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Autore: nevermore997    12/04/2015    2 recensioni
"I momenti migliori dell'amore sono quelli di una quieta e dolce malinconia dove tu piangi e non sai di che".
Raccolta di One Shot, con due denominatori comuni, amore e malinconia. Storie di amori deboli, che finiscono, che non vanno, amori difficili e combattuti, amori tristi, amori che sembrano destinati all'eternità ma si concludono nel nulla, nell'oblio, svaniscono lasciando tracce nella mente e nell'anima. Storie che tutti conosciamo ma che spesso non vale la pena di raccontare.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Rumori

 

Pioveva a dirotto. Le gocce scendevano dal cielo con furia, quasi vendicative, quasi volessero punire con la loro furia quella malinconica domenica. La stazione dei treni era semideserta ed Angelica, seduta da sola su una panchina malconcia, ascoltava il rumore dell’acqua che si infrangeva sulle rotaie, lo scalpiccio dei piedi dei pochi passanti sull’asfalto bagnato, il rombo dei motori delle auto che parcheggiavano in lontananza. Le piacevano i rumori, molto più della musica. La musica non le diceva proprio niente, le note assemblate nel tentativo di trasmettere una qualche emozione le sembravano un’incredibile forzatura. Il rumore, quello involontario, quello inaspettato, era quella la vera natura delle cose. Era quel manifestarsi del mondo nella sua autenticità che solitamente aveva il potere di rassicurarla.

Ma non quel giorno.

Quel giorno Angelica non faceva che guardarsi attorno con fare preoccupato, incapace di chiudere gli occhi e tranquillizzarsi in quella stazione rumoreggiante. Centinaia di pensieri confusi le infestavano il cervello. Non avrebbe dovuto essere lì, quello era certo. Quel mattino avrebbe dovuto restarsene a casa a dormire, e non agghindarsi con la gonna più bella che aveva e farsi quaranta minuti a piedi sotto l’acquazzone solo per raggiungere quel luogo desolante. Si sentiva patetica, ridicola, impersonale. Lei non faceva mai quel genere di cose. Non permetteva a sé stessa sentimentalismi nei confronti di niente. Non verso gli oggetti, non verso gli avvenimenti, ma soprattutto non verso le persone. Se una persona riesce ad appiccicarsi alla tua anima, pensava Angelica, allora sei perduto.

Eppure quel giorno lei era lì proprio per una persona. Con in capelli grondanti ed i vestiti sgualciti, aspettava come una patetica innamorata qualunque che lui arrivasse, che uscisse dalla biglietteria trascinando un trolley con la sua solita espressione esagitata.

«Stupida», si disse, prendendosi la testa tra le mani. «Sei proprio una stupida.»

Avrebbe dovuto andarsene. Avrebbe dovuto essere fredda ed equilibrata come al solito, sarebbe dovuta sfuggire a quella situazione finché era ancora in tempo. Ma non ce la faceva.

Tra lei ed Alessio era stata soltanto una storia estiva. Angelica non le voleva, le cosiddette “cose serie”, non voleva permettere a nessuno di invadere le caotiche stanze del castello della sua anima. Era veramente assurdo che si fosse lasciata prendere dall’impulso e si fosse recata un quel dannatissimo posto degli addii per eccellenza, in quella stazione dei treni dove pioveva ed ogni rumore aveva un suono triste.

Angelica ed Alessio si erano già salutati la sera prima. La sera prima Angelica si era sentita forte e libera ed aveva pensato che questo, in fondo, non era che il normale svolgimento delle cose, non era che il finale di una storia come tante altre. Mai interferire con il destino, era questo il suo motto. Per questo, mentre aspettava, si sentiva stupida e fuori posto come mai in vita sua.

In quel momento spuntò sulla banchina un ragazzo moro, alto ed affusolato. Con una mano trascinava la valigia e con l’altra si picchiettava nervosamente la coscia a ritmo di una musica che esisteva solo nella sua testa. Era inconfondibile. Alessio.

Angelica si sentì pervadere dal panico. Lui non l’aveva ancora vista, era il momento buono per voltarsi e scappare, per impedirsi con la forza e l’autocontrollo gesti avventati di cui, lo sapeva, avrebbe finito per pentirsi.

