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Autore: Kanchou    24/12/2008    6 recensioni
Una casa in un campo, una vanship che vola nel cielo. L’ultima scena di Last Exile come avrei voluto vederla io. E un finale (forse) inatteso, per quelli come me che proprio non vogliono rassegnarsi a non rivedere mai più lui. [Dedicata a tutti i personaggi]
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Il Nuovo Mondo

 

di Kanchou

 

 

 

Guizzò nel cielo come un pesce dalla superficie del mare.

Per un attimo, il riflesso del sole, liquido e abbagliante, scivolò sul dorso d’argento, e subito la vanship, rapida come era apparsa, si rituffò oltre la cresta della collina, nel giallo ondeggiante del grano.

La donna abbassò dalla fronte la mano con la quale aveva fatto schermo al sole e l’allungò verso il compagno. Lui la prese e con la scusa di baciarne il dorso delicato impose alla donna di fermarsi.

“Cammini troppo rapidamente” le disse. “Ti stancherai.”

Lei continuava a guardare l’azzurro oltre la collina. “Credi che ci abbiano visto?” domandò.

“No. Eravamo nascosti dalla massa del colle.”

“Ancora questa salita e poi dovremmo vedere la casa” disse la donna, finalmente voltandosi e sorridendo con quella espressione dolce e risoluta capace di convincere tutti a seguirla, ad affrontare qualsiasi cosa con lei, persino a morire per lei.

L’uomo le accarezzò la mano e poi la guancia. “Non capisco la tua ostinazione ad arrivarci a piedi. La vanship imperiale avrebbe dovuto portarti fin lì e tu avresti evitato…”

“Voglio avvicinarmi lentamente” disse lei. “Voglio vederli da lontano. Tutti. Tutti quanti.”

 

 


La tovaglia profumava di bucato. Si gonfiò come una vela, quando Dunya e Alister, ognuna tenendone i due capi, l’aprirono in aria per distenderla sul grande tavolo. Avrebbero mangiato all’aperto, sotto la pergola che i ragazzi avevano finito da poco di costruire. Una pergola dalla quale ancora non pendevano i grappoli dell’uva che Mullin aveva appena piantato, ma un telo di cotone immacolato come la tovaglia.

“Uhm… quanto credi che rimarrà così bianca prima che qualcuno ci versi del vino sopra?” domandò Dunya. Lo sguardo le era finito istintivamente sul gruppetto di quattro persone che oziava sul prato davanti alla casa, proprio al limitare del campo di grano. Quello completamente pelato era forse salvabile, quanto a educazione, ma era sopraffatto dal comportamento maldestro degli altri tre. Ethan era stato capace di dare fuoco alle proprie stesse mutande, qualche giorno prima, soltanto perché Kostabi gliele aveva messe davanti a tradimento proprio mentre dava spettacolo con quel giochetto idiota dell’accendino. La cosa peggiore era che quando facevano danni Dunya non era capace di trattenersi e scoppiava a ridere. Aveva provato a squadrarli severamente per darsi il contegno da padrona di casa, ma più di una volta si era ritrovata a partecipare allo scherzo. In effetti, non era nemmeno riuscita ad evitare che varie macchie di sugo finissero come decorazione del grembiule e impedire all’arrosto di bruciare aveva richiesto tutta la sua attenzione, quella mattina. Non era nata donna di casa e nemmeno lontanamente matrona, però aveva intenzione di mettercela tutta per diventarlo. Per amore di Mullin.

Alister scosse lievemente le spalle. “Se sporcano, laveranno il bucato di tutta la settimana.” Le scappò un sorriso. Con quei quattro nei paraggi era impossibile annoiarsi. Tra pochi giorni i meccanici avrebbero lasciato la casa e le sarebbero mancati moltissimo. Soprattutto Ethan. E non se ne sarebbero andati soltanto loro. La breve vacanza stava per finire. Sarebbe stato bello continuare a vivere insieme, tutti quanti, come se la casa di Mullin avesse preso il posto della nave del comandante Row. Ma ognuno aveva la sua piccola parte di mondo da costruire altrove e questo era meraviglioso e un po’ triste, come tutte le cose veramente belle. A volte temeva persino che anche Tatiana avrebbe preso una strada diversa dalla sua. Sapeva che sarebbero state legate per sempre e che avrebbero continuato a condividere il loro grande progetto, quello di fondare un’accademia di volo in memoria dei piloti morti nella lotta contro la Gilda. Ma Tatiana non era più la stessa di un tempo. Sembrava un albero al quale per la prima volta sbocciassero i fiori, come se le precedenti primavere fossero state soltanto immagini fasulle della bellezza che doveva ancora arrivare.

Alister sentiva che qualcosa di imprevedibile stava per apparire sul cammino della sua amica. Non era mai stata così bella e disponibile al mondo e nei suoi occhi, a sua insaputa, si era insediata una luce sfuggente, la stessa che brilla negli occhi di chi si allontana dal cammino previsto per inseguire il richiamo del cuore e del sogno. Tatiana, pur così riservata, aveva trovato il coraggio di essere una persona romantica.

“Ma dove sono i tovaglioli? Non li trovo” disse Dunya.

Alister si ricordò di averli lasciati in una cesta, in cucina. “Vado a prenderli io.” Dalla parte opposta della casa, oltre le finestre della facciata, sentiva venire la voce di Tatiana che spiegava a uno dei fratellini di Dunya come si avvia l’unità della vanship. In cucina la pentola del sugo gorgogliava senza emettere alcun odore di bruciato.

La cesta era ancora sul davanzale. Alister non si sorprese di trovare un mazzetto di fiori di campo sui tovaglioli. Sapeva chi lo aveva lasciato lì. Lo prese e se lo portò alle labbra. Si affacciò alla finestra aperta. Ethan la stava guardando. Era proprio carino con i jeans e la faccia arrossata dal sole. Alister gli lanciò una gran sorriso.

 

 


Avrebbe apparecchiato la grande tavola da sola. Sì, aveva preso questo impegno e lo avrebbe mantenuto a tutti i costi. Dunya aveva cucinato, Alister l’aveva aiutata, Tatiana e Mullin si erano occupati dei bambini e degli ospiti. Lei aveva soltanto tagliato i pomodori del sugo e le patate dell’arrosto. Non aveva ancora fatto niente di davvero determinante e soprattutto non poteva permettere che le sue amiche, dopo tutta la fatica di quella mattina, dovessero anche apparecchiare facendo la spola tra la cucina e il pergolato.

Alvis aprì la credenza. Piatti e posate erano nei due ripiani di sotto, i bicchieri in quello di sopra. Si allungò sulle punte. No, non ci arrivava, ai bicchieri, eppure era cresciuta parecchio dai tempi della Silvana, quando saliva su uno sgabello per aiutare il signor Briand in cambusa.

Doveva procedere in modo organizzato.

Prima i piatti. Erano spessi e pesanti. Avrebbe dovuto fare diversi viaggi dalla cucina alla tavola per portarne pochi alla volta. E poi quanti erano gli invitati? Li contò sulle dita. Erano tantissimi. Quindici, bambini compresi. Si guardò intorno. No, Dunya non aveva un carrello per trasportare i piatti.

Ne estrasse una pila dal primo ripiano. Dieci, li prese in grembo e li depose sul tavolo.

Tornò di corsa alla credenza. Altri sei piatti, e visto che c’era, ci aggiunse le forchette. Un altro viaggio alla credenza per i coltelli. Eccoli, tutti insieme, piatti e posate, sul tavolo. Si domandò se fosse il caso di portare anche i cucchiaini. Dunya aveva preparato il budino.

Accostò una sedia alla credenza. Ora aveva quasi all’altezza degli occhi tutti i bicchieri. Ne prese un paio. Le sue mani, ancora piccole, non avrebbero potuto tenerne più di due alla volta. Tanti tanti viaggi fino al pergolato.

 

 


Davvero, non lo aveva immaginato.

Sgranò gli occhi ad assorbire meglio l’azzurro senza fine. Incredulo, ancora, dopo tutti quei mesi, che potesse esistere un cielo come quello. Quanto volte, da quando era cominciata la sua nuova vita, si era ritrovato così, a pancia all’aria nei campi, avvolto dalle spighe, a guardare quel cielo che non lo saziava mai, ad affondare con gli occhi in quella profondità infinita e perfettamente libera.

No, non poteva sapere, prima di venire qui, sul Pianeta azzurro, con gli altri, che il cielo di Prestel, il cielo conosciuto per tutta la vita, era soltanto una cupola di smalto. Una cupola splendente, ma alla fine soltanto l’espansione immensa delle volte azzurre, delle vetrate d’oro che incoronavano le alte sale della Gilda. Fuori dal castello, aveva volato in niente altro che un castello più grande, un cielo di cui avrebbe potuto toccare il bordo con un dito, se solo avesse osato allungare la mano.

