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Autore: Ammimajus    12/04/2015    2 recensioni
Lip sa – dentro di sé – che potrebbe essere l’unico Gallagher capace di meritarsi un posto oltre il South Side. Potrebbe davvero fare l’ingegnere robotico, se lo volesse. Ma questo implicherebbe una sorta di discriminazione tra lui e i suoi fratelli, come se l’unico sorriso che il Caso abbia mai accordato a un ragazzino del ghetto, lui l’avesse rubato peccando di egocentrismo. "Homo homini lupus", come si dice - che cazzo!, è proprio per citazioni come questa che il senso di colpa lo attanaglia.
Riesce a fermarsi, concentrandosi sul suo respiro affannoso, soltanto quando si rende conto di essersi affidato all'unica persona che non l’ha mai trattato con ammirata condiscendenza.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Karen Jackson, Phillip 'Lip' Gallagher
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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SENSO ANTIORARIO


 
 
“Nessuno dice che il nostro quartiere è il giardino dell'Eden;
anzi, per qualcuno Dio lo evita come l'acqua bollente.
Ma è stata una buona casa per noi - per me e i miei figli, che sono il mio orgoglio.
Perché ognuno di loro mi ricorda qualcosa di me. […]
Lip, una spada: ottimi voti, studente meritevole.
Il ragazzo ha un futuro davanti a sé.”