Non fece niente di tutto questo. Si alzò e, camminando come un automa, si diresse verso di lui. Come una falena che non riesce a trattenersi dal volare verso la luce, anche se sa che la ucciderà.

«Ciao.»

Alessio si ritrovò faccia a faccia con quella ragazza minuta, che non sorrideva. Si teneva a distanza di sicurezza e si torceva le mani dietro la schiena, come a sottolineare che no, non aveva nessuna intenzione di abbracciarlo.

Però era lì.

Tutti gli amici di Alessio gli avevano ripetuto più volte che da Angelica non ci si doveva aspettare niente, che era fredda e distante, che non si affezionava mai, neanche per sbaglio, neanche per scherzo, neanche per caso. Eppure, nonostante i suoi modi di fare fossero spesso raggelanti e di sicuro non scoppiasse di belle parole, nei suoi occhi c’era qualcosa che comunicava il contrario. Erano grandi, marroni, caldi, brillavano di umanità e di promesse mai pronunciate ad alta voce. Alessio, che aveva l’ansia perenne, negli occhi di Angelica trovava la pace.

«Angelica», le disse.

Restarono in silenzio, pur avendo in realtà mille cose da dirsi.

«Non hai l’ombrello», disse lui alla fine. Tra tutti i pensieri meravigliosi che avrebbe potuto comunicarle, scelse proprio quella banalità, quella frase insulsa.

«L’ho dimenticato», rispose lei, con un sorriso talmente tirato che faceva venir voglia soltanto di piangere.

La conversazione cadde ed ecco che erano di nuovo zitti, l’una a guardarsi le punte delle scarpe ed ascoltare il proprio respiro irregolare e l’altro che avrebbe voluto soltanto che lei alzasse gli occhi. Non ti aspettare niente da Angelica, gli avevano detto tutti. Eppure lei era lì, una ciocca di riccioli bruni bagnati che sfuggiva al suo controllo e l’aria di chi si sente fuori posto come non mai, ma non ha il coraggio di andarsene. Rivolse un’occhiata al grande orologio a muro della stazione: le 10.15. Ancora dieci minuti e sarebbe partito, per rivederla forse mai più, forse in sogno, forse anche per davvero, in un futuro lontano. Ma ad Alessio il futuro non interessava. Riusciva solo a pensare a quei dieci minuti che gli rimanevano. Solo 600 secondi degli occhi di Angelica.

«Perché sei venuta?», riuscì a chiederle alla fine.

Lei si strinse nelle spalle. Perché era venuta? Perché si era accorta che le sarebbe mancato, perché scollandosi dalla sua anima dove si era pretenziosamente insinuato avrebbe lasciato un vuoto incolmabile. Perché lei non lasciava mai che qualcuno incrinasse le sue emozioni, eppure lui aveva disobbedito a tutte le sue regole. Perché forse stava provando quel sentimento grande come il mondo di cui non riusciva nemmeno a pronunciare il nome.

«Volevo salutarti», disse semplicemente.

Alessio era più ingenuo di Angelica, ma lo sapeva anche lui, che quella era la fine. Cosa si desidera da un bel finale? Un bacio, la promessa di un futuro lieto, un “per sempre” sussurrato coi visi talmente vicini che i respiri si confondono? Ma quello tra lui ed Angelica non era un bel finale. Loro rappresentavano la realtà nei suoi aspetti più desolanti, erano una storia vera, che sfuma nei ricordi e si perde nell’oblio. Un altro sguardo all’orologio. Cinque minuti.

«E’ triste, non trovi?»

Angelica sembrava tremendamente assente, mentre parlava.

«Che cosa?»

«Che le cose belle siano quelle più dolorose. Aveva ragione Wilde.»

Lui Wilde nemmeno sapeva chi fosse, ma si sentì comunque sconfitto dal peso della verità di quella frase.

Angelica aveva finalmente trovato il coraggio di guardarlo in faccia e la tristezza ed il senso di confusione ed ingiustizia che vide nei suoi occhi le fecero tremare il cuore. D’improvviso seppe qual era la cosa giusta da fare, o forse era la più sbagliata di tutte. Non le importava. Con uno slancio fulmineo si avvicinò ad Alessio e lo circondò con le braccia magre, affondando la testa nel suo torace, serrando forte le palpebre, ispirando più forte che poteva il suo strano odore di prato appena tagliato, di casa pulita, di lenzuola amate. I rumori di quel momento erano indescrivibili. La pioggia sull’asfalto, le grida della gente, il boato in lontananza del treno che si avvicinava. Ma tutto questo era secondario. Prima di tutto c’era il cuore di Alessio che batteva all’impazzata, come ali di una colomba che sbattono sulle sbarre di una gabbia in cerca della libertà.

