Il cielo grigio di
Amburgo
Amburgo non gli era sembrata mai
così fredda e nuvolosa come quella mattina.
Il sole era nascosto da alcune
nuvole grigio piombo che facevano passare solo qualche raggio opaco e sbieco,
insufficiente per illuminare le strade della città, che lentamente si stavano
svegliando.
Genzo guardò sconsolato il mare
dalla vetrata della sua camera, un po’ di cattivo umore per il tempo freddo e
fastidioso, un po’ perché quella mattina gli sembrava più triste e solitaria di
tutte le altre. Nel suo salotto, un abete spiccava in un angolo ben in vista,
decorato rigogliosamente di bianco e rosso, come la bandiera del Giappone; fosse
stato per lui, in quella casa non ci sarebbe stato nessun albero colorato,
nessun addobbo sparso per le stanze, non un pacchetto accanto al camino.
Nemmeno il piccolo Babbo Natale
alla porta d’ingresso, se proprio voleva togliersi tutti i sassolini dalla
scarpa. Era stata J.D. che solo due settimane prima, entrando dopo tanto tempo
nel suo appartamento, era rimasta scioccata, per non dire indignata, di trovare
quel posto così freddo e spoglio sotto l’attesa festa natalizia, decidendo senza
nemmeno consultarlo che avrebbe risistemato quel posto da cima a
fondo.
Lui l’aveva lasciata fare, come
sempre, un po’ perché non voleva mettersi a discutere, un po’ perché in fondo
gli sarebbe piaciuto festeggiare un Natale decente, almeno una volta nella vita;
fino ai vent’anni si era sempre ritrovato a casa di qualche amico, al pranzo del
25. Nell’ultimo periodo, poi, era come se fosse entrato ufficialmente nella
famiglia di Schneider, nemmeno fosse stato la sua ragazza.
Ogni Natale che passava però, il
suo umore e la sua voglia di festeggiare si affievolivano e cominciò a declinare
ogni invito che gli veniva avanzato: perché quello era un periodo dell’anno che
bisognava passare in famiglia, riunirsi tutti e stare felice e insieme almeno
per un giorno, senza problemi e senza litigi. Solo per quel giorno, sembrava che
tutto il mondo si fermasse.
Lui invece, in quelle occasioni,
si sentiva sempre di troppo, come un ospite, sì desiderato, ma fuori luogo. Per
questo alla fine aveva detto a Karl che avrebbe passato le feste a casa,
omettendo ovviamente il fatto che sarebbe stato solo.
Era stato così per quasi sette
anni, dove la sera della Vigilia gli telefonavano tutti per il solito giro di
auguri e chiacchiere: prima fra tutti Sanae, che mai perdeva occasione di
ricordargli quanto fosse scorbutico a non farsi sentire mai, e Tsubasa che gli
ricordava qualche allenamento o impegno con la nazionale, dato che spesso e
volentieri scordava le cose; Mikami gli telefonava sempre da qualche posto
diverso del mondo, dicendo di stare attento e di non farsi male, come sempre;
Matsuyama e Misugi non si perdevano in chiacchiere futili, almeno loro, e
nemmeno Hyuuga, che per educazione almeno un messaggino lo mandava, o forse era
vero che a Natale sono tutti più buoni. L’unico che gli faceva perdere tempo era
Ishizaki, che trovava sempre qualcosa di cui parlare e doveva ammettere che mai
aveva sentito dei monologhi così ben strutturati come i
suoi.
Alla fine della serata, dopo la
telefonata strappa lacrime di sua madre, arrivava sempre un suo messaggio, coinciso e breve.
J.D. non amava parlare se c’era
poco da dire, non era una che cercava di allungare le conversazioni, lo trovava
inutile, e anche lui. Non erano mai riusciti a passare un Natale insieme, come
coppia, da quando si erano conosciuti dieci anni prima; all’inizio perché il
loro rapporto si fermava all’amicizia (o sopportazione reciproca) e non
credevano necessario passare le feste assieme, non c’era alcun motivo. Dopo, le
cose erano leggermente cambiate.
Non era mai stato un ragazzo
facile, e questo lo sapeva bene, lo si poteva vedere anche dai suoi rapporti con
le altre persone, che spesso non erano idilliaci: andava preso per il verso
giusto, solamente. Lei invece la si poteva amare o odiare, non esistevano vie di
mezzo. Forse per questo avevano passato gli ultimi cinque anni delle loro vite a
rincorrersi, cercarsi, litigare furiosamente, mollarsi, per poi rifinire sempre
nel letto dell’uno o dell’altro.
Genzo, lanciando qualche altra
fugace occhiata al cielo grigio di Amburgo, si ritrovò a maledire Jayme Dee
Thompson, perché se non l’avesse conosciuta, forse in quel momento se ne
starebbe stato a letto a dormire, lasciando che quella giornata scivolasse via
il più velocemente possibile, senza pensieri e preoccupazioni. Al contrario, era
stato svegliato dai suoi sensi di colpa, perché dopo un mese che le cose
filavano liscio, lei aveva deciso di incazzarsi con lui solo due sere
prima.
Avevano litigato, come al solito,
urlando come degli ossessi, e lei a mezzanotte passata se n’era andata sbattendo
la porta, spengendo il cellulare, staccando il telefono di casa sua: modi come
altri di dire “Genzo, non rompermi le palle”.
Lui non l’aveva chiamata, non
l’aveva cercata, abituato a quelle sceneggiate da telenovela; ma mai come in
quel momento gli pesava la solitudine del giorno di Natale. Forse perché avendo
avuto J.D. che girava per casa in quell’ultimo mese, allegra come non lo era mai
stata, si era abituato piacevolmente ad avere intorno quegli occhi verdi più
spesso del solito e quel sorriso che a volte nascondeva dietro a una mano, in
modo giocoso. Si era illuso, almeno per un Natale, di passare una giornata
felice, tranquilla, con una persona con cui non doveva fingere di essere allegro
o spensierato, ma poteva essere se stesso, con i suoi malumori e il suo essere
scorbutico.
Gli era piaciuta quell’idea di
festeggiare con lei.
Idea che era miseramente crollata
e che adesso gli aveva svuotato il cuore ancora di più.
Perché non la lasciava perdere,
una che un giorno è felice di stare con te e l’altro vorrebbe ammazzarti di
botte? Per tre semplici motivi, che risultavano strani e inspiegabili persino a
lui. Il primo, come gli aveva fatto notare Sanae più di una volta, era che J.D.
amava profondamente il calcio e ciò portava al fatto che solo una donna così
poteva sopportarlo, e questo era il motivo due, strettamente
collegato.
Il terzo era che lui, come un
allocco, era caduto nella sua trappola, quella che le donne tessono per
abbindolare gli uomini belli e facoltosi come lui. Si era innamorato, di lei.
Mai una sciagura peggiore gli era capitata nella vita.
Non sapeva quante volte aveva
provato a togliersela dalla testa, frequentando altre, anche più di una alla
volta, cercando di pensare alle cose più disperate, pur di non avere la sua
immagine nitida nella testa per ventisei ore al giorno.
Ma per Genzo, J.D. era stata come
una droga: all’inizio non ne voleva sapere di lei (e lei di lui), sopportandola,
punzecchiandola a volte per darle volutamente fastidio, litigando come dei
pazzi, venendo quasi alle mani. Il resto era successo talmente in fretta che
anche a ripensarci, si era chiesto come aveva fatto quella sera di anni prima a
sbatterla contro la porta della sua stanza e baciarla come non aveva mai fatto
con nessun altra ragazza. Da quel momento, come uno stupefacente, nonostante
sapesse che si sarebbe fatto male con lei, che avrebbe sofferto, non aveva
trovato il modo di mandarla via dalla sua vita.
Adesso ne pagava le conseguenze,
ma doveva ammettere che quello a confronto di lasciarla per sempre, gli sembrava
il male minore.
Adesso si stava anche chiedendo se
non fosse colpa di Jay se faceva quei discorsi melodrammatici da quindicenne con
la cotta, perché altrimenti stava peggiorando e Kojiro, scoprendo quel lato del
suo carattere, lo avrebbe preso in giro fino alla morte.