Frank Gallagher
 
Lip Gallagher, Philip all’anagrafe, ha stipato di sigarette le tasche larghe dei suoi jeans. Qualcuna l’ha rubata a Frank, mentre dormiva con le fauci spalancate su un mucchio di neve sporca, qualche altra l’ha scroccata a Fiona, pur di non comprare un nuovo pacchetto. Oramai, gli riesce impossibile uscire di casa senza che nelle tasche vi sia qualcosa – è ossessionato dai vuoti: scarabocchia i fogli bianchi dei quaderni, evita il barattolo dei risparmi se sa di non trovarvi neanche un dollaro, riempie la sacca di bazzecole o – se ha voglia di fare soldi – della Maria che gli passa Kev, il suo vicino di casa. Se la sua vita avesse un titolo, non sarebbe dissimile dall’espressione latina tabula rasa. Una sottile striscia di compensato, liscia e ammuffita, destinata ad adattarsi ad eventuali pressioni – fino al punto di rottura, ovviamente, momento che Lip avverte particolarmente vicino. In tutta onestà, è stata Fiona ad afferrarlo poco prima che piombasse nel baratro ed è merito suo se – a ben vedere – si scorge qualche scheggiatura sulla carcassa di quella tavola. Da Fiona, Lip ha ereditato quel tanto di cinismo – poi acuitosi con gli anni – che gli ha consentito di etichettare prontamente i protagonisti della sua vita. Nelle file dei buoni sono schierati i suoi fratelli - persino Liam e Debbie, che sembrano i più indifesi del branco; a far capolino dall’oscurità c’è il volto emaciato di Frank, un padre stronzo con il vizio alienante dell’alcolismo – cancrena che, anziché attaccarsi a lui, ha ammorbato i suoi figli. E nell’oscurità assoluta c’è un’altra figura, che Lip conosce solo perché qualche volta s’è azzardato ad avventurarsi nel buio: Monica è un ombra nel nero indistinto, e incombe come una fiera sui tanti bambini che ha abbandonato.
Lip non sa se vi sia qualche meccanismo scientifico che possa spiegare come sia ammissibile disattendere alle proprie responsabilità. Vive in America, meta idilliaca per milioni di europei, ma gli piacerebbe urlare a gran voce che in quello schifo di Paese, con un presidente nero che ha solo dato scalpore, anziché beneficiare davvero, ci sono genitori scellerati che educano i loro figli all’illegalità. Una volta ha detto a Fiona che chi è povero può soltanto truffare o rubare e, sebbene dentro di sé cerchi ancora un focolaio di speranza che possa smentirlo, nessuno – nemmeno lui stesso – ha mai fatto qualcosa perché il mondo, l’America, Chicago inizino a girare in senso orario, come il Dio in cui non crede comanda.
Vorrebbe aver collezionato qua e là i cocci buoni della sua famiglia, ma si ritrova ad essere il collage sgualcito della disillusione di Fiona, delle pessime scelte sentimentali di Ian, dei più che adolescenziali umori uterini di Monica e di quello stupore – ancora non sradicatosi – che è peculiarità di tutti i lattanti mal cresciuti come Liam. È proprio per questo motivo che, sdraiato nella sua cameretta angusta – mentre Ian si masturba sotto le lenzuola, illudendosi che nessuno lo senta -, si ritrova a pensare a Karen. Non al sesso (forse sì, ma solo un po’), quanto più agli occhi ferini di chi condivide con lui l’odio irrazionale per il mondo che li ha pasciuti. Sono pingui di dolore, lui e Karen: giocano a fare i grandi con la puerile impulsività che li caratterizza. Lip odia Karen come odia se stesso e, siccome un po’ di amor proprio non è ancora venuto meno, una parte recondita di lui – una di quelle che più vengono inumate e più scavano la nuda terra – sente di amarla, più o meno. Perché neanche Karen ha mai incontrato l’Amore, o quelle stronzate di cui parlano le riviste per ragazzine: Karen scappa, capelli biondi al vento, gambe esili e veloci e qualche imprecazione ad ogni scampata caduta. In fondo, anche Lip sta scappando. Però deve ancora decidere chi è che lo insegue. Forse è la paura matta di finire sconfitto dalla genetica, di ritrovarsi i cromosomi infettati da qualche idiozia mentale che – nel migliore dei casi – lo renderà una versione edulcorata di sua madre; forse è la sua famiglia, che implora aiuto strillando (Dio!, a casa dei Gallagher il silenzio significa morte); o forse… l’idea più plausibile Lip non vuole neppure considerarla. Sta correndo davvero - grondante di sudore, con una bottiglia di birra scadente alla mano - e un angolo recondito della sua mente continua a suggerirgli che a stargli alle calcagna è il senso di colpa. Come un bellimbusto che riscuote il pizzo con inquietante regolarità. Lip sa – dentro di sé – che potrebbe essere l’unico Gallagher capace di meritarsi un posto oltre il South Side. Potrebbe davvero fare l’ingegnere robotico, se lo volesse. Ma questo implicherebbe una sorta di discriminazione tra lui e i suoi fratelli, come se l’unico sorriso che il Caso abbia mai accordato a un ragazzino del ghetto, lui l’avesse rubato peccando di egocentrismo. Homo homini lupus, come si dice - che cazzo!, è proprio per citazioni come questa che il senso di colpa lo attanaglia.
Riesce a fermarsi, concentrandosi sul suo respiro affannoso, soltanto quando si rende conto di essersi affidato all’unica persona che non l’ha mai trattato con ammirata condiscendenza. È per questo che è più o meno innamorato di Karen. E proprio per quel più o meno, per quella terra di mezzo a cui lei è ancorata, con Karen Lip si sente libero: lei è una non-scelta, il solo silenzio rassicurante che abbia mai avuto il coraggio di ascoltare. Insieme, sembrano poter essere mediocri, credibili, normali: due ragazzi della periferia che, come tutti, infrangono le regole e mettono al mondo un bambino che non riusciranno a crescere. Il sistema di autoconservazione del ghetto che continua a funzionare, imperterrito nella sua efficienza.
Per questo motivo - forse un po’ anche per il cuore che si annoda quando la scorge da lontano, ma non è il caso di ammetterlo - Lip lascia che Karen gli sieda accanto sul tetto vecchio di qualche casa fatiscente.
« Come sta la mano? » chiede lei, la voce tremante che si condensa nell’aria in piccole nuvolette innocenti.
Lip continua a guardare i tetti ombrosi di Chicago. Ha tentato di uccidere suo padre quel giorno stesso, ma adesso sembra non importare più. « Credo che sia rotta » dice, e non gli importa neppure del dolore.
« La macchina di chi era? »
« Cosa? »
« Quella con cui hai investito tuo padre ».
« L’ho rubata ».
« Sei diventato bravo » commenta Karen, ruotando i piedi piccoli sulle tegole cigolanti.
Lip fa spallucce e stringe il filtro di una sigaretta tra i denti. « Imparo in fretta » asserisce, fingendosi imperturbabile.
Ma quella è Chicago, vicino a loro scorrono i binari di un treno sferragliante e le luci che si scorgono sono quelle fluorescenti di insegne ormai vecchissime. Vecchie come quella storia: due adolescenti difficili si incasinano la vita. E allora Karen ammette di essere dispiaciuta, più a se stessa che a Lip.
Lui l’ha già perdonata, nello stesso momento in cui il suo pugno ha colpito il volto ossuto di Frank. « Padri del cazzo » sputa fuori, astioso e divertito al tempo stesso. E Karen può finalmente poggiare il capo sulla sua spalla e stringergli la mano ferita.
La notte sta a guardarli, mostrando la fredda inerzia all’ombra della quale sono cresciuti entrambi. Lip sa come si concluderà quella serata: le sue mani sui seni di Karen, il silenzio riempito dagli ansimi, i rumori della periferia che ha finalmente trangugiato altre due prede. Il mondo gira ancora in senso antiorario, dopotutto.