“Peccato, Lucciola, che tu non possa vedere questo nuovo cielo, qui con me” pensò.

A volte si sentiva in colpa. In questo, forse, stava la differenza tra il ragazzo che era un tempo e quello che era diventato. Era sopravvissuto a Lucciola, che più di lui aveva meritato di vivere almeno una volta un poco di felicità. Aveva passato mesi di incoscienza e di follia, dopo essere stato raccolto nel Grand Stream dai suoi compagni della Gilda, ma poteva ricordare il momento preciso in cui era tornato in sé, quello in cui la mente aveva di nuovo condensato in un “io” la coscienza di ciò che era, rinnovata, sofferente e miracolosamente libera. E in quel momento aveva sentito soltanto il desiderio di stringere il caro amico e piangere con lui.

Poi la lenta risalita in quella strana esistenza fatta di tempi, sapori, desideri nuovi. I cancelli di Prestel si erano aperti e anche lui, con gli altri, era venuto nel nuovo mondo. Non era più stato triste, così triste come nell’istante del risveglio. Aveva tutti quegli amici e amore e una vita grandiosa da conquistare con loro. Ma non poteva fare a meno di sentire una mancanza, come la piega nascosta che impedisce all’abito di cadere perfetto. Tutti loro avevano perduto qualcosa nel vecchio mondo, qualcosa che faceva alzare uno sguardo malinconico verso le stelle ogni volta che erano felici, per l’istintivo ricordo del sacrificio immenso che quella felicità aveva richiesto come tributo.

Sollevò il busto, spuntò con la bella testa sopra le spighe di grano.

Un tempo una casa come quella, legno e pietra in mezzo ai campi, gli avrebbe fatto orrore come una cosa sporca e miserabile. Adesso gli sembra il posto più bello del mondo. Il legno ancora fresco di pialla, la porta verniciata, le viti da poco piantate sotto al pergolato, Alister che chiacchierava con Ethan alla finestra della cucina, i meccanici che sghignazzavano sul prato. Ecco, adesso vedeva anche Alvis. Alvis che usciva di casa con una pila di piatti sulle braccia. Una pila di piatti alta, pesante, davvero troppo pesante per lei. Una pila che barcollava pericolosamente.

Corse dalla piccola e un attimo prima che le cadessero per terra se li caricò sulle braccia.

“Dio!” protestò la ragazzina. “Voglio apparecchiare io. Tutto io.”

“Non terrai il divertimento solo per te?” disse Dio posando delicatamente la pila sul tavolo.

“Ma ho promesso di farlo io!”

Dio contò i piatti. Dodici. Ma quante erano le persone a tavola?

“Dio!”

“Non preoccuparti, Alvis. Manterrai la promessa. Tu apparecchierai, e io porterò le cose per te.”

Alvis rifletté per qualche istante. Dio era un po’ diverso da prima. Ora aveva i capelli corti corti e si scambiava i vestiti con Claus e poi non dava mai ordini a nessuno, anzi chiedeva sempre il permesso. Ma per il resto non era cambiato e se si metteva in testa di fare una cosa non c’era nessun modo di convincerlo a cambiare idea. Però era sempre il ragazzo più bello e buono del mondo ed era stato gentile a offrirsi di aiutarla. In fondo, Dio avrebbe svolto lo stesso ruolo di un carrello e lei avrebbe stabilito che cosa portare e come distribuire piatti, posate, caraffe, fiori e vassoi sulla tavola. La sua buona azione non sarebbe stata compromessa.

“Allora, Alvis, quanti saremo?”

“Quindici. Tu, io, Dunya, Mullin e i bambini, i meccanici…”

“Immelmann…”

“Sì, Claus e Lavie, Alis, Tatiana e il signore che beve sempre il caffè…”

 

 


Tatiana Wisla era terribilmente graziosa con quel vestito corto e il cappello di paglia in testa.  

Per un attimo, guardandola a una certa distanza mentre aiutava il bambino a scendere dalla vanship parcheggiata presso la casa, era possibile considerarla soltanto la ragazza più bella che avesse mai incontrato – ma maledettamente giovane. Troppo, accidenti! – e persino dimenticare quanto lo mettesse in agitazione quando si trovava da solo con lei.

