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Autore: arangirl    18/04/2015    3 recensioni
Lexa vuole recuperare qualcosa che forse non è ancora del tutto perso,
Clarke cerca di combattere i suoi demoni da sola, allontanando tutto ciò a cui tiene.
Tra parole non dette e sentimenti contrastanti, entrambe cercheranno di ottenere ciò che più desiderano e che inconsapevolmente cercano, il perdono.
[Clexa, dopo la 2x15, probabilmente di 2/3 capitoli]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Clarke Griffin, Lexa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando Indra entrò nella tenda del Comandante guardandosi intorno con aria leggermente stupita, Lexa quasi non la vide. Era immersa nei suoi pensieri ed era ferma nella stessa posizione ormai da ore, incurante del fatto che aldilà dei sottili lembi della sua tenda il suo popolo fosse in fermento come non mai. Ciò che era accaduto qualche ora prima avrebbe cambiato per sempre la storia di tutti loro, le loro vite.

 
Si accorse della presenza di Indra solo quando questa si schiarì la gola, impaziente di comunicarle le nuove notizie. Lexa la guardò con occhi stanchi, provando nuovamente quel leggero senso di disperazione che non l’aveva abbandonata fin dal momento in cui aveva voltato le spalle al campo di battaglia. “Allora, Clarke e i suoi uomini sono tornati al loro campo?”

 
Indra prese fiato per un momento prima di parlare “Sì Heda… Ma non esattamente nel modo in cui ci aspettavamo.” Lexa inarcò leggermente il sopracciglio, sorpresa “Che cosa vuoi dire?” Indra esitò un attimo, quasi come a cercare le parole giuste “Mount Weather è caduto Heda.”
 
Lexa rimase per un momento immobile, fissando con incredulità il suo generale, mentre un pensiero assurdo quanto splendido si faceva largo nella sua mente, Clarke ce l’aveva fatta.
“Com’è accaduto?” Indra scosse la testa leggermente.
 

“Ho lasciato indietro degli uomini, come mi avevi ordinato, affinché vegliassero su Clarke durante il suo ritorno a casa. Ma lei ha preso la strada delle gallerie, dove si è unita ad Octavia” Indra pronunciò il nome con una certa inflessione d’orgoglio che non passò inosservata a Lexa “Non sappiamo cosa sia successo all’interno della montagna, solo che con lo spuntare dell’alba da lì sono usciti tutti gli uomini del Popolo del Cielo che vi erano rinchiusi.”

 
Lexa rimase in silenzio per un attimo, mentre nel suo cuore il senso di colpa si alleviare leggermente al pensiero che Clarke fosse riuscita a salvare la sua gente nonostante tutto, nonostante quello che lei aveva fatto “Quindi adesso sono tutti al sicuro? Sono tornati al loro campo?”

 
E anche se Lexa aveva pronunciato la sua frase mettendo enfasi sul plurale, sia lei che Indra sapevano benissimo a chi si stava riferendo, e questo rese ancora più difficile quello che il generale aveva da dire “I miei uomini hanno seguito il Popolo del Cielo fino al loro campo, tutti loro sono tornati. Tutti tranne uno.”

 
Lexa non ebbe il minimo dubbio sull’identità di questa persona “Clarke non è rientrata al campo, ma si è allontanata da sola nella foresta. A quel punto i miei uomini sono tornati a farmi rapporto.”

 
Lexa strinse la mascella in una morsa ferrea mentre la sua mente lavorava a ritmo frenetico; dov’era andata Clarke? Perché aveva lasciato la sua gente? E soprattutto, poteva essere al sicuro da sola in una foresta che ancora non le era famigliare? “Puoi andare Indra, ti ringrazio.” Disse in un soffio, e la donna la guardò con una preoccupazione in volto che Lexa avrebbe trovato irritante in qualsiasi altro momento.

 
Rimase ferma ancora per un lungo momento prima di decidersi. Si alzò repentinamente nonostante la protesta dei suoi muscoli, ancora doloranti per la battaglia e per il lungo tempo che aveva passato immobile. Nonostante fosse un’idea assurda quella di correre tra le braccia di una donna che probabilmente l’avrebbe uccisa nel momento stesso in cui se la sarebbe trovata davanti, come assurdo fosse lasciare la sua gente in quel momento così delicato, Lexa non poteva farci nulla. Non poteva lasciare Clarke da sola un’altra volta, non poteva farlo davvero.

