Il Nuovo
Mondo
di
Kanchou
Guizzò nel cielo come un pesce dalla
superficie del mare.
Per un attimo, il riflesso del sole,
liquido e abbagliante, scivolò sul dorso d’argento, e subito la vanship, rapida
come era apparsa, si rituffò oltre la cresta della collina, nel giallo
ondeggiante del grano.
La donna abbassò dalla fronte la mano
con la quale aveva fatto schermo al sole e l’allungò verso il compagno. Lui la
prese e con la scusa di baciarne il dorso delicato impose alla donna di
fermarsi.
“Cammini troppo rapidamente” le
disse. “Ti stancherai.”
Lei continuava a guardare l’azzurro
oltre la collina. “Credi che ci abbiano visto?” domandò.
“No. Eravamo nascosti dalla massa del
colle.”
“Ancora questa salita e poi dovremmo
vedere la casa” disse la donna, finalmente voltandosi e sorridendo con quella
espressione dolce e risoluta capace di convincere tutti a seguirla, ad
affrontare qualsiasi cosa con lei, persino a morire per lei.
L’uomo le accarezzò la mano e poi la
guancia. “Non capisco la tua ostinazione ad arrivarci a piedi. La vanship
imperiale avrebbe dovuto portarti fin lì e tu avresti
evitato…”
“Voglio avvicinarmi lentamente” disse
lei. “Voglio vederli da lontano. Tutti. Tutti quanti.”
La tovaglia profumava di bucato. Si
gonfiò come una vela, quando Dunya e Alister, ognuna tenendone i due capi,
l’aprirono in aria per distenderla sul grande tavolo. Avrebbero mangiato
all’aperto, sotto la pergola che i ragazzi avevano finito da poco di costruire.
Una pergola dalla quale ancora non pendevano i grappoli dell’uva che Mullin
aveva appena piantato, ma un telo di cotone immacolato come la
tovaglia.
“Uhm… quanto credi che rimarrà così
bianca prima che qualcuno ci versi del vino sopra?” domandò Dunya. Lo sguardo le
era finito istintivamente sul gruppetto di quattro persone che oziava sul prato
davanti alla casa, proprio al limitare del campo di grano. Quello completamente
pelato era forse salvabile, quanto a educazione, ma era sopraffatto dal
comportamento maldestro degli altri tre. Ethan era stato capace di dare fuoco
alle proprie stesse mutande, qualche giorno prima, soltanto perché Kostabi
gliele aveva messe davanti a tradimento proprio mentre dava spettacolo con quel
giochetto idiota dell’accendino. La cosa peggiore era che quando facevano danni
Dunya non era capace di trattenersi e scoppiava a ridere. Aveva provato a
squadrarli severamente per darsi il contegno da padrona di casa, ma più di una
volta si era ritrovata a partecipare allo scherzo. In effetti, non era nemmeno
riuscita ad evitare che varie macchie di sugo finissero come decorazione del
grembiule e impedire all’arrosto di bruciare aveva richiesto tutta la sua
attenzione, quella mattina. Non era nata donna di casa e nemmeno lontanamente
matrona, però aveva intenzione di mettercela tutta per diventarlo. Per amore di
Mullin.
Alister scosse lievemente le spalle.
“Se sporcano, laveranno il bucato di tutta la settimana.” Le scappò un sorriso.
Con quei quattro nei paraggi era impossibile annoiarsi. Tra pochi giorni i
meccanici avrebbero lasciato la casa e le sarebbero mancati moltissimo.
Soprattutto Ethan. E non se ne sarebbero andati soltanto loro. La breve vacanza
stava per finire. Sarebbe stato bello continuare a vivere insieme, tutti quanti,
come se la casa di Mullin avesse preso il posto della nave del comandante Row.
Ma ognuno aveva la sua piccola parte di mondo da costruire altrove e questo era
meraviglioso e un po’ triste, come tutte le cose veramente belle. A volte temeva
persino che anche Tatiana avrebbe preso una strada diversa dalla sua. Sapeva che
sarebbero state legate per sempre e che avrebbero continuato a condividere il
loro grande progetto, quello di fondare un’accademia di volo in memoria dei
piloti morti nella lotta contro
Alister sentiva che qualcosa di
imprevedibile stava per apparire sul cammino della sua amica. Non era mai stata
così bella e disponibile al mondo e nei suoi occhi, a sua insaputa, si era
insediata una luce sfuggente, la stessa che brilla negli occhi di chi si
allontana dal cammino previsto per inseguire il richiamo del cuore e del sogno.