Era accaduto raramente, ma gli era bastato per capire che era diversa da tutte le altre. Con lei era inutile ostentare la sicurezza dell’uomo di mondo. Lo sguardo ben studiato del seduttore incallito, morbido e diretto, che le donne percepivano come un complimento al limite della decenza, le era indifferente, come anche il grado di ammiraglio, il titolo nobiliare e una ricchezza che gli avrebbe fatto cadere ai piedi qualunque ragazza. Aveva anche sospettato che non fosse interessata agli uomini, ma che preferisse la compagnia delle donne, come la graziosa amica dalla quale non si staccava mai. E nonostante questo, e il costante senso di frustrazione che gli serrava la gola in sua presenza, lui si trovava lì, in mezzo a quei ragazzini, nel posto più inverosimile in cui potesse immaginarsi, senza il rassicurante peso della divisa addosso, ripetendosi che era un idiota e oltretutto – ne era certo - con un’espressione da cane bastonato sulla faccia che lo metteva a disagio persino più delle occhiate indifferenti della Wisla.

Mentre Tatiana continuava a non prenderlo in considerazione, Vincent, seduto a terra sul patio e rigirando nervosamente la tazza nella mano, non riusciva a staccarle gli occhi di dosso e a non pensare che dal giorno in cui l’aveva vista, sulla Silvana, quella ragazzina gli aveva riversato dentro una specie di incantesimo. Si sentiva con le spalle al muro, con lei, e tuttavia, come ai tempi dell’Accademia, quando Alex smontava le sue buffonate con l’impercettibile piega di uno sguardo, con l’indifferenza aurea di cui la natura l’aveva dotato apposta per distruggergli l’ebbrezza della superficialità, non era assolutamente capace di fare a meno di guardarla e, se non era a portata dei suoi occhi, di inseguirla almeno col pensiero.

Data la sua condizione di avvilimento, ci mise vari secondi a convincersi che la voce da contralto proveniente dalla postazione del pilota della vanship si rivolgeva proprio a lui.

“Ancora quel caffè, comandante Alzey?”

La frase più ovvia, che tuttavia gli suonò nelle orecchie imprevedibile come gli sarebbe apparso ascoltare la sirena della Urbanus (la sua nave morta e sepolta) in quel campo di grano.

Si vide molto stupido, mentre si alzava in piedi di scatto.

“Non è caffè, quello che sto bevendo” rispose bruscamente.

Vincent, mosso dalla stessa forza incomprensibile che lo spingeva verso di lei e contemporaneamente lo faceva sentire un idiota, si avvicinò alla vanship, per ritrovarsi faccia a faccia con la ragazza che vi stava seduta dentro. Lei aveva un’espressione enigmatica e molto poco promettente.

“Ah no? E che cosa c’è nella tazza, allora?” Tatiana aveva appoggiato il mento alle mani e le mani al bordo del vano pilota. I suoi occhi esattamente all’altezza di quelli di lui. Gli occhi grigi più belli del mondo, pensò Vincent.

“Acqua. Niente caffè. Sono nervoso.”

Alcuni interminabili secondi, nei quali la Wisla continuò a fissarlo diritto nel centro delle pupille.

Si sta prendendo gioco di me, non c’è dubbio, pensò Vincent.

“E perché è nervoso, comandante?”

“Perché lei, capitano Wisla, mi ha chiesto di venire qui, in questo posto, sottraendomi ai miei gravosi impegni di comandante della nuova flotta, eppure non mi degna della minima attenzione.”

Tatiana non sgranò gli occhi, sorpresa della risposta, e nemmeno si adirò. Socchiuse le palpebre morbidamente, come per trattenere un sorriso.

“Il comandante ricorda male o mente spudoratamente. Non sono stata io ad invitarla. Io le ho soltanto riferito l’ordine dell’imperatrice di passare qui con noi questi due giorni. Un ordine che ha sorpreso anche me.”

Vincent si adombrò. Che cosa poteva risponderle ora? Non ne aveva idea. Lui, proprio lui, era rimasto senza parole. Sarebbe stato facilissimo ribattere che non aveva intenzione di continuare a fare la figura dello scemo e che era arrivato il momento di andarsene, ordine dell’imperatrice o meno. Oppure avrebbe potuto sbatterle in faccia qualche battuta volgare per scandalizzarla, per esempio che un pilota non poteva permettersi di andare in giro con quelle tette esagerate.