 
Si calò il grigio mantello da viaggio sul capo e uscì nella notte e si avvicinò a Indra, ancora a pochi passi dalla tenda, ferma a osservare il caotico movimento dell’esercito davanti a lei. “Indra, io devo andare.”

 
Indra si girò a guardarla negli occhi, in volto un’espressione d’inevitabilità quasi fatale, sapeva che sarebbe successo. “Vi ucciderà Heda. Se fossi in lei io ci proverei di certo.” Lexa fissò per un attimo la donna davanti a lei, consapevole che non stava dicendo nulla se non la verità.

 
“Devo provarci Indra. Bada alle truppe finché non sarò di ritorno, tornate a Polis. Vi raggiungerò là.” Con quelle parole lasciò Indra da sola con i suoi timori e si allontanò nel bosco a passo deciso.

 
Sapeva che era assurdo, terribilmente assurdo, eppure non poteva farne a meno. Perché anche se Clarke in quel momento l’odiava, non avrebbe mai potuto odiarla come lei in quel momento odiava se stessa.

 
 
 
Clarke rimase ferma per qualche minuto davanti a quella che per qualche tempo era stata la sua casa, respirando profondamente. La vecchia struttura che l’aveva accompagnata sulla terra quella che sembrava un’eternità prima si stagliava tra i rigogliosi alberi della foresta, grigio freddo contro lo splendente verde della natura.

 
Si ricordava della ragazza che era scesa da quella navicella come di un’estranea, una bambina con gli occhi pieni di gioia per ciò che si era ritrovata davanti. Si ricordò dei suoi disegni della Terra, di quanto le piacesse tracciare con mano delicata i contorni di un luogo che pensava non avrebbe visto mai. Da quanto tempo non disegnava più nulla? Da quanto tempo si sentiva così stanca, così persa? Che cosa avrebbe detto quella bambina innocente della donna che era diventata?

 
Si guardò intorno, notando con una stretta al cuore che quel luogo portava ancora i segni dell’ultima battaglia, del suo primo massacro; le ossa carbonizzate dei terrestri ancora visibili sul suolo intorno a lei. Non voleva tornare lì, non in quel luogo in cui tutto era iniziato e tutto era finito, dove aveva ucciso quasi trecento uomini in un battito di ciglia, dove Finn si era consegnato ai terrestri per salvare tutti loro. Il pensiero del ragazzo sorridente che le era stato accanto per tutto quel tempo la fece sentire ancora più in colpa; anche lui era morto per colpa sua, perché lei non aveva saputo trovare una soluzione migliore.

 
Scosse la testa come a voler scacciare quei terribili pensieri che l’avevano accompagnata fina dal momento in cui aveva lasciato il campo senza voltarsi indietro. Sentiva ancora lo sguardo triste di Bellamy sulla sua schiena, e già il suo cuore soffriva per la mancanza di tutti quelli che si era lasciata indietro.

 
Ma lei non se li mi meritava, non si meritava il loro affetto, la loro gratitudine.
Per quello aveva scelto quel luogo, perché dentro di se voleva soffrire, voleva provare il dolore della perdita e del senso di colpa, voleva pagare per quello che aveva fatto; per la sua gente era una guida, un’eroina, ma lei si sentiva soltanto un mostro.

 
Entrò nel campo deserto e si guardò intorno alla ricerca di qualcosa di utile; non aveva preso con sé nulla, né cibo né acqua, solo la pistola e il coltello che si portava dietro da ormai troppo tempo. Nella navicella trovò una vecchia borraccia che conteneva ancora dell’acqua dal sapore sgradevole e qualche erba commestibile che forse aveva raccolto lei stessa tempo prima, e capì che avrebbe dovuto farsele bastare per quel giorno. Non aveva intenzione di trattenersi a lungo in quel posto, ma in qualche modo lì dentro si sentiva ancora un po’ a casa.

 
Le era costato tutto il suo coraggio lasciare il campo, la sua vita, un futuro accanto alle persone cui voleva bene dietro di sé, e adesso desiderava solo un po’ di conforto che sapeva di non meritare, e anche quello proveniente da quelle vecchie pareti le andava bene. Si lasciò cadere in un angolo della navicella, e per la prima volta dopo molto tempo, per la prima volta dopo la terribile notte di Mount Weather, dormì.
 

 Il suo sonno fu costellato da incubi di ogni genere e forma, scenari terribili in cui lei falliva e tutta la sua gente veniva massacrata, in cui non era il presidente l’uomo a cui sparava nella sala di controllo, ma suo padre che moriva gridando il suo nome, sogni in cui tutti i morti della montagna tornavano a prenderla, le bocche piene di sangue e gli occhi fuori dalle orbite, le gole cianotiche screziate di rosso là dove si erano graffiati tanto da sanguinare cercando di prendere un respiro che non fosse puro inferno per loro.
Davanti a tutti loro c’era Maya, che la guardava con odio “Avevi promesso di salvarmi Clarke” sussurrava “Mi avevi detto che tutto sarebbe andato bene.”
 

Clarke si svegliò con un grido terribile mentre con le mani cercava di togliersi di dosso il peso dei morti, finché qualcuno non la prese per i polsi e cercò di farla tornare alla realtà, chiamandola per nome. Per un momento Clarke pensò che si trattasse di sua madre, e sentì dentro di lei un sollievo indicibile. E’ stato tutto un sogno pensò, siamo ancora nell’Arca e papà è ancora vivo, ed io non sono un’assassina. Pregò con tutto il suo cuore che fosse vero, poi la realtà le calò addosso come una doccia gelata, e mise a fuoco il volto davanti a lei.
Lexa. Clarke desiderò di poter tornare ai suoi incubi.

 

 
Lexa guardò a lungo il volto sconvolto di Clarke, la fronte sudata, gli occhi aperti e grandi, pieni di terrore che la fissavano stralunati; che fosse in preda alla febbre? Cercò di toccarle la fronte, ma non appena la sua mano lasciò libero il polso della ragazza lei la spinse indietro, mentre a fatica si alzava in piedi.

 
Gli occhi di Clarke si erano fatti più lucidi ora, e Lexa vedeva chiaramente il disprezzo dentro di essi “Come ti permetti di venire qui?” disse la ragazza con voce roca e impastata, e Lexa si chiese da quanto tempo stesse urlando, bloccata nei suoi incubi.

 
“Ti ho sentito gridare.” fu l’unica cosa che riuscì a dirle, in preda ad una serie di emozioni che non riusciva nemmeno a catalogare, il cuore le batteva in petto al ritmo dei tamburi di guerra tanta era stata la sua preoccupazione nel sentire le grida della ragazza.

 
Clarke rimase per un attimo interdetta da quella risposta così disarmante “Mi hai sentito… Cosa ci fai qui? Perché sei tornata indietro?”

 
Lexa rimase in silenzio, incapace di spiegare la sua presenza in quel luogo senza far arrabbiare ancora di più Clarke; alla fine scelse di dire la verità “I miei uomini mi hanno riferito che avevi lasciato il tuo campo. Sono venuta a vedere se stavi bene.”

 
Clarke le lanciò un sorriso sarcastico “Oh, perché adesso t’importa di me? Non mi sembrava te ne importasse molto mentre mi pugnalavi alla schiena davanti a Mount Weather.”

 
Le labbra di Lexa presero una piega amara “Quello che è successo… Non era niente di personale Clarke. Lo sai che m’importa.”

 
Clarke la guardò con espressione esterrefatta “Niente di personale? Lexa, hai abbandonato la mia gente a morte certa, dopo che mi avevi promesso un’alleanza.”
“L’ho fatto per salvare il mio popolo. Non dirmi che non avresti fatto lo stesso.”

 
Clarke, furiosa, si avvicinò a lei di un passo mentre il tono della sua voce cresceva, fino a farla gridare “Si sarebbero salvati lo stesso! Potevamo salvare tutta la nostra gente, insieme!”

 
Lexa strinse le labbra mentre incrociava le braccia al petto “Sì, avremmo potuto combattere… Ma quanti dei miei sarebbero morti? Avevo una soluzione migliore, e ho dovuto prenderla.” Clarke rimase immobile nel sentire l’ultima frase; non l’avrebbe scelta anche lei la soluzione migliore se ce ne fosse stata una? Quanto avrebbe voluto avere una scelta invece di far morire tutta quella gente.