Tatiana, pur così riservata, aveva trovato il coraggio di essere una persona
romantica.
“Ma dove sono i tovaglioli? Non li
trovo” disse Dunya.
Alister si ricordò di averli lasciati
in una cesta, in cucina. “Vado a prenderli io.” Dalla parte opposta della casa,
oltre le finestre della facciata, sentiva venire la voce di Tatiana che spiegava
a uno dei fratellini di Dunya come si avvia l’unità della vanship. In cucina la
pentola del sugo gorgogliava senza emettere alcun odore di
bruciato.
La cesta era ancora sul davanzale.
Alister non si sorprese di trovare un mazzetto di fiori di campo sui tovaglioli.
Sapeva chi lo aveva lasciato lì. Lo prese e se lo portò alle labbra. Si affacciò
alla finestra aperta. Ethan la stava guardando. Era proprio carino con i jeans e
la faccia arrossata dal sole. Alister gli lanciò una gran
sorriso.
Avrebbe apparecchiato la grande
tavola da sola. Sì, aveva preso questo impegno e lo avrebbe mantenuto a tutti i
costi. Dunya aveva cucinato, Alister l’aveva aiutata, Tatiana e Mullin si erano
occupati dei bambini e degli ospiti. Lei aveva soltanto tagliato i pomodori del
sugo e le patate dell’arrosto. Non aveva ancora fatto niente di davvero
determinante e soprattutto non poteva permettere che le sue amiche, dopo tutta
la fatica di quella mattina, dovessero anche apparecchiare facendo la spola tra
la cucina e il pergolato.
Alvis aprì la credenza. Piatti e
posate erano nei due ripiani di sotto, i bicchieri in quello di sopra. Si
allungò sulle punte. No, non ci arrivava, ai bicchieri, eppure era cresciuta
parecchio dai tempi della Silvana, quando saliva su uno sgabello per aiutare il
signor Briand in cambusa.
Doveva procedere in modo organizzato.
Prima i piatti. Erano spessi e
pesanti. Avrebbe dovuto fare diversi viaggi dalla cucina alla tavola per
portarne pochi alla volta. E poi quanti erano gli invitati? Li contò sulle dita.
Erano tantissimi. Quindici, bambini compresi. Si guardò intorno. No, Dunya non
aveva un carrello per trasportare i piatti.
Ne estrasse una pila dal primo
ripiano. Dieci, li prese in grembo e li depose sul tavolo.
Tornò di corsa alla credenza. Altri
sei piatti, e visto che c’era, ci aggiunse le forchette. Un altro viaggio alla
credenza per i coltelli. Eccoli, tutti insieme, piatti e posate, sul tavolo. Si
domandò se fosse il caso di portare anche i cucchiaini. Dunya aveva preparato il
budino.
Accostò una sedia alla credenza. Ora
aveva quasi all’altezza degli occhi tutti i bicchieri. Ne prese un paio. Le sue
mani, ancora piccole, non avrebbero potuto tenerne più di due alla volta. Tanti
tanti viaggi fino al pergolato.
Davvero, non lo aveva immaginato.
Sgranò gli occhi ad assorbire meglio
l’azzurro senza fine. Incredulo, ancora, dopo tutti quei mesi, che potesse
esistere un cielo come quello. Quanto volte, da quando era cominciata la sua
nuova vita, si era ritrovato così, a pancia all’aria nei campi, avvolto dalle
spighe, a guardare quel cielo che non lo saziava mai, ad affondare con gli occhi
in quella profondità infinita e perfettamente libera.
No, non poteva sapere, prima di
venire qui, sul Pianeta azzurro, con gli altri, che il cielo di Prestel, il
cielo conosciuto per tutta la vita, era soltanto una cupola di smalto. Una
cupola splendente, ma alla fine soltanto l’espansione immensa delle volte
azzurre, delle vetrate d’oro che incoronavano le alte sale della Gilda. Fuori
dal castello, aveva volato in niente altro che un castello più grande, un cielo
di cui avrebbe potuto toccare il bordo con un dito, se solo avesse osato
allungare la mano.
“Peccato, Lucciola, che tu non possa
vedere questo nuovo cielo, qui con me” pensò.
A volte si sentiva in colpa. In
questo, forse, stava la differenza tra il ragazzo che era un tempo e quello che
era diventato. Era sopravvissuto a Lucciola, che più di lui aveva meritato di
vivere almeno una volta un poco di felicità. Aveva passato mesi di incoscienza e
di follia, dopo essere stato raccolto nel Grand Stream dai suoi compagni della
Gilda, ma poteva ricordare il momento preciso in cui era tornato in sé, quello
in cui la mente aveva di nuovo condensato in un “io” la coscienza di ciò che
era, rinnovata, sofferente e miracolosamente libera. E in quel momento aveva
sentito soltanto il desiderio di stringere il caro amico e piangere con
lui.
Poi la lenta risalita in quella
strana esistenza fatta di tempi, sapori, desideri nuovi. I cancelli di Prestel
si erano aperti e anche lui, con gli altri, era venuto nel nuovo mondo. Non era
più stato triste, così triste come nell’istante del risveglio. Aveva tutti
quegli amici e amore e una vita grandiosa da conquistare con loro. Ma non poteva
fare a meno di sentire una mancanza, come la piega nascosta che impedisce
all’abito di cadere perfetto. Tutti loro avevano perduto qualcosa nel vecchio
mondo, qualcosa che faceva alzare uno sguardo malinconico verso le stelle ogni
volta che erano felici, per l’istintivo ricordo del sacrificio immenso che
quella felicità aveva richiesto come tributo.
Sollevò il busto, spuntò con la bella
testa sopra le spighe di grano.
Un tempo una casa come quella, legno
e pietra in mezzo ai campi, gli avrebbe fatto orrore come una cosa sporca e
miserabile. Adesso gli sembra il posto più bello del mondo. Il legno ancora
fresco di pialla, la porta verniciata, le viti da poco piantate sotto al
pergolato, Alister che chiacchierava con Ethan alla finestra della cucina, i
meccanici che sghignazzavano sul prato. Ecco, adesso vedeva anche Alvis. Alvis
che usciva di casa con una pila di piatti sulle braccia. Una pila di piatti
alta, pesante, davvero troppo pesante per lei. Una pila che barcollava
pericolosamente.
Corse dalla piccola e un attimo prima
che le cadessero per terra se li caricò sulle braccia.
“Dio!” protestò la ragazzina. “Voglio
apparecchiare io. Tutto io.”
“Non terrai il divertimento solo per
te?” disse Dio posando delicatamente la pila sul tavolo.
“Ma ho promesso di farlo
io!”
Dio contò i piatti. Dodici. Ma quante
erano le persone a tavola?
“Dio!”
“Non preoccuparti, Alvis. Manterrai
la promessa. Tu apparecchierai, e io porterò le cose per
te.”
Alvis rifletté per qualche istante.
Dio era un po’ diverso da prima. Ora aveva i capelli corti corti e si scambiava
i vestiti con Claus e poi non dava mai ordini a nessuno, anzi chiedeva sempre il
permesso. Ma per il resto non era cambiato e se si metteva in testa di fare una
cosa non c’era nessun modo di convincerlo a cambiare idea. Però era sempre il
ragazzo più bello e buono del mondo ed era stato gentile a offrirsi di aiutarla.
In fondo, Dio avrebbe svolto lo stesso ruolo di un carrello e lei avrebbe
stabilito che cosa portare e come distribuire piatti, posate, caraffe, fiori e
vassoi sulla tavola. La sua buona azione non sarebbe stata
compromessa.
“Allora, Alvis, quanti
saremo?”
“Quindici. Tu, io, Dunya, Mullin e i
bambini, i meccanici…”
“Immelmann…”
“Sì, Claus e Lavie, Alis, Tatiana e
il signore che beve sempre il caffè…”
Tatiana Wisla era terribilmente
graziosa con quel vestito corto e il cappello di paglia in testa.
Per un attimo, guardandola a una
certa distanza mentre aiutava il bambino a scendere dalla vanship parcheggiata
presso la casa, era possibile considerarla soltanto la ragazza più bella che
avesse mai incontrato – ma maledettamente giovane. Troppo, accidenti! – e
persino dimenticare quanto lo mettesse in agitazione quando si trovava da solo
con lei.
Era accaduto raramente, ma gli era
bastato per capire che era diversa da tutte le altre. Con lei era inutile
ostentare la sicurezza dell’uomo di mondo. Lo sguardo ben studiato del seduttore
incallito, morbido e diretto, che le donne percepivano come un complimento al
limite della decenza, le era indifferente, come anche il grado di ammiraglio, il
titolo nobiliare e una ricchezza che gli avrebbe fatto cadere ai piedi qualunque
ragazza. Aveva anche sospettato che non fosse interessata agli uomini, ma che
preferisse la compagnia delle donne, come la graziosa amica dalla quale non si
staccava mai. E nonostante questo, e il costante senso di frustrazione che gli
serrava la gola in sua presenza, lui si trovava lì, in mezzo a quei ragazzini,
nel posto più inverosimile in cui potesse immaginarsi, senza il rassicurante
peso della divisa addosso, ripetendosi che era un idiota e oltretutto – ne era
certo - con un’espressione da cane bastonato sulla faccia che lo metteva a
disagio persino più delle occhiate indifferenti della
Wisla.
Mentre Tatiana continuava a non
prenderlo in considerazione, Vincent, seduto a terra sul patio e rigirando
nervosamente la tazza nella mano, non riusciva a staccarle gli occhi di dosso e
a non pensare che dal giorno in cui l’aveva vista, sulla Silvana, quella
ragazzina gli aveva riversato dentro una specie di incantesimo. Si sentiva con
le spalle al muro, con lei, e tuttavia, come ai tempi dell’Accademia, quando
Alex smontava le sue buffonate con l’impercettibile piega di uno sguardo, con
l’indifferenza aurea di cui la natura l’aveva dotato apposta per distruggergli
l’ebbrezza della superficialità, non era assolutamente capace di fare a meno di
guardarla e, se non era a portata dei suoi occhi, di inseguirla almeno col
pensiero.
Data la sua condizione di
avvilimento, ci mise vari secondi a convincersi che la voce da contralto
proveniente dalla postazione del pilota della vanship si rivolgeva proprio a
lui.
“Ancora quel caffè, comandante
Alzey?”
La frase più ovvia, che tuttavia gli
suonò nelle orecchie imprevedibile come gli sarebbe apparso ascoltare la sirena
della Urbanus (la sua nave morta e sepolta) in quel campo di
grano.
Si vide molto stupido, mentre si
alzava in piedi di scatto.
“Non è caffè, quello che sto bevendo”
rispose bruscamente.
Vincent, mosso dalla stessa forza
incomprensibile che lo spingeva verso di lei e contemporaneamente lo faceva
sentire un idiota, si avvicinò alla vanship, per ritrovarsi faccia a faccia con
la ragazza che vi stava seduta dentro. Lei aveva un’espressione enigmatica e
molto poco promettente.
“Ah no? E che cosa c’è nella tazza,
allora?” Tatiana aveva appoggiato il mento alle mani e le mani al bordo del vano
pilota. I suoi occhi esattamente all’altezza di quelli di lui. Gli occhi grigi
più belli del mondo, pensò Vincent.
“Acqua. Niente caffè. Sono
nervoso.”
Alcuni interminabili secondi, nei
quali
Si sta prendendo gioco di me, non c’è
dubbio, pensò Vincent.
“E perché è nervoso,
comandante?”
“Perché lei, capitano Wisla, mi ha
chiesto di venire qui, in questo posto, sottraendomi ai miei gravosi impegni di
comandante della nuova flotta, eppure non mi degna della minima
attenzione.”
Tatiana non sgranò gli occhi,
sorpresa della risposta, e nemmeno si adirò. Socchiuse le palpebre morbidamente,
come per trattenere un sorriso.
“Il comandante ricorda male o mente
spudoratamente. Non sono stata io ad invitarla. Io le ho soltanto riferito
l’ordine dell’imperatrice di passare qui con noi questi due giorni. Un ordine
che ha sorpreso anche me.”
Vincent si adombrò. Che cosa poteva
risponderle ora? Non ne aveva idea. Lui, proprio lui, era rimasto senza parole.
Sarebbe stato facilissimo ribattere che non aveva intenzione di continuare a
fare la figura dello scemo e che era arrivato il momento di andarsene, ordine
dell’imperatrice o meno. Oppure avrebbe potuto sbatterle in faccia qualche
battuta volgare per scandalizzarla, per esempio che un pilota non poteva
permettersi di andare in giro con quelle tette esagerate.
Ottima idea, sì, pensò. Così quella
avrebbe tirato fuori la pistola che sicuramente teneva in qualche infernale
nascondiglio, lì nella vanship. E comunque non era da lui rimanere zitto come un
pesce lesso davanti agli occhi – i bellissimi occhi grigi – di una
ragazza.
“Ha mai volato su una vanship,
comandante?”
Che cosa c’entrava adesso una domanda
del genere? Davvero, la ragazza se la stava spassando allegramente alle sue
spalle.
“Le piacerebbe provarci? Volare con
me?” domandò Tatiana.
L’ultima volta che qualcuno gli aveva
chiesto una cosa del genere – Alex, a diciassette anni – Vincent gli aveva riso
in faccia.
“Non le chiedo troppo. Una volta
sola” insistette la ragazza.
Incredibile. Non c’erano dubbi.
Tatiana Wisla gli stava sorridendo. Sorrideva tranquilla a venti centimetri
dalla sua faccia. Vincent si schiarì la voce, si diede un contegno e
rispose:
“Desideravo che qualcuno prima o poi
me lo chiedesse.”
Un rombo passò nel cielo e prese
forma in un’ombra affusolata che macchiò il sole e percorse tutto il campo,
sempre più lontana, verso la casa.
“Immelmann!” gridarono Mullin e il
bambino che portava in spalla, un attimo prima di ricadere a terra in uno sbuffo
di spighe.
Ora anche Claus e Lavie erano
arrivati. E con loro, più forte, come il vento che increspava le pozze, giù al
torrente, o agitava le spighe nel fragore della tempesta, la gioia di essere di
nuovo tutti insieme.
Il bambino scivolò giù dalle spalle e
si lanciò in una corsa solitaria verso la casa. Sembrava una palla colorata che
rotolasse e saltellasse giù per la distesa del campo. Claus e Lavie erano già
atterrati e gli altri, da ogni parte della casa, del prato, del campo, erano
accorsi per festeggiarli.
Anche Dunya, col suo grembiule
bianco, il fazzoletto in testa e – poteva vederla anche da qui – la ciocca di
capelli neri che le cadeva sulla faccia. Oh come amava quei capelli sempre fuori
posto e l’espressione imbronciata di Dunya quando tentava inutilmente di
disporli in modo più simmetrico!
Mullin aveva il cuore leggero. Non
vuoto di preoccupazioni e paure, tuttavia. Doveva badare a una famiglia,
provvedere al raccolto, dare un futuro ai due fratellini e ai figli che avrebbe
avuto con Dunya. Aveva progetti e per la prima volta – come aveva imparato da
Claus – dei veri sogni da inseguire in questo misterioso mondo appena nato. Era
un cuore colmo, il suo, d’amore, di speranza, di paura, ma leggero e fluttuante
nella felicità di ciò che aveva conquistato. Leggero e fluttuante come le spighe
dorate del campo.
Mullin, camminando, le sfiorava con
la mano. Pungevano e baciavano le dita, ispide e vellutate. Le sue spighe,
quelle che aveva piantato l’anno prima nella terra che pareva non avere
aspettato altro che lui, per secoli, paziente, pronta e amorevole come il corpo
di Dunya.
Inspirò profondamente. Da laggiù venivano voci, allegria, risate, tra poco le avrebbe raggiunte. Ma amava quei momenti di
silenzio e solitudine nel suo campo. Finalmente, lì, tra quelle spighe, Mullin
era l’uomo che desiderava essere.
Nei ricordi, lontano da lui, c’erano
il tuono dei cannoni e dei moschetti, il vapore e la fuliggine rappresi sulle
guance. Adesso, invece, il fruscio lento delle spighe e i lunghi pensieri
silenziosi del tramonto, quando scendeva dal campo per tornare da
Dunya.
Claus aveva trovato se stesso
nell’aria e nella purezza del cielo. Lui qui, su quella terra gentile e feconda.
Ne era valsa la pena. Venti medaglie, diciannove pallottole che l’avevano
sfiorato, una che l’aveva preso in pieno petto, quasi uccidendolo. Sì, sarebbe
valsa anche la pena, quella ventesima volta, persino di morire per
questo.
“Ahia! Accidenti, Lavie, che
male!”
“E' solo colpa tua. Lo sai che quando mi
provocano reagisco così.”
Lavie era scesa dalla vanship da
venti secondi e già aveva salutato Godwin con un pugno nello stomaco (che aveva
fatto più male a lei che a lui) e un discreto calcio negli stinchi a Gale.