Ottima idea, sì, pensò. Così quella avrebbe tirato fuori la pistola che sicuramente teneva in qualche infernale nascondiglio, lì nella vanship. E comunque non era da lui rimanere zitto come un pesce lesso davanti agli occhi – i bellissimi occhi grigi – di una ragazza.

“Ha mai volato su una vanship, comandante?”

Che cosa c’entrava adesso una domanda del genere? Davvero, la ragazza se la stava spassando allegramente alle sue spalle.

“Le piacerebbe provarci? Volare con me?” domandò Tatiana.

L’ultima volta che qualcuno gli aveva chiesto una cosa del genere – Alex, a diciassette anni – Vincent gli aveva riso in faccia.

“Non le chiedo troppo. Una volta sola” insistette la ragazza.

Incredibile. Non c’erano dubbi. Tatiana Wisla gli stava sorridendo. Sorrideva tranquilla a venti centimetri dalla sua faccia. Vincent si schiarì la voce, si diede un contegno e rispose:

“Desideravo che qualcuno prima o poi me lo chiedesse.”

 

 


Un rombo passò nel cielo e prese forma in un’ombra affusolata che macchiò il sole e percorse tutto il campo, sempre più lontana, verso la casa.

“Immelmann!” gridarono Mullin e il bambino che portava in spalla, un attimo prima di ricadere a terra in uno sbuffo di spighe.

Ora anche Claus e Lavie erano arrivati. E con loro, più forte, come il vento che increspava le pozze, giù al torrente, o agitava le spighe nel fragore della tempesta, la gioia di essere di nuovo tutti insieme.

Il bambino scivolò giù dalle spalle e si lanciò in una corsa solitaria verso la casa. Sembrava una palla colorata che rotolasse e saltellasse giù per la distesa del campo. Claus e Lavie erano già atterrati e gli altri, da ogni parte della casa, del prato, del campo, erano accorsi per festeggiarli.

Anche Dunya, col suo grembiule bianco, il fazzoletto in testa e – poteva vederla anche da qui – la ciocca di capelli neri che le cadeva sulla faccia. Oh come amava quei capelli sempre fuori posto e l’espressione imbronciata di Dunya quando tentava inutilmente di disporli in modo più simmetrico!

Mullin aveva il cuore leggero. Non vuoto di preoccupazioni e paure, tuttavia. Doveva badare a una famiglia, provvedere al raccolto, dare un futuro ai due fratellini e ai figli che avrebbe avuto con Dunya. Aveva progetti e per la prima volta – come aveva imparato da Claus – dei veri sogni da inseguire in questo misterioso mondo appena nato. Era un cuore colmo, il suo, d’amore, di speranza, di paura, ma leggero e fluttuante nella felicità di ciò che aveva conquistato. Leggero e fluttuante come le spighe dorate del campo.

Mullin, camminando, le sfiorava con la mano. Pungevano e baciavano le dita, ispide e vellutate. Le sue spighe, quelle che aveva piantato l’anno prima nella terra che pareva non avere aspettato altro che lui, per secoli, paziente, pronta e amorevole come il corpo di Dunya.

Inspirò profondamente. Da laggiù venivano voci, allegria, risate, tra poco le avrebbe raggiunte. Ma amava quei momenti di silenzio e solitudine nel suo campo. Finalmente, lì, tra quelle spighe, Mullin era l’uomo che desiderava essere.

Nei ricordi, lontano da lui, c’erano il tuono dei cannoni e dei moschetti, il vapore e la fuliggine rappresi sulle guance. Adesso, invece, il fruscio lento delle spighe e i lunghi pensieri silenziosi del tramonto, quando scendeva dal campo per tornare da Dunya.

Claus aveva trovato se stesso nell’aria e nella purezza del cielo. Lui qui, su quella terra gentile e feconda. Ne era valsa la pena. Venti medaglie, diciannove pallottole che l’avevano sfiorato, una che l’aveva preso in pieno petto, quasi uccidendolo. Sì, sarebbe valsa anche la pena, quella ventesima volta, persino di morire per questo.

 

 


“Ahia! Accidenti, Lavie, che male!”

E' solo colpa tua. Lo sai che quando mi provocano reagisco così.”