 
Lexa la guardò per un lungo istante prima di continuare, questa volta quasi in un sussurro “Come credi che l’abbia presa il mio popolo? Hanno accettato il mio volere perché sono il comandante, la loro Heda, ma nel profondo so che mi disprezzano per quello che ho fatto. Scendere a patti con gli uomini della montagna, che per anni hanno ucciso i nostri fratelli e sorelle! Hai visto anche tu con quale foga volevano combattere… Il sangue esige sangue, e io ho privato il mio popolo della sua giusta vendetta. Ma loro possono odiarmi e disprezzarmi quanto vogliono, ma ne sarò felice perché almeno sono vivi, perché possono provare quelle cose. Non si può sempre prendere la scelta che ti farà acclamare dalla folla, non ho dato loro quello che volevano, ma ciò di cui avevano bisogno, ciò che era meglio per loro. Non mi scuserò per questo Clarke.”

 
Clarke rimase in silenzio, fissando il terreno ai suoi piedi, invidiando la forza di Lexa, la sua determinazione; c’era una parte di lei che desiderava immensamente gettarsi fra le sue braccia e aggrapparsi a lei finché tutto il dolore che sentiva dentro non fosse svanito, così disse in un sussurro ciò che aveva bisogno di ricordarsi, per quanto fosse una mezza verità “Io ti odio Lexa.”

 
Per un attimo l’impassibile maschera che Lexa portava in volto si frantumò, e Clarke riuscì a leggere la sofferenza nei suoi occhi, e una parte di lei gioii per quella piccola vittoria.
“Puoi darmi tutte le giustificazioni che vuoi, ma per quanto valide possano essere, quello che hai fatto mi ha distrutta. Se tu fossi rimasta con me sarebbe stato diverso… Non avrei dovuto uccidere tutte quelle persone.”

 
Clarke si girò, incapace di sostenere per un minuto di più lo sguardo di Lexa; adesso che la rabbia era fuoriuscita da lei come pus da una ferita infetta, ora si sentiva solo terribilmente stanca, disperata. “Che cosa vuoi dire?” La voce di Lexa era leggera, dolce, e Clarke combatté contro se stessa, tra il disperato desiderio di confessarsi con qualcuno che poteva capirla e la paura di rivivere quei momenti orribili; alla fine la prima prese il sopravvento, e mentre si girava di nuovo a fronteggiare Lexa, sentì sulle sue guance lacrime di cui non riusciva a vergognarsi.

 
“Ho dovuto ucciderli tutti, uomini, donne, bambini… Persino quelli che ci avevano aiutato… Sono tutti morti per mano mia. Avevano preso tutta la nostra gente, mia madre, tutti i miei amici… Ho bloccato le ventole, l’aria esterna è entrata in tutta la montagna…” Parlava sottovoce, scuotendo leggermente la testa, lo sguardo distante che fissava di nuovo quelle scene, tutto l’orrore, e Lexa per poco non cedette alla tentazione di fare un passo verso di lei, di prenderla tra le braccia.

 
“Sono morti tutti in modo orribile, per mano mia…” Clarke la guardò negli occhi veramente dalla prima volta da quanto Lexa era entrata nella navicella “E se tu fossi rimasta al mio fianco nulla di tutto questo sarebbe successo.”

 
Per la prima volta da quando si erano separate il giorno prima, Lexa fu colpita dal peso della decisione che aveva preso, dalle ripercussioni che aveva avuto sull’unica persona che era riuscita, anche solo per qualche attimo, a farla sentire nuovamente viva. “Clarke, io…”

 
L’altra scosse la testa, girandosi improvvisamente “Vattene via Lexa, ti prego.”

 
Clarke rimase in silenzio, stringendo i pugni, combattendo il desiderio ancora vivo in lei di girarsi e gettarsi tra le braccia di Lexa, per quanto assurdo fosse in quel momento, non riusciva a non pensare al bacio che si erano scambiate solo il giorno prima, a come, nonostante tutto quello che era successo da quel momento, una parte di lei lo desiderasse ancora.

 
Riuscì, però, a rimanere immobile finché non sentì il rumore dei passi di Lexa che si allontanavano da lei, e solo dopo alcuni minuti da quando il suono era cessato si lasciò scivolare a terra, gli occhi pieni di lacrime.
  
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