» Lo ammonì Regina. «E tu Emma potresti scansarti di un paio di centimetri.»
«Non mi sembrava che la mia presenza fosse tanto ingombrante fino a un minuto fa.» Sottolineò la bionda di rimando, fissandola di sottecchi e incrociando le braccia al petto.
«Oh, insomma quanto ti lamenti!» Fu la risposta secca di Regina la quale, invece di darle soddisfazione, l’aveva deliberatamente ignorata: ricorrendo alla miglior faccia imbronciata che conoscesse, Emma sbuffò sonoramente ma ancora la sua reazione non scompose né il ragazzino né la donna.
«Henry, tesoro, stai bene?» Chiese Regina, preoccupata per il figlio.
Odiava forzarlo ma se non rideva nemmeno davanti alle comiche espressioni della bionda, allora il problema era serio: insomma, lei stessa faceva fatica a controllarsi quando Emma decideva di ricorrere al suo repertorio da giullare di corte.
Dapprima non ricevette risposta e lasciò che il silenzio avvolgesse la stanza, poi osservò Henry scivolare lentamente sul divano, abbandonando le gambe su una contrariata Emma e affondando il volto nel cuscinetto che l'altra madre teneva dietro la schiena. Regina deglutì, ignorando la tensione che l’attesa le causava.
«V-vll-bn.» Pigolò lui improvvisamente, dubbioso all’idea di esprimere a voce alta quelle poche paroline che, con l’avanzare dell’età, aveva iniziato a trovare imbarazzante pronunciare.
La reazione di Emma non si fece attendere oltre.
«Se tieni il cuscino davanti alla bocca come diavolo facciamo a sentirti, eh?» Lo redarguì strappandoglielo dalle mani e rivelando un paio di gote scarlatte, una bocca sorridente e due brillanti occhi castani più simili a quelli della compagna che ai suoi.
«Ho detto che vi voglio bene!!! Sturati le orecchie di mattina invece di sbavare fino a tardi!» Aveva gridato Henry rimettendosi a sedere composto, imbarazzato e paonazzo fino alla punta delle orecchie.
«Ma come-» Emma, rimasta basita per il tono e per l’accusa mossa dal figlio, non aveva fatto caso alla prima parte del discorso di Henry e cercò la compagna con espressione contrariata.
«Adesso lo sgriderai, vero Regina?» La donna non si mosse, né disse alcunché. «Regina?» Emma la chiamò una seconda volta, ma ancora non ebbe risposta. «Regina!» Gridò per la terza volta, nuovamente imbronciata: sembrava che i due si fossero accordati con lo scopo di farla impazzire.
«Per la miseria, vuoi stare zitta?» Gridò il sindaco ancora incredula per ciò che aveva confessato con tanto ardore, le iridi scure completamente attratte dal volto di Henry,.
«Uff...» Liberò la salvatrice, guadagnandosi una rapida occhiata fulminante dalla compagna.
 «Oh tesoro, anche noi ti vogliamo bene.» Affermò Regina a sua volta, accarezzandogli la guancia. «Sei il nostro piccolo principe.» Mormorò dolcemente portandoselo al petto e cullandolo esattamente come anni prima, quando era soltanto un bimbo timido, insicuro e bisognoso di protezione.
«Hei, fermi, ci sono anch’io! Anch’io voglio partecipare!» Sentendosi esclusa, la bionda si era lanciata sui due, avvolgendoli entrambi in un abbraccio soffocante dal quale non riuscivano a sottrarsi.
«Emma mi schiacci se fai così!» Confessò Regina, intrappolata tra la donna e il figlio.
«Mà sei pesante, mettiti in dieta!» La provocò Henry, colpendo la madre nel suo punto debole: la linea!
«Non prima di averti messo in punizione per la tua insolenza!» Ribatté prontamente la bionda. «Sei l’esatta copia di tua madre quando ti comporti così.» Valutò coinvolgendo anche Regina in quel simpatico battibecco.
«Colgo una punta di sarcasmo nelle tue parole, Swan?»
Henry le osservò giocare e ridere tra loro, scordandosi completamente della discussione che l’aveva sconvolto solo poche ore prima; presto o tardi ne avrebbe parlato con le due donne, ma per quella sera era stufo di pensare alla sofferenza causata da ciò che non poteva avere.
Non si era dimenticato della sua rabbia, né stava cercando di chiudere gli occhi e ignorare quella parte oscura che albergava anche nel suo cuore: tuttavia, esattamente come le sue madri, avrebbe imparato a conviverci, così come avrebbe provato ad affrontare i proprio demoni. Se in passato si era comportato male nei confronti di Regina, ebbene avrebbe lottato per riguadagnarsi la sua fiducia e il suo amore: le avrebbe dimostrato giorno dopo giorno quanto le volesse bene e quanto fosse fortunato ad averla nella sua vita.
Lasciandosi coccolare da entrambe le sue mamme aveva ritrovato la serenità e il sorriso.
Non gli importava se aveva già quattordici anni e stava ormai superando in altezza sua mamma Regina -e presto anche Emma-; il calore che adesso l’avvolgeva non aveva paragoni. Non l’avrebbe scambiato per niente al mondo, nemmeno per un padre biologico.
Perché Henry dentro di sé sapeva che gli bastava la sua piccola e imperfetta felicità rappresentata da quella strana famiglia composta da una mamma severa ed elegante e da una mamma permissiva e rozza quanto uno scaricatore di porto della peggior specie .Perciò decise che quella sera si sarebbe infiltrato nel lettone di Regina e -depositandole un bacio sulla guancia accertandosi di non essere visto- si sarebbe addormentato accanto alle due persone che l’avrebbero sempre amato più di ogni altra cosa al mondo.

 

“Le chiamano mamme ma sono molto di più. Loro sono l'appoggio, il dolce caldo rifugio. Sono donne ma non solo donne, sanno essere uomo, coraggio, forza e determinazione. Le chiamano mamme, ma dietro questo nome si celano milioni di piccole e grandi qualità. Hanno sempre quella forza indescrivibile, hanno sorrisi anche dietro alle lacrime. Restano in piedi anche dopo notti insonni. Restano sempre per amore, restano anche dove c'è poco da prendere ma tanto da dare.”
Silvia Nelli

 


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Piccola shot che dedico a mia madre e a te, Marco: anche se biologicamente non eri mio padre, sei stato per me un esempio, un maestro di vita e molto di più. Sei stato un genitore. Nonostante tu non sia più con noi da due anni, so che mi sei sempre vicino, perchè alcuni legami sono più forti di quanto si possa immaginare. Più forti della biologia e talvolta, anche più forti della morte. Ti voglio bene... <3
C.

 

  
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