*Prima di iniziare*
Questo
mio piccolo...sfogo?, se lo si può definire così,
nasce in
circostanze sospette, quando la mia mente doveva essere concentrata a
studiare ma che nella realtà si divertiva a burlarsi di me.
Lo fa
molto spesso, ultimamente. E siccome mi conosco, e conosco anche lei,
finché non vedrò questa cosa
scritta nero su bianco, non
avrò mai l'anima in pace.
Se
passasse inosservata, cosa a cui credo vivamente, pazienza,
è solo
un puro sfogo alla mia fantasia che cerca di ribellarsi allo studio
semi serio a cui la costringo. Studio che, tra l'altro, troverebbe
molto utile se solo avesse la minima intenzione di accoglierlo,
neanche apprezzarlo.
Detto
ciò, ho ancora una piccola osservazione: la partita presa in
considerazione non ne riguarda una in particolare, che comunque
sarebbe irrilevante ai fini della storia. È una shot senza
pretese,
comunque. Non potrei mai averne,in fondo.
E
con questo, se qualcuno non è ancora morto di noia, vi
lascio alla
storia, miei prodi. Non starò a pregare di lasciare una
recensione,
tanto nessuno ascolta mai le preghiere di una povera scrittrice da
quattro soldi, indi per cui, spero almeno vi sollazzerete per la
lettura.
E
ricordatevi, peace and love! <3
La luce in fondo al buio
I
muscoli erano tesi in uno sforzo che pareva impossibile, fuori dalle
possibilità di ogni comune essere umano. I piedi quasi
sembravano
aver acquisito la capacità di volare a mezzo metro da terra.
Il
corpo era un fascio di nervi e la mente non era da meno, concentrata
e tesa nell'azione che stava svolgendo. Non poteva sbagliare, quel
tiro non poteva essere sbagliato. Non doveva essere sbagliato. Doveva
essere tutto perfettamente coordinato in un unico, fluido movimento.
Un gesto pulito che non avrebbe lasciato dubbi, ma solo stupore negli
occhi degli spettatori.
Se
fosse andato storto, tutto ciò per cui aveva lottato negli
ultimi
tempi non sarebbe servito assolutamente a niente. E questo non se lo
sarebbe mai perdonato.
In
fondo lui non era un ragazzo qualunque, un ragazzo che si lasciava
abbattere. Per quanto potesse essere brutta la situazione in cui era
precipitato, in un modo o nell'altro se ne sarebbe comunque tirato
fuori.
Non
poteva sbagliare; non solo per lui, per il suo orgoglio cacciato in
fondo alla gola dopo quella supplica, per la sua testardaggine che lo
aveva portato quasi a rovinarsi letteralmente l'esistenza. No. Lo
doveva anche a lei, che
l'aveva sempre sostenuto nonostante lui avesse cercato di sabotarla,
sabotando anche se stesso. Glielo doveva perché aveva
capito, tardi
ma l'aveva capito, che lei gli aveva salvato la pellaccia. Lo aveva
fatto ragionare quando anche l'ultimo lume di speranza si era andato
dissolvendo. Lei era stata capace di accendere la luce in quel buio
infernale e di riuscire a fargli vedere che c'era ancora del buono in
lui, e nel mondo circostante.
E
lei, in quel momento, era tra gli spalti, tra la folla urlante. Era
sicuro di avere i suoi begli occhi verdi puntati addosso, con il
respiro fermo ed il cuore a mille, nemmeno ci fosse stata lei su quel
campo al posto suo. Lui era sicuro del suo sguardo, e ne era anche
felice, felice che non se ne fosse andato per sempre, ma che avesse
potuto vedere quello che si sarebbe rivelato il suo riscatto.
La
mente smise un momento di ragionare, e la palla scivolò
dalle mani
in un tiro che sarebbe stato da tre punti. La sua
specialità. Non
avrebbe sbagliato, per lei non lo avrebbe più fatto.
Quella
fitta al ginocchio che l'aveva colto la prima volta alla sprovvista,
non si fece attendere per un ritorno di fuoco. Letteralmente.
Sembrava aver scelto il momento giusto per infierire ancora una
volta, ed ancora più forte di prima. E dire che sembrava che
tutto
fosse tornato a posto, come doveva essere.
Era
stata di nuovo come un fulmine a ciel sereno, e come un fulmine, gli
aveva scaricato addosso un'elettricità tale, da farlo
ruzzolare per
terra.
In
fondo un po' se lo aspettava, ma sperava che i suoi timori fossero
infondati e che avesse potuto ritornare a giocare a basket come aveva
sempre fatto.
Il
basket era la sua ragione di vita, senza quello, nulla aveva
più un
gran senso che accompagnasse le sue giornate.
Viveva
in funzione della pallacanestro, ma evidentemente quello sport
rivelatosi così crudele, non lo voleva più.
Non
accettava più uno dei suoi giocatori migliori.
Un
urlo disumano si fece strada tra le mura della palestra, e Hisashi
Mitsui si teneva dolorosamente il ginocchio sinistro, fonte di tanta
disperazione.
-Non
è possibile, dimmi che non è vero!- urlava la
mente del ragazzo,
piena di frustrazione per la situazione in cui era di nuovo caduto.
Le
lacrime iniziarono a scendere dagli occhi, senza ritegno.
Hisashi
non si curava minimamente delle persone che gli erano attorno e che
potevano vederlo piangere. Non se ne accorgeva nemmeno, e l'unica
cosa che riusciva a vedere era solamente il suo grande sogno che si
allontanava, sfuggendogli dalle mani, dalla vita.
-NO!-
un grido che riecheggiò per tutta la palestra, suonando come
un
lamento straziante e pieno di angoscia. Era qualcosa che nessuno dei
presenti aveva mai sentito in tutta la vita: una sillaba carica di
dolore, frustrazione, abbandono e tanta rabbia; una rabbia nata
dall'impedimento nel raggiungere i propri obiettivi, i propri sogni,
che erano sfumati via come un segno di matita cancellato di fretta.
In un solo momento gli era crollato il mondo addosso, insieme alle
sue certezze ed al suo grande amore per quello sport.
Mitsui
temeva il peggio, temeva di essