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Autore: Feynman    14/04/2015    5 recensioni
[...]«C'è una filosofia – o meglio, io ne una» iniziò lei, sfiorando il bordo della tazza, «riguardo i vari tipi di bevande. Il tè è una bevanda solitaria, ognuno lo prende a modo suo – con o senza latte, con o senza zucchero – e in un gruppo, è raro che due persone lo bevano allo stesso modo. Il tè pone le distanze, fra due persone. È una bevanda da buone maniere, non certo da confidenze» gli spiegò, guardandolo negli occhi e continuando a toccare il bordo della tazza. «Il caffè avvicina le persone, invece. È proprio delle chiacchierate amichevoli, rilassate e viene accompagnato sempre da una sigaretta che rilassa gli animi». Amélie non sapeva perché lo stesse dicendo proprio a lui. [...]
Genere: Angst, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
- Questa storia fa parte della serie 'Red rose lips - Cold winter eyes'
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Red rose lips – Cold winter eyes



 
Il Natale stava arrivando e i pub di Cambridge erano già addobbati a festa. La settimana precedente, John aveva appeso i festoni alle finestre, era andato a prendere l’albero e l’aveva invaso di palline e lucine da attacco epilettico; il pub, adesso, sapeva di aghi di pino e resina e da uno come John era l’ultima cosa che si poteva aspettare.
Al sicuro dalla neve gelida e dal vento sferzante risuonavano dolci carole di Natale cantate dalle voci soul – quelle che ti entravano dentro e ti facevano rimpiangere di non essere nato nero.
C’era gente, anche se le vacanze non erano ancora iniziate. La sessione degli esami era ancora in corso e, nonostante il caos, molti studenti sedevano ai tavoli con le loro pile di libri – ovviamente tutti chiusi – che provavano a non pensare, bevendo qualcosa di caldo. Parlottavano, gridavano, canticchiavano e si baciavano, privi del pudore che li tratteneva, all’interno delle aule, anche dallo sfiorarsi. Tanti non si sarebbero rivisti fino all’anno nuovo, altri sarebbero fuggiti dai cenoni diabetici dei parenti per rivedersi e scambiarsi gli auguri per un nuovo anno insieme.
 
Una ragazza dai capelli neri, con qualche striatura di azzurro ben nascosta, sorseggiava distrattamente il suo tè – nero, con un goccio di latte e senza zucchero – e mangiava biscotti allo zenzero senza assaporarli veramente – solo per avere qualcosa da fare, nell’attesa.
Aveva la faccia di chi aspetta qualcuno e spera che non venga più, per evitare di dire qualcosa che non vorrebbe dire – non si era mai preoccupata di quelle cose, eppure quel giorno non ne può fare a meno.
 
«Ciao, Controu»
«Pointreux…»
«Vedo che hai già ordinato» indicò la tazza e il piattino con gli omini di zenzero tutti decapitati, all’interno. «Mi dispiace di aver ritardato così tanto».
Rimase in piedi, poggiando le mani – coperte da un paio di guanti rossi – sullo schienale della sedia, di fronte alla giovane. I capelli neri spuntavano da sotto il cappello –  i pon pon blu gli sfioravano la linea della mascella – in stile tirolese e le punte erano umide di neve.
Il calore, all’interno del pub, gli fece colorare le gote. Aveva gli occhi umidi, Jean, come se si fosse convinto, fino all’ultimo, che quella ragazza dai capelli neri striati d’azzurro non sarebbe venuta davvero. Pensava di esser stato troppo intraprendente, quando le aveva chiesto di concedergli un’uscita – lei che non sembrava concedere niente a nessuno, col suo passo da militare e gli occhi furiosi, senza un vero motivo.
Pensava di essere in anticipo e che Amélie gli avrebbe fatto sentire la mancanza della sua presenza fino alla fine e, solo quando sarebbe stato sul punto di prendere in mano la maniglia della grande porta del pub, l’avrebbe fermato. L’aveva immaginata sfiorargli un braccio mentre si toglieva la sciarpa e gli diceva, con gli occhi, di restare perché non sembrava tanto male, infondo.
Stupido Jean, si disse.
 
«In realtà, non mi aspettavo niente di diverso, da te, Pointreux» rispose la ragazza, accavallando le gambe sotto al tavolo e appoggiandosi alla panca, come se volesse sparire. Amélie era arrivata in anticipo. Era uscita dall’aula, lasciando il suo gruppo di studio in mezzo al mare delle matrici hessiane – ma non riusciva a sentirsi colpevole – e aveva raggiunto il pub di John, quello dove andava sempre. Aveva scelto l’Elm per mettersi al riparo dagli occhi color acciaio del ragazzo – per avere tavoli famigliari ai quali aggrapparsi.
Aveva visto, dall’ampia finestra, il ragazzo correre e ignorare le piccole gocce di sudore che, nonostante il freddo, gli colavano ai lati del viso – come stava facendo adesso, per lo sbalzo di temperatura.
 
Il ragazzo, tirandosi i capelli indietro – dopo aver fatto sparire il cappello, all’interno della tasca della giacca a vento –, le sorrise e andò a ordinare per sé un “Prince of Wales, senza zucchero”, ignorando John che gli chiedeva se la madame francese volesse anche un bacio sul culo.
 
«Finirai, prima o poi, di chiamarmi per cognome?» le chiese, una volta tornato al tavolo dalla giovane, riprendendo il suo tono baldanzoso.
«Dipende da come va oggi» sorrise la ragazza, sotto i baffi e premurandosi di coprirsi con la tazza di tè. «Perché mi hai chiesto di uscire?».
Il ragazzo alzò le spalle e rompendo il braccio a uno degli omini decapitati della ragazza – beccandosi un’occhiata fulminante – le rispose: «Sei interessante, Amélie. Non ci sono altri motivi».
«La settimana scorsa uscivi con Jessica, non è più di tuo gusto?».
«Mi tieni sotto controllo?» le chiese, alzando un sopracciglio e rompendo l’altro braccio. La ragazza allontanò il piattino di biscotti dal ragazzo, posandolo sulla panca accanto a sé: «Non spreco il mio tempo in questo modo, Pointreux. Jessica è una mia compagna di stanza e non sopporto chi mi disturba, con pianti e lamenti vari, quando sto studiando. Inoltre, quando il nome di qualcuno viene ripetuto infinite volte tra lacrime e nasi soffiati, una persona è portata a porsi delle domande, non credi?».
«Non sei di compagnia, Amélie» la provocò Jean, iniziando a sorseggiare il suo tè. Aveva visto, con la coda dell’occhio, John chiedere ad Amélie se andasse tutto bene. Lei, per risposta, aveva semplicemente mosso la testa, impercettibilmente – non se ne sarebbe accorto, se non si fosse seduto così vicino.
 
Amélie aveva le punte delle dita sporche di gesso e odorava di libri vecchi, fumo e arance; la prima ad arrivare e l’ultima ad andarsene, da quelle aule polverose e piene di vecchi ottusi attaccati alle loro poltrone; ciechi al progresso e sordi alle urla del ricambio generazionale. Uomini di scienza che dimenticavano di aver giurato fedeltà a una religione senza dogmi e sicurezze. Jean, ogni volta che incontrava Amélie per puro caso – quando mai era stato solo puro caso, poi? – l’aveva vista sempre china su qualche libro o incendiata da una conversazione; parlava velocemente, quando doveva farsi valere, e l’accento francese che con tanta fatica cercava di nascondere e soffocare, faceva la sua comparsa: strascicava le consonanti e imprecava a bassa voce, azzittendosi quando se ne rendeva conto.
«No, non lo sono. Non con Jessica, almeno» sorrise mefistofelicamente senza nascondersi, stavolta, e costringendo Jean a unirsi a lei. Aveva i denti appuntiti e bianchi, come i lupi.
«E non sei neanche gentile» aggiunse lui.
«Non lo sono con nessuno» gli rispose, mangiando una gamba dell'omino di zenzero.
«Non ti facevo una tipa da tè» disse distrattamente Jean.
 Amélie alzò un sopracciglio e appoggiando la tazza sul tavolo, tornò a osservarlo. «E che tipo sarei?».
«Da caffè», le rispose come se fosse fin troppo ovvio. «Le guerriere bevono il caffè» le confermò.
«C'è una filosofia – o meglio, io ne una» iniziò lei, sfiorando il bordo della tazza, «riguardo i vari tipi di bevande.  Il tè è una bevanda solitaria, ognuno lo prende a modo suo – con o senza latte, con o senza zucchero – e in un gruppo, è raro che due persone lo bevano allo stesso modo. Il tè pone le distanze, fra due persone. È una bevanda da buone maniere, non certo da confidenze» gli spiegò, guardandolo negli occhi e continuando a toccare il bordo della tazza. «Il caffè avvicina le persone, invece. È proprio delle chiacchierate amichevoli, rilassate e viene accompagnato sempre da una sigaretta che rilassa gli animi». Amélie non sapeva perché lo stesse dicendo proprio a lui, proprio a quel francese che le ricordava fin troppo spesso da dove veniva veramente. Era il suo treno verso casa che distava sempre troppo poco. Era il suo biglietto di sola andata, per un mondo che avrebbe voluto dimenticare e sotterrare.
Jean era stato insistente e pesante. Jean l’aveva rincorsa fra i giardini curati, i viali in pietra, l’aveva stanata dietro le statue e l’aveva tampinata fra le colonne gotiche. Jean aveva fatto di tutto per farsi vedere e per non permetterle di dimenticare – quando lei, invece, avrebbe voluto farlo fin troppo spesso.
Jean odorava di cioccolata, erba tagliata e di… Jean. Era un odore particolare, quello del ragazzo; forse era acqua di colonia, forse era solo il dopobarba – anche se non lo usava spesso –; le sue guance, notò Amélie, dovevano essere ruvide, al tatto dato che stava tentando di lasciar crescere la barba.
 
«Dimmi cosa bevi, e ti dirò chi sei» concluse Jean, al posto suo e distraendola dal naturale corso dei pensieri. «E se avessi ordinato un caffè?».
«Avresti frainteso tutto, come tuo solito» gli rispose Amélie seccamente, prendendo per sé l’ultimo biscotto allo zenzero e spezzandolo a metà. Sarebbe stato meglio tornare sul terreno spinoso e minato. Era una conversazione tipica da tè, una di quelle che sua madre avrebbe apprezzato e gestito magistralmente – Esmeralda era sempre stata brava, in queste cose.
 
«Ho saputo che sarai dei nostri, per Natale» azzardò Jean, dopo minuti di silenzio imbarazzante.
 Amélie amava il silenzio, pensò Jean. Amélie doveva essere una di quelle ragazze che evitava la compagnia come la lebbra, rifuggiva le feste di ogni tipo e conosceva tutti i posti meno conosciuti e meno frequentati, dalle persone. Quei posti in cui la gente non va perché l’erba è alta, le rocce sono troppo appuntite e la strada è difficile da percorrere. Non ne esci senza le scarpe sporche, la camicia strappata sui gomiti e le foglie fra i capelli – come sarebbe Amélie, con le foglie tra i capelli e le gote arrossate?
 
Allo stesso tempo, dove c’era Amélie c’era la sua compagnia di geni: ragazzi e ragazze che condividevano la Passione – quella vera e bruciante –; ragazzi con il fuoco nelle vene e il sangue negli occhi, proprio come lei. Jean se n’era accorto, degli sguardi arroganti che la ragazza era solita riservargli dal Primo Giorno – da quando lui aveva distrutto la sua bolla di cristallo, silenzio e neve, sotto gli alberi del viale –; lui non pretendeva di avere la sua stessa Voglia, non condivideva la sua stessa Fame – o quella di Katherine –, lui frequentava persone come Paul, pallide imitazioni di uno studente volenteroso – hai paura di sentirti come Amélie, vero?
 
«Ne avrei fatto a meno, credimi; ma Kate vuole compagnia. Come se Paul, non fosse il suo ragazzo» gli rispose, infastidita. Era qualcosa di simile alla rabbia, alla frustrazione. Un qualcosa di incomprensibilmente complicato che la legava a Katherine. L’avrebbe definito amore, Jean, se non avesse sperato nella conquista del cuore della ragazza.
«Vorrà passare il Natale con te» ipotizzò, mescolando il tè, come se ci fosse stato zucchero da sciogliere.
«Se avesse voluto farlo, avrebbe accettato il mio invito» sbottò, riappoggiando violentemente la tazza sul tavolo e aprendo i palmi delle mani, poi, come a volersi tranquillizzare. «Scusa, non avrei dovuto». Amélie si chiese perché gli avesse chiesto scusa e non seppe rispondersi.
«No, sono io che mi sono fatto gli affari tuoi».
 
Amélie sorrise senza coprirsi con la tazza e puntò i suoi occhi marroni, in quelli grigi di Jean: «Sei talmente… francese» gli disse, appoggiando i gomiti sul tavolino e protendendosi verso la metà del tavolo, ancora inesplorata – una Terra di Nessuno, per quel teatro di battaglia.
«È un male?» chiese sorridendo, avanzando verso di lei. Amélie non diede segno di volersi allontanare. Lasciò che le volute di fumo si intromettessero fra loro. «Anche tu sei francese, Amélie».
«Lo sono tanto quanto Albert Einstein è italiano».
Jean se ne accorse. Gli occhi di Amélie gli stavano accarezzando, gentilmente, il volto. Stava passando sul profilo degli zigomi alti, sui capelli neri impunemente arricciati sulla fronte e volutamente scompigliati, le lunghe dita che passavano dalle labbra al bordo della tazza, intrattenendosi in una danza ipnotica.
Jean era in agitazione e non riusciva a nasconderlo.
Colpa di questa Donna, si disse. Colpa dei suoi occhi sanguinolenti e delle onde d’inchiostro che le ricadevano sul viso, incorniciandole i tratti violenti. Colpa della sua pelle bianca, così chiara da far male. Le sue labbra poi, talmente rosse da personificare il peccato.
«Non sei inglese, Amélie. Anche se pretendi di esserlo, non lo sei».
«Allora sono spagnola» confessò, senza spiegare.
«No, Amélie» le disse Jean, lasciando che il suo nome gli accarezzasse il palato e gli scivolasse tra le labbra. «Tu sei francese. Guarda come ti muovi, come guardi le persone. Come stai seduta a tavola».
La ragazza tornò ad appoggiare la schiena alla sedia, per riprendere la sua osservazione da lontano. «Non pretendere di conoscermi, Jean» lo avvertì, incrociando le braccia la petto. Scivolò sulla panca e si alzò in piedi, pronta per andarsene. Jean era un treno di sola andata per casa sua: aveva fatto male, a dimenticarlo.
Si è chiusa di nuovo, realizzò Jean. Di questo passo non arriverò a nulla. «Servirebbe chiederti scusa, di nuovo?» chiese, alzandosi in piedi e cercando di bloccare, sul nascere, la vicina fuga della giovane.
Scosse la testa. Prese la giacca, gettata in malo modo sulla panca e iniziò a indossarla, con estrema lentezza. «Le scuse non sono adatte a questo pomeriggio».
Il ragazzo la guardò interdetto, mentre seguiva i movimenti della giovane. Una ciocca azzurra decise di palesarsi, spiccando sulla cascata color petrolio – tossico su tossico.
«Il tè, Jean. Le scuse non sono fatte per il tè» gli disse, infilandosi la pesante borsa a tracolla. Gli sfiorò il braccio, per raggiungere la porta. Jean vide John fulminarlo con gli occhi e cercò di ignorarlo.
«Amélie…».
«Per oggi basta, Jean. Davvero».
«Tu sei francese sul serio, Amélie! Cosa ho detto di sbagliato?».
Uscì dal pub, la seguì sul marciapiede. Era senza giacca, senza cappello, senza guanti ma non sentiva il freddo pungergli la pelle e perforargli le ossa. Non sentiva la neve cadergli sui capelli e oscurargli la vista. Amélie si voltò e lo vide con i fiocchi a imperlargli le ciglia e a bagnargli i capelli. Gli occhi del ragazzo erano un tutt’uno con il cielo invernale e le venne voglia di stringere le labbra e di criticarlo, per averla seguita senza coprirsi e stringerlo, solo per proteggerlo dal freddo umido inglese.
 
«Non voglio tornare a casa, Jean» disse, avvicinandoglisi. Aveva il desiderio di toccare i suoi capelli – neri come i suoi e imperlati di fiocchi di neve – e scompigliarli. Come si era sentita, Jennifer, a farlo?. «Sono troppo complicata, Pointreux. Per chiunque».
«Nessuna delle altre aveva una filosofia del tè…» le disse, come se potesse bastare per non farla andar via. Come se Amélie fosse come tutte quelle che, con una frase più melensa, decidono di rimanere.
«E del caffè» aggiunse lei, sorridendo debolmente e provando il desiderio di nascondersi nella sciarpa di lana, senza sapere il perché.
«Regalami una conversazione da caffè, Amélie».
«Ciao, Jean» gli disse, prima di finire per odiarsi davvero.
“Ciao”, avrebbe voluto rispondergli Jean che, invece, tornò dentro perché il freddo di dicembre gli crollò addosso.
 
 
 
 
«Ti ha baciata prima lui, dulzura?».
 
Non sa perché ha scelto l’Argentina, come meta per l’ennesima fuga. Le ricorda la sua Spagna, forse, quella che ha visto quando aveva dieci anni e di cui si innamorò a diciassette, prima di andare in Inghilterra.
Le strade fievolmente illuminate, la musica che proviene dalle milonghe, dove si balla il tango come negli anni ’20 e dove ha incontrato Maria, e dai locali del quartiere La Boca, dove ha trovato una sistemazione provvisoria.
La Boca è un quartiere di migranti, soprattutto genovesi – il nome, le hanno detto, è dovuto a loro ma le hanno anche detto di non dare tanto adito alle voci, perché gli italiani sentono la mancanza di casa, quando fanno i migranti – e le case, da quasi trent’anni, sono variopinte.
New York è lontana ed è solo un ricordo che sta iniziando a sbiadire. Jean le aveva promesso che avrebbe smesso con quella merda di droga e con quella farsa da scrittore esistenzialista francese, invece le aveva mentito e lei era andata via. Lui le aveva urlato dietro, mentre prendeva la sua valigia di cuoio duro e le aveva quasi slogato un polso nel tentativo di fermarla. Lei gli aveva sputato in faccia, per poi accogliere le sue labbra fredde. Era stato violento, intenso e volutamente rozzo. Lei gli aveva graffiato una guancia e lui le aveva segnato il collo, a forza di voler sentire il battito del cuore dalla carotide. Lei gli aveva detto che gli faceva schifo e che lei non usava Claire de la lune.
Loro due, si era detta un’era fa, erano così. Aveva dato la colpa al sangue caldo e passionale dei francesi, alla rabbia violenta del suo pezzo di Spagna e alla possessività di quel quarto di italiano che aveva Jean, nelle vene.
 
Aveva scelto l’Argentina, Amélie, perché era uno dei pochi posti che ancora non aveva visitato – che non aveva l’impronta di Jean, dietro ogni angolo – e che non aveva impresso sulla pellicola fotografica. Cosa ne era stato, si era chiesta, della scienziata realista che era stata in Inghilterra? Sembravano esser passati secoli e invece erano solo sei anni; sei anni di passione e sconsideratezza, per stare con un uomo che l’aveva sempre tradita, anche se si stringeva a lei durante la notte per pulirsi la coscienza, dopo esser stato con altre donne. Amélie non sa quando ha iniziato a disprezzare – forse da quando ha abbandonato tutto per seguirlo – la donna che intravede, ogni mattina, nello specchio; sa solo che ha iniziato a volersi bene, di nuovo.
 
Maria è per metà italiana.
La sua pelle profuma di caramello e i suoi occhi sono azzurri come l’oceano. Maria è uno strano incontro di razze e di popoli; ha i capelli castani – come la cioccolata – e la voce flautata. Maria canta, per vivere, in uno dei tanti locali del quartiere La Boca; canta dell’amore violento e passionale delle donne e della possessiva gelosia maschile. Le sue canzoni parlano di amori malati ed eterni che vanno avanti dall’inizio del Tempo e che sono sempre uguali.
Maria, ha la sofferenza di Didone negli occhi e la voce di Penelope nella gola.
Maria aspetta da tempo che qualcosa cambi e, intanto, canta.
 
«Forse avrei dovuto lasciarglielo fare».
«Perché dici così?».
«Almeno avrebbe pensato che avessi bisogno di protezione… come le sue puttane» sputa fuori il fumo, Amélie, e si abbandona contro l’intonaco blu di una casa – la sua casa.
«Non ti odiare, tesoro. Non se lo merita».
«Ah, Maria, non lo conosci. E se lo conoscessi, saresti una delle sue amanti» confessò, la donna, spegnendo la sigaretta fumata a metà – erano le sue e non voleva quel sapore, sulla lingua. «Sei proprio il suo tipo».
«Dovresti vendicarti, sai?» le consigliò Maria, alzandosi in piedi e spolverando la gonna del vestito leggero ed estivo. «Dovresti ripagarlo con la stessa moneta. Vai con uno degli uomini che ti adocchiano al locale: non hai ancora trent’anni anni, Amelia».
«Io non sono come lui, Maria. Io… io credo di amarlo, capisci?».
«La mia musica, dulzura, è tutta una bugia. Non esiste quel tipo di amore e lui è un venditore di fumo, tesoro». Maria era alta, più di lei, ed era longilinea come i giunchi della Byron’s pool. «Stasera vieni con me», le disse, «e ballerai, dimenticando quell’estúpido francese».
 
La Boca è una città a sé.
Appartiene a Buenos Aires tanto quanto l’Argentina agli olandesi. La gente ballava per strada, accompagnata dai musicisti vagabondi che animavano le vie. Il retaggio italiano è ancora presente, nel quartiere, nonostante siano passati tanti anni dal massiccio flusso migratorio.
Il Quinquela Martín era il locale dove Maria cantava.
Indossava un abito nero che le copriva a stento le cosce, uno scialle attorno alle spalle in pizzo ricamato e aveva i piedi scalzi – amava il contatto con il legno grezzo del piccolo palco rialzato. Tonio, dietro il bancone, serviva i pochi avventori della serata: arrivavano tutti più tardi, dopo cena, quando Maria cantava Caminito, con la voce flautata e suadente. Quando sembrava che stesse cantando per quelli seduti al bancone che bevevano per dimenticare, per quelli seduti ai tavoli e chiacchieravano, per gli amanti appartati accanto alle porte, per la ragazza che sognava di ballare il tango e per l’uomo che l’avrebbe invitata.
 
«Niña, che ti servo stasera?».
«Fai tu, Tonio. Qualsiasi cosa andrà bene».
«Hai intenzione di rimanere qui fuori?».
«Sì, non me la sento di entrare, stasera».
Stringe una sigaretta fra le dita e fa roteare il liquore ambrato nel bicchiere. Pensa, la giovane donna alle cose che avrebbe dovuto fare e che non sta facendo. Ama contemplare il mondo, le persone che lo abitano; preferisce rimanere in disparte, però, e guardare la gente passeggiare per le via di La Boca e immaginare che la loro vita, sia la sua vita.
Un violino, poco lontano, suona le ultime note di un ennesimo ballo. Tra poco si sposteranno tutti all’interno del Quinquela Martín e la piccola piazza si svuoterà, lasciandola alla compagnia di qualche cane e di imprudenti passeggiatori serali. La polizia, ancora più tardi, passerà fra le vie per una delle ennesime ronde – a La Boca non ci si annoia mai.
«Sai, niña, non ti fa bene questo umore» le dice Tonio, scostando una sedia e accomodandosi accanto ad Amélie. «Ti perdi le cose belle della vita, così, e sei talmente giovane».
«Ti sembra mai di aver vissuto cinque vite in pochi minuti, Tonio?».
«No, io una sola ne voglio. Se per le quattro restanti dovesse toccarmi sopportare mia moglie, penso arriverei a suicidarmi… Dios perdoname».
Amélie rise e buttò giù, tutto assieme, il liquore ambrato che le bruciò la gola; era quello che le serviva, si disse. «Come hai conosciuto tua moglie, Tonio?».
«In chiesa, niña. Sedeva sempre nei primi banchi e portava un fazzoletto nero, in pizzo, sulla testa. Vestiva di fiori, la mia Serena, ed era talmente bella che pure la statua della Madonna, sfigurava».
«E lei, quando si è innamorata di te?».
Tonio sospira e si asciuga la fronte con il canovaccio sporco di polvere e di grasso. Fa caldo, in quei giorni, e la sera porta ben poco refrigerio – nonostante la vicinanza col Riachuelo, il fiume che passa per La Boca e affluente del Rio de la Plata.
«Ce n’è voluto di tempo, niña. Mia madre mi diceva di non credere ai colpi di fulmine perché, come i temporali, passano fin troppo in fretta. Io, invece, nel mio c’ho creduto e sono quarant’anni che sono sposato» rise Tonio, con la voce roca e graffiante per poi finire in un accesso di tosse grassa e uno sputacchio di catarro.
«Non ti sei mai pentito, Tonio?».
«Ovvio che sì! Ma credo sia normale… l’amore è una di quelle cose che ingiallisce, come i libri, e si sfalda. Alla fine, poi, puzza come il pesce morto».
«Il mio uomo mi tradisce, Tonio» confessò Amélie che non l’aveva mai detto, ad alta voce, e per mesi l’aveva sussurrato solo alla sua figura riflessa nello specchio. Era stancante essere la donna di Jean Pointreux e occuparsi anche di una figlia che aveva talmente voluto, da arrivare ad odiare. «Jean mi tradisce e abbiamo una figlia».
«Quanti anni ha?».
«Due…».
«E adesso? Adesso dov’è, niña?».
 
È con quel bastardo, pensò Amélie, perché io non credo di essere in grado di volerle bene.
 
Amélie ha ventisette anni e vede la sua vita squamarsi fra le dita. Amélie, in un moto d’ira, ha preso il primo aereo e ha lasciato tutto: Ophélie, Jean, New York, il suo lavoro – che non ha mai sentito come suo – e quella maledetta vita che odia, perché non può permetterle di far crescere sua figlia.
Jean la tradisce con altre donne, Ophélie è piccola e la guarda con quei suoi occhi color cielo invernale, quelli del padre, e Amélie pensa a tutti i peccati che ha compiuto.
Amélie ha iniziato a piangersi addosso, perché così è più semplice vivere, da quando Jean ha iniziato a vendere i suoi libri – tutti dedicati alla sua Pantera francese
Che stronzo.
Che schifo.
«È con lui, Tonio. L’ho lasciata con lui…».
Amélie piange e la sigaretta le cade dalle mani.
Tenta di asciugarsi gli occhi, ma le mani si riempiono di rimmel colato, il kajal le riga il volto e le labbra sono morse a sangue, dai denti bianchi e perfetti. Il tocco leggero e rassicurante di Tonio, sulla schiena, è talmente diverso da quello di Jean che, ogni sera, quando rientra da un’ennesima cena senza di lei – perché sei stanca, per venire con me, e non mi fido a lasciare la bambina con qualcuno che non conosco –, con gli editori, dopo esser stato fra le braccia di qualche puttana ventenne e dopo averle detto che la ama – senza essersi lavato i denti, perché sa ancora di whiskey e profuma di Claire de la lune – le accarezza la schiena e la lascia da sola, nel soggiorno con le luci che entrano e le fanno credere che sia ancora giorno.
Amélie non fa più sesso con Jean.
Jean non bacia più Amélie.
Amélie non sa dove sia andato a finire quell’amore bruciante, quella passione totalizzante e violenta che li contraddistingueva.
Amélie continuava ad essere la Pantera francese di Jean.
Jean e Amélie non bevono assieme neanche il tè.
 
Amélie e Maria tornano a casa a notte fonda.
La prima non ha più trucco sul viso, la seconda non ha quasi più voce. Amélie crede di aver versato tutte le lacrime e Maria le ha raccolte tutte per restituirle, quando vorrà, a quello sconosciuto che sta facendo soffrire tanto la donna.
Si conoscono da sole due settimane, Amélie e Maria, eppure sembra che stiano insieme da anni.
Maria apre la porta della stanza di Amélie e l’aiuta ad adagiarsi sul letto, coprendola con il lenzuolo – nonostante il caldo serale.
Le dice che preparerà qualcosa di caldo, che lo andrà a prendere nella sua stanza – quella affianco – e che non ci impiegherà molto. Amélie si addormenta, stremata dalla serata e intontita dai ricordi americani, e con la voce calda e paterna di Tonio ancora nelle orecchie.
Sembra essere passata un’intera vita, quando Maria la sveglia e le porge un recipiente tondeggiante; l’odore è forte e Amélie fa per portarselo alla bocca ma Maria, velocemente, la ferma: «È mate, Amelia. Bevilo con la bombilla… tutto, mi raccomando».
Amélie prende la cannuccia di metallo fra le labbra e un sapore amaro e particolare, le invade la bocca e si posa sulla lingua.
La preparazione della yerba Mate è un rituale, per gli argentini. Si offre agli ospiti, in segno di benvenuto, si beve in compagnia e per rilassarsi dopo una giornata pesante. Non ha lo stesso sapore del tè e Amélie, riprendendosi dal dormiveglia, si rende conto che ci sono ancora tutte le foglie essiccate, all’interno della tazza e che ricoprono lo strato d’acqua.
«Ti piace?».
«È particolare… ma mi piace».
Amélie continua ad aspirare finché non sente provenire, dalla cannuccia, strani rumori come se l’acqua fosse finita.
«Dammela» le dice Maria. «Si versa poca acqua, all’interno del mate e sempre nello stesso punto. L’infuso si beve fino a che non diventa lavado: si sfrutta fino alla fine» le spiega la donna, versando dell’acqua calda nella piccola tazza dura e dal materiale sconosciuto. Ne beve anche lei, fino alla fine. «Il mate è una bevanda che viene condivisa e tutti lo bevono dalla stessa cannuccia. Il cebador lo prende prima di tutti ed è lui che si occupa di riempire, ogni volta, il recipiente».
«Credi che dovrei tornare a casa, Maria?» le chiese, a bruciapelo, Amélie e si accese un’ennesima sigaretta che tenne stretta fra le dita tremanti.
«Prima non hai fatto altro che ripetere “Ophélie”, mentre dormivi. Senti la mancanza di casa, Amelia, e di tua figlia».
«Forse dovrei scappare davvero, Maria. Dovrei prendere Ophélie e andarcene assieme… magari verremo a vivere qui in Argentina».
«E come pensi di vivere, Amelia? Facciamo fatica ad andare avanti noi… l’Argentina non è il paese delle favole».
«Non voglio tornare da Jean; non a queste condizioni, almeno. Ero talmente diversa, Maria».
«Le persone cambiano, dulzura. Fa’ in modo che debba ringraziarti per l’eternità, Amelia. Fa’ in modo che non possa mai dimenticarsi di te».
 
 
 
 
Fammi tuo, nei modi che solo tu conosci.
 
Non voglio più pensare, amore mio. Voglio solo fuggire da tutto questo: dal mondo, dalle preoccupazioni, dalla neve che gela le tubature del condominio, dal fumo che contamina la tua lingua e dalle lacrime che bagnano il tuo viso.
Fammi tornare ai tempi in cui mi odiavi, perché sarebbe tutto più semplice. Portami indietro nel tempo, quando le uniche nostre preoccupazioni erano gli esami, le litigate con gli amici o la birra da bere al pub. Fammi ricordare com’era stringerti senza un motivo, baciarti perché volevo farlo e non perché sento il dovere di farlo.
 
Fammi sentire come quando eravamo solo noi due, contro un mondo che voleva dividerci. Fammi capire che non è mai stato così, amore mio e dimmi che mi hai sempre voluto quanto ti volevo io. Dimmi che desideravi le mie mani sulla tua schiena, le mie labbra fredde sulle tue sempre calde, il mio petto sul tuo cuore.
Dirò al mondo quanto ci amiamo e lo urlerò così forte da farmi sentire anche a casa – tra gli ippocastani e le colonne gotiche.
Ricorderò, a quelli che abbiamo lasciato che torneremo indietro e che saremo forti, anche se non mi crederanno – come allora, amore mio, come quando li abbiamo lasciati.
 
Ogni sera tenti di nascondermi le tue occhiaie, mi sorridi come se fosse stata la giornata migliore della tua vita: abbiamo solo vent’anni, amore mio, e le giornate memorabili devono ancora arrivare.
Non mi perdonerò mai, tutto questo egoismo. Non mi perdonerò mai per averti portato via i tuoi anni migliori e piangerò per ogni lacrima che hai versato sopra quel bancone di quercia spessa, per ogni pagina che non hai potuto studiare e per ogni sogno che vedo morire nei tuoi occhi. Posso solo stringerti di più, la notte, quando tremi contro il mio petto e cerchi riparo tra le mie braccia – perché le tubature del condominio sono di nuovo gelate, anche se tu continui a lamentarti, a protestare con i tuoi occhi insanguinati e il cuore dolente.
Non ti saresti mai dovuta preoccupare di queste cose, laggiù. Saresti vissuta assieme ad altre ragazze, come facevi, condividendo la stanza con loro e parlando fino a notte fonda. Avreste fumato, bevuto, ballato sotto la luna e cantato per la luna. Vi sareste strette sotto una grande coperta e avreste guardato il cielo, dimenticandovi di essere paladine della Ragione, per una notte.
 
Sognavi sempre, Amore mio, quando eravamo laggiù. I tuoi occhi si perdevano mentre mi raccontavi delle meraviglie del tuo mondo, a me inaccessibile. Io non ti volevo lontana da me, Amore mio – così tanto egoismo c’è in me.
Odiami.
Dimmi che mi odi, così sarà più semplice lasciarti andare. Dimmi che mi detesti, mio Cuore, o potrei pensare di rinchiuderti e non permettere al mondo di vederti, un altro giorno. Non sorridermi, quando chiudi la porta dell’appartamento; urlami contro, piangimi addosso, mordimi la pelle e vomitami contro tutto il dolore che senti, restituiscimi il mio egoismo e liberati da me.
Vola, Rondine, verso quei luoghi che non avrei mai potuto raggiungere e lasciami quaggiù a rimpiangerti. Passeranno gli anni, io ricorderò la tua bellezza e la tua pelle di perla che brillava al buio di queste notti fredde.
Abbracciami un’ultima volta e dimmi che hai bisogno di me, stanotte. Baciami con le tue labbra di rosa e sciogli i miei occhi freddi che guarderanno sempre il cielo, aspettando che la loro Rondine torni a casa per l’inverno. 
 
 
 
 
«Che diamine ci fai, qui dentro? Non puoi entrare!».
«Ero solo curioso di vedere dove passi tanto tempo, invece di stare con me…».
«Ci sono delle regole, Pointreux. Non puoi fare come ti pare! E se fossero stati in azione i laser? Ti saresti  potuto trovare con un braccio in meno!».
«Uh, come in Star Wars!».
«Sei proprio cretino…».
 
Amélie indossava un camice e una paio di occhialini protettivi.
Le regole, all’interno di un qualsiasi laboratorio – anche se universitario – erano estremamente serie: quasi tutti i suoi insegnanti lavoravano a ricerche importanti nel campo della fisica e, abitualmente, venivano usati apparati elettrici di una certa importanza e ad alto voltaggio.
Jean si protese verso uno strano impianto fatto di sfere tenute sospese da aste rigide che aveva l’aria fragile, quanto terribilmente interessante. «Questo che razza di accrocco è?».
«Quell’accrocco – come lo chiami tu – è uno dei più importanti esperimenti del settecento inglese. È una bilancia a torsione e Cavendish se ne è servito per calcolare la costante di gravitazione, teorizzata da Newton e predetta dalle leggi di Keplero».
«Robaccia, quindi» disse sorridendo, il ragazzo e ignorando l’adorabile broncio della ragazza.
«Cosa vuoi, Pointreux? Devo finire entro domani, e non ho tempo da perdere» lo informò la ragazza, calandosi gli occhiali protettivi sugli occhi e giocando con una torcia.
«Pensavo che volessi trascorrere del tempo con il tuo ragazzo…» ipotizzò lui, innocentemente.
Jean si avvicinò, di soppiatto, verso Amélie che continuava ad osservarlo con la coda dell’occhio, per non perderlo nemmeno un attimo. Se fosse entrato uno qualsiasi dei suoi insegnanti, l’avrebbero di certo punita: era severamente vietato far entrare chiunque non fosse autorizzato e ignaro dei pericoli che si correvano all’interno del laboratorio.
«Non dobbiamo mica passare ogni minuto insieme, Jean».
«Ma se sono due giorni che non ci incrociamo neanche per sbaglio!» si lamentò lui, accarezzandole la piega del collo con il fiato e poggiandole le labbra fredde, dietro l’orecchio.
«Jean, davvero, sono impegnata» tentò la ragazza, debolmente. «E tu non dovresti nemmeno essere qui».
«Stai diventando ripetitiva, Amélie. Per quanto ami la tua voce, stai diventando noiosa».
«Allora perché non te ne vai?» gli chiese lei, piccata.
Jean slegò le braccia, dalla vita morbida della ragazza e la fece voltare, per guardarla in faccia: «Si può sapere cos’hai, Amélie? Hai litigato con Kate?».
«Che ne dici se ci prendiamo un caffè?».
 
L’estate stava per arrivare a Cambridge.
I due ragazzi ordinarono un paio di caffè da portare via e si sedettero, in silenzio, sotto uno degli ippocastani che recintavano i giardini universitari. Amélie non la finiva di torcersi le dita e Jean, per non vederla così, le aveva dovuto prendere le mani.
«Cosa è successo?».
«Mi hanno offerto un anno di praticantato al Fermilab, in Illinois». Amélie guardava le margherite a terra, non osando alzare gli occhi verso Jean. Si erano appena messi assieme, si era sempre detta che nessun uomo, avrebbe meritato una spiegazione riguardo le decisioni che avrebbe preso sul suo futuro lavoro; Jean, però, si era rivelato talmente speciale.
«È una bella notizia, no?».
«Sono in competizione con Kate. Lei sta per sposarsi, sembravano più propensi per lei, che per me. Oggi mi hanno chiesto se, anche io, mi fossi fidanzata fra un semestre e l’altro» gli disse Amélie, prendendo a sorseggiare il caffè amaro. Faceva schifo: sembrava della dannata acqua sporca.
«E tu cosa gli hai risposto?».
«Gli ho detto che avrei avuto bisogno di tempo, per pensarci. Il mio relatore mi ha dato tre giorni…».
Jean rimase in silenzio, Amélie anche. Il vento leggero, smuoveva le foglie verdissime attaccate ai rami degli alberi e fece volare il polline degli ippocastani; il prato all’inglese ne era completamente invaso e per gli allergici era un vero inferno, quel mare bianco.
 «Dovresti dirgli che sei libera» disse Jean, rompendo il silenzio. «È una possibilità che ti meriti e non vedo perché dovresti sprecarla in questo modo, Amélie».
«Avrebbero scelto Kate, se solo non stesse per sposarsi…».
«Non ti formalizzare. Stanno dando una possibilità a te, adesso. Prendila».
«Ma dovrei andarmene per un anno!» protestò la ragazza, prendendogli le mani e guardandolo negli occhi. «Non potremo vederci per un anno e…».
«Tu sei Amélie Controu. E Amélie Controu non si è mai fatta fermare da nessuno, è bene che tu lo tenga a mente, fra gli americani» le disse Jean, alzandosi da terra e spolverandosi i pantaloni. «E poi, abbiamo ancora tre giorni, o sbaglio? Cosa vogliamo fare?».
 
La stanza di Jean era piccola e oscura.
Si trovava all’ultimo piano dei dormitori universitari e assomigliava più a lungo corridoio, piuttosto che a una camera di uno studente. I libri invadevano ogni superficie disponibile: si accatastavano sul pavimento, erano addossati al muro e crescevano in altezza verso il soffitto, invadevano la piccola scrivania in mogano ed erano anche appoggiati al davanzale della finestra che dava verso il cortile.
Jean comprava ai mercatini molti più libri di quanti ne potesse leggere, in realtà e non tutti erano funzionali alla facoltà di Lettere. Il ragazzo preparava gli esami con una lentezza disarmante perché l’università, lui, non voleva neanche frequentarla; invadeva centinaia di quaderni con la sua scrittura obliqua e disordinata. Raccontava di sé, di Amélie, dell’amore e della morte, delle battaglie che ogni uomo, giornalmente, doveva affrontare.
Le sue eroine femminili erano quanto di più bello, poetico e violento Amélie avesse mai letto. Erano donne appassionate e passionali, non si fermavano davanti a niente e avevano gli occhi sanguinolenti – anche se non immaginava, cosa potesse voler dire.
Amélie gli diceva che aveva del talento e che avrebbe dovuto iniziare a proporsi a qualche editore, Jean le rispondeva che si sarebbe venduto all’industria editoriale quando avrebbe iniziato ad avere fame.
 
Jean e Amélie, in quei due giorni, dimenticarono lo scorrere del tempo, le colonne di libri che rischiavano di sommergerli, le lezioni di Amélie e ogni altro tipo di impegno che non fosse il rimanere nudi e abbracciati, finché il tempo a disposizione non fosse finito.
Jean amò Amélie, in quelle lunghe ore, come se non avesse fatto nient’altro in vita sua. Amélie si concesse a Jean come se non fosse mai stata sfiorata da dita umane.
La pelle di Jean era fredda e le labbra di Amélie erano calde. Le dita di lui erano esperte e quelle di lei erano solo curiose e prive di vergogna. Amélie capì, in quei due giorni, che non c’era nessuna suora pronta a dirle, la mattina seguente, che quello che aveva fatto era peccato e che sarebbe stata punita con una vergata sulla schiena e venti sulle dita delle mani.
 
Jean baciò Amélie fino a sentire il suo sapore d’arancia fin dentro le ossa. Sperava, baciandola così a fondo, che decidesse di non partire, che rimanesse lì con lui, nella sua stanza, a baciarlo e a toccarlo finché la Morte non li avrebbe sorpresi così: instancabili, nudi e terribilmente innamorati. L’età e il passare del tempo, non li avrebbero toccati perché Jean sapeva che, loro due, erano creature speciali e che quell’amore, bruciante, passionale e violento, non li avrebbe mai abbandonati.
 
L’alba del terzo giorno arrivò e non aveva niente di biblico, con sé.
L’alba del terzo giorno arrivò e sorprese Jean da solo, nel suo letto freddo che profumava ancora di arance e sesso.
L’alba del terzo giorno arrivò e portò la notizia che, in Illinois, nessuno aveva chiesto di nessun’altro. 






 




 
**Angolo Autrice**

Avevo promesso lo spin-off e spin-off è stato. 
Spero per chi si sia voluto addentrare in questa storia, che ci abbia capito qualcosa; per chi, invece, segue anche la long, sappiate che vi ho spoilerato fin troppe cose ma l'Ispirazione, così ha comandato. 

Spero che anche questa possa piacervi. 
Alla prossima, 
Feynman
   
 
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