Lui dapprima restò pietrificato, ma poi, finalmente, si mosse. Incredulo, sollevò le braccia e le avvolse attorno alla schiena di Angelica con tanta forza che pareva quasi volesse strangolarla. Come se fosse stata la sua ancora di salvezza, da non lasciare mai più andare. Si concesse addirittura di crogiolarsi nella speranza. Speranza di rivederla, di tornare l’anno dopo e di trovarla lì ad aspettarlo, in quella stessa stazione, solo che con un cielo azzurro di gioia anziché grigio di rimpianti. Angelica lo sapeva, che quello era un addio, eppure non voleva lasciarlo andare, nemmeno quando sentì che il treno si era fermato a pochi passi da loro. Le porte si aprirono, la gente iniziava a salire. Alessio doveva partire, ma restava lì abbracciato ad Angelica accarezzandole i capelli e tremando tra le sue braccia. Agli occhi dei viaggiatori in treno non erano che una normale coppia di giovani innamorati. Li guardavano con tenerezza e si convincevano che l’amore esistesse, sospiravano e desideravano a loro volta di poter provare qualcosa di tanto intenso, di tanto meraviglioso ed eterno. Si sbagliavano, naturalmente. L’amore, nella remota eventualità che esista, certamente non è eterno. E’ effimero, breve, può durare anche soltanto un istante. Su una cosa però non c’era dubbio: quello era il magico istante di Alessio ed Angelica.

Quando riuscirono a lasciarsi andare Alessio aveva gli occhi lucidi ed Angelica un sorriso triste come l’ultimo sole d’estate. Non importava più niente delle cose non dette, della freddezza di Angelica e dell’ansia di Alessio. C’erano solo il qui e l’adesso. Era tutto esattamente come doveva essere.

«Non dimenticarmi, ok?», chiese Alessio affannosamente, con la voce un po’ rotta. Angelica scosse la testa come a dire che non era possibile.

«Promettimi che ci rivedremo.»

Stavolta Angelica annuì anche se non ci credeva nemmeno lei, anche se sapeva benissimo che gli addii sono addii e basta e non c’è verso di cambiare le cose.

Il treno stava già ripartendo. Alessio, a malincuore, strinse per l’ultima volta il viso di Angelica tra le mani e le diede un bacio sulle labbra. Fu un contatto breve, di non più di qualche secondo, ma fu abbastanza. Era tutto quello che avevano da dirsi, niente di superfluo, niente di eccessivo. Solo un bacio.

Salì sul treno senza guardarsi indietro nemmeno una volta, perché la vista di Angelica sulla banchina che rimpiccioliva man mano che il treno si allontanava era un ricordo che non voleva conservare. Lei invece rimase immobile a guardare Alessio che spariva dalla sua vita, rimase immobile finchè il treno non fu sparito all’orizzonte e per molto altro tempo ancora. C’erano il rumore della pioggia, della stazione che si riempiva man mano di persone, dei saluti di amici ritrovati, delle imprecazioni di uomini in ritardo. Ma Angelica non stava ascoltando quello. Sentiva solo il rumore del cuore di Alessio.











Buona domenica sera, cari lettori.

Se siete arrivati fino a questo trafiletto finale vi dico grazie, grazie, grazie.

Sono Nevermore e chi ha già letto qualcosa di mio sicuramente sa che normalmente scrivo tutt’altro genere. La mia specialità è il sarcasmo e di solito quello che scrivo per il prossimo ha lo scopo di rallegrarlo. Stavolta ho voluto cimentarmi in questo, e non so come sia il risultato. Avevo già pubblicato questa storia tempo fa, ma la ripropongo come "pilot" di un progetto diverso, ossia una raccolta di One Shot le cui caratteristiche potrete leggere nella descrizione della storia. Ogni recensione è molto apprezzata. Scusate se non so scrivere uno straccio di commento decente alle storie che scrivo. Imparerò, giuro. Forse.

Nevermore
  
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