Uscì dalla sua camera indossando
solo i suoi pantaloni della tuta, camminando sul parquet freddo a piedi nudi,
dirigendosi velocemente in cucina: meno vedeva quell’abete rosso e bianco,
meglio sarebbe stato. Cominciò ad armeggiare con la moka e il barattolo del
cafè, quando il campanello dell’ingresso suonò una sola volta, rimbombando per
l’appartamento vuoto.
Lasciò perdere l’intento di
prepararsi la colazione, chiedendosi chi, a parte Babbo Natale, poteva
presentarsi da lui alle sette del mattino del giorno di Natale; non si curò
nemmeno di sbirciare dallo spioncino, aprendo con uno scatto la porta e
sbadigliando senza riguardi in faccia al suo visitatore.
“Sono felice che durante la mia
assenza i tuoi denti siano ancora tutti e trentasei e al loro posto, è una cosa
mi tranquillizza.”
Genzo spalancò impercettibilmente
gli occhi, trovandosi J.D. di fronte a lui, avvolta nella sua sciarpa verde di
lana (gliel’aveva regalata lui, non si sbagliava) e in una giacca a vento nera,
infreddolita dalla temperatura esterna della città. La guardò a lungo confuso,
soffermandosi sui suoi capelli castani che ricadevano scompigliati sulle spalle,
come sempre, sugli occhi verdi cerchiati da due belle occhiaie e sul naso rosso
come un pomodoro, raffreddato.
Era in uno stato di magnifica
devastazione.
“Sbaglio.. o noi due avevamo
litigato?” chiese alzando un sopracciglio scettico.
“E ti ho anche mandato al diavolo,
per la precisione..” disse lei puntando le mani sui
fianchi.
“Augurio seguito da altri epiteti
dalla sfumatura simpatica, devo dire..”
Jayme sbuffò, capendo che Genzo
era ancora arrabbiato con lei, sebbene non capisse per quale motivo, giacchè
doveva essere il contrario.
Non indugiò molto, dato che non
era venuta da lui né per fare la fidanzata pentita e distrutta dal dolore, né
per altro.
Tirò fuori dalla borsa a tracolla
un pacchetto di medie dimensioni avvolto in una carta rossa e oro, senza alcun
bigliettino.
“E’ il tuo regalo di Natale. Avrei
dovuto dartelo ieri sera ma.. diciamo che le cose non sono andate come
previsto.” Spiegò lentamente, non smettendo di guardarlo negli
occhi.
Non avrebbe mai abbassato lo
sguardo, davanti a lui.
Genzo lo prese sorpreso,
aspettandosi tutto, anche un ceffone, ma non certamente un regalo. Se lo rigirò
tra le mani senza un motivo apparente, cercando le parole per dirle una cosa,
una qualsiasi cosa. Ma lei lo anticipò, sospirando
pesantemente.
“Mi
dispiace.”
Silenzio.
“Ma non abituarti troppo, prima e
ultima volta che mi senti pronunciare queste parole, Wakabayashi: d’altra parte
a Natale siamo tutti più buoni, no?”
Genzo le fece un mezzo sorriso,
non sapendo precisamente se saltarle addosso e baciarla in mezzo al corridoio
senza riguardo, oppure scoppiarle a ridere in faccia, tanto era assurda tutta
quella situazione.
Optò per spostarsi di lato alla
porta, invitandola a entrare.
“Il tuo regalo è sotto l’albero,
come vuole tradizione..”
“Spero che sia qualcosa da
mangiare: essere bisbetica tutti i giorni
fa venire una gran fame*.”
Genzo scoppiò a ridere mentre lei
lo superava, chiudendo poi la porta dietro di loro.
* “Essere bisbetica tutto il
giorno fa venire una gran fame.”, Lucy
van Pelt, Peanuts.
Note di colei che si definisce
autrice,
ma che da questo termine è lontana
anni luce:
Questa storia ha la benedizione di
solarial. Se non vi piace, bhè, rifatevela con lei. ù_ù
Il personaggio di J.D. è una mia
invenzione, diciamo che è un’amica di vecchia data, sì.
E’ solo un piccolo siparietto su
questa coppia che dentro la mia testa amo, ad alcune persone è piaciuta molto, e
spero che possa piacere anche a voi.
Buon Natale a tutti..
Captain Tsubasa
© Yoichi Takahashi
Il cielo grigio di Amburgo, Jayme Dee Thompson © Coco Lee