Questo per il semplice motivo che nei primi dieci secondi Gale e Godwin avevano
rispettivamente ironizzato sul suo evidente acquisto di una misura di reggiseno,
dall’ultima volta che si erano incontrati, e mimato con lei un incontro di boxe
in segno di benvenuto.
Era sempre molto divertente rivedere
i vecchi compagni, cazzotti a parte, e – tempo altri cinque secondi – si
ritrovarono tutti ad abbracciarsi, Godwin a piangere come un
bambino.
Lavie e Claus tornavano da
un’esplorazione del mare e la grandiosità della scoperta di quel nuovo elemento
– nuovo perché dopo molti mesi ancora non riuscivano ad abituarsi a quella
mutevole distesa d’acqua di cui a Prestel non sospettavano neppure l’esistenza –
donava ai loro visi il languore luminoso di un’emozione che era difficile
condividere con gli altri.
Già Dunya stava per richiamare tutti
quanti a tavola per il pranzo e Alvis saltellava sul patio per la contentezza di
vedere gli ospiti seduti intorno al tavolo che aveva imbandito con cura, fiori
compresi, quando Vincent – che in silenzio si era allontanato sul prato, verso
la collina, come richiamato da qualcosa – fece cenno di guardare in quella
direzione.
Due figure scendevano tra le spighe,
bianche nell’oro che brillava al sole.
Una donna dalla veste lunga e
leggera, un uomo alto, dai capelli scuri.
“Alvis,” disse Tatiana “dobbiamo
apparecchiare per altri due.”
Dall’altura coperta di grano,
vedevano la casa, la vanship atterrata, le singole figure, l’allegria sui loro
volti.
Sapevano che tra pochi istanti dalla
casa di Mullin si sarebbero accorti di loro due e avrebbero gridato per la
sorpresa e che nessuno, nemmeno Vincent, avrebbe resistito all’impulso di
correre loro incontro.
“Aspetta” disse Alex, come per
rallentare quell’ultimo momento di calma prima che esplodesse la gioia degli
amici.
Attirò Sophia a sé e appoggiò le mani
sul suo ventre. Dal vestito a vita alta la pancia cominciava a mostrare la
rotondità del quinto mese. Ormai poteva sentire il piccolo muoversi dentro di
lei, poteva sentire battere il suo cuore, se avvicinava
l’orecchio.
Nulla era comparabile a questo, né la
purezza del volo né la vendetta né l’ebbrezza sublime della libertà. Aveva
combattuto per tutta la vita soltanto per capire la cosa più semplice, che
l’essenziale da sempre inseguito era il calore di un corpo. Il nuovo mondo stava
tutto tra le sue braccia.
“Che c’è,
Alex?”
Non riusciva mai a nasconderle la sua
malinconia. Sophia riconosceva per istinto quell’ombra evanescente che ogni
tanto gli passava sul cuore e lo portava lontano.
Alex teneva gli occhi bassi. “Per
colpa di un attimo” disse piano “avremmo potuto perdere tutto questo. Sarebbe
bastato solo un attimo e noi non saremmo qui, insieme.”
Sophia gli sfiorò le labbra con un
bacio. “Significa che ogni momento è importante” sussurrò. “Come
questo.”
Alex sorrise, prima di renderle il
bacio.
Dalla casa i ragazzi chiamavano i
loro nomi. Li avevano visti. Salutavano con le braccia. Già correvano verso di
loro, salendo per il colle.
Fine
Spero si capisca che questa
storia (finita di corsa, appena in tempo per Natale) è stata scritta con
affetto, per quelle persone innamorate di Last Exile che mi hanno tenuto compagnia in questi mesi sempre
con tanta simpatia e gentilezza.
A Lan Awn Shee dedico la parte con
Vincent e Tatiana, anche per istigarla a scrivere prima o poi una storia vera su
questi due. Non è molto, rispetto a tutto l’aiuto che mi ha dato in questi mesi
e per la sua pazienza, però ho sempre speranza di trovare qualche altro modo di
ringraziarla.
Un abbraccio di auguri anche a tutte le lettrici delle mie fanfic, che aspettano con tanta pazienza gli aggiornamenti.
E adesso non perdiamo tempo. C’è da
raggiungere Mullin e gli altri. Hanno apparecchiato anche per noi e ci stanno
aspettando!