Writer's corner.

Bam, sono tornata! Avete scoperto che sono più incostante di Monica e Frank Gallagher messi insieme, ma la mia scusante è che quest’anno sono di maturità e non ho tempo materiale per lamentarmi. Duro lavoro, gente, ma tanto dobbiamo passarci tutti, prima o poi – a meno che voi non abbiate trovato un lavoro fisso che non richieda un diploma (in quel caso, avete tutta la mia stima).
Anyway, stamattina ho praticamente finito la quinta stagione di Shameless, che mi ha distrutta emotivamente, perché – SPOILER!! – i Gallavich sono come stramazzati sul pavimento lurido di un bagno dell’autogrill. Non so se il paragone è efficace. Tutto quello che ho da dire è: “IAN, WTF?”, oppure: “AUTORI, you messed with the wrong boys!”. Tutto quello che posso fare, invece, è consolarmi pensando a che razza di percorso in positivo abbia compiuto Mickey Milkovich, ma spero tanto che ritrovi la sua aria da bulletto del South Side e combatta per il suo ragazzo bipolare a cui ha appena detto “I love you” (sigh, che schiaffo in fronte).
Sto davvero divagando, guys. Cioè, mi sono messa a parlare dei Gallavich quando la fic riguarda Lip. Il Lip della prima stagione. Quello che gli autori poi hanno appiattito psicologicamente con la scusa del college, per tirarlo fuori quando c’è stato bisogno dell’effetto lacrimuccia, facendolo lagnare per la miseria nella quale è costretto a barcamenarsi. Sapete che vi dico? La sola storyline che ho digerito in queste ultime due stagioni è stata quella di Fiona. Ricordate quando ad un certo punto dello show disse che i suoi unici perni erano Lip e Ian? Beh, ora si ritrova sola senza entrambi e – guess what – mi sembra naturale che stia sbarellando. Non mi piace che si tenti di fare lo stesso con Lip. Quindi mi sono presa un po’ di tempo per smaltire un po’ di lacrime Gallavich concentrandomi sul finale della prima stagione, quando Shameless era tutto una scoperta. Lip è sempre stato il mio preferito, l’ho sempre ammirato perché riusciva a destreggiarsi benissimo nonostante non si trovasse mai al suo posto. Lip non ha una casa e mai l’avrà, e questa psicologia mi affascina a tal punto che non sono riuscita a trattenermi.
 
Ps: sì, adoro Lip e Mandy insieme, ma questo non significa che io non apprezzi il significato del personaggio di Karen. Forse a lei si deve più di quanto si pensi.
 
Watch your back, readers. See ya.
 
Cassie. x


 
   
 
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