Lavie era scesa dalla vanship da venti secondi e già aveva salutato Godwin con un pugno nello stomaco (che aveva fatto più male a lei che a lui) e un discreto calcio negli stinchi a Gale. Questo per il semplice motivo che nei primi dieci secondi Gale e Godwin avevano rispettivamente ironizzato sul suo evidente acquisto di una misura di reggiseno, dall’ultima volta che si erano incontrati, e mimato con lei un incontro di boxe in segno di benvenuto.

Era sempre molto divertente rivedere i vecchi compagni, cazzotti a parte, e – tempo altri cinque secondi – si ritrovarono tutti ad abbracciarsi, Godwin a piangere come un bambino.

Lavie e Claus tornavano da un’esplorazione del mare e la grandiosità della scoperta di quel nuovo elemento – nuovo perché dopo molti mesi ancora non riuscivano ad abituarsi a quella mutevole distesa d’acqua di cui a Prestel non sospettavano neppure l’esistenza – donava ai loro visi il languore luminoso di un’emozione che era difficile condividere con gli altri.

Già Dunya stava per richiamare tutti quanti a tavola per il pranzo e Alvis saltellava sul patio per la contentezza di vedere gli ospiti seduti intorno al tavolo che aveva imbandito con cura, fiori compresi, quando Vincent – che in silenzio si era allontanato sul prato, verso la collina, come richiamato da qualcosa – fece cenno di guardare in quella direzione.

Due figure scendevano tra le spighe, bianche nell’oro che brillava al sole.

Una donna dalla veste lunga e leggera, un uomo alto, dai capelli scuri.

“Alvis,” disse Tatiana “dobbiamo apparecchiare per altri due.”

 

 


Dall’altura coperta di grano, vedevano la casa, la vanship atterrata, le singole figure, l’allegria sui loro volti.

Sapevano che tra pochi istanti dalla casa di Mullin si sarebbero accorti di loro due e avrebbero gridato per la sorpresa e che nessuno, nemmeno Vincent, avrebbe resistito all’impulso di correre loro incontro.

“Aspetta” disse Alex, come per rallentare quell’ultimo momento di calma prima che esplodesse la gioia degli amici.

Attirò Sophia a sé e appoggiò le mani sul suo ventre. Dal vestito a vita alta la pancia cominciava a mostrare la rotondità del quinto mese. Ormai poteva sentire il piccolo muoversi dentro di lei, poteva sentire battere il suo cuore, se avvicinava l’orecchio.

Nulla era comparabile a questo, né la purezza del volo né la vendetta né l’ebbrezza sublime della libertà. Aveva combattuto per tutta la vita soltanto per capire la cosa più semplice, che l’essenziale da sempre inseguito era il calore di un corpo. Il nuovo mondo stava tutto tra le sue braccia.

“Che c’è, Alex?”

Non riusciva mai a nasconderle la sua malinconia. Sophia riconosceva per istinto quell’ombra evanescente che ogni tanto gli passava sul cuore e lo portava lontano.

Alex teneva gli occhi bassi. “Per colpa di un attimo” disse piano “avremmo potuto perdere tutto questo. Sarebbe bastato solo un attimo e noi non saremmo qui, insieme.”

Sophia gli sfiorò le labbra con un bacio. “Significa che ogni momento è importante” sussurrò. “Come questo.”

Alex sorrise, prima di renderle il bacio.

Dalla casa i ragazzi chiamavano i loro nomi. Li avevano visti. Salutavano con le braccia. Già correvano verso di loro, salendo per il colle.

 

 

Fine

 

 


Spero si capisca che questa storia (finita di corsa, appena in tempo per Natale) è stata scritta con affetto, per quelle persone innamorate di Last Exile che mi hanno tenuto compagnia in questi mesi sempre con tanta simpatia e gentilezza.

A Lan Awn Shee dedico la parte con Vincent e Tatiana, anche per istigarla a scrivere prima o poi una storia vera su questi due. Non è molto, rispetto a tutto l’aiuto che mi ha dato in questi mesi e per la sua pazienza, però ho sempre speranza di trovare qualche altro modo di ringraziarla.

Un abbraccio di auguri anche a tutte le lettrici delle mie fanfic, che aspettano con tanta pazienza gli aggiornamenti.

E adesso non perdiamo tempo. C’è da raggiungere Mullin e gli altri. Hanno apparecchiato anche per noi e ci stanno aspettando!

 

 

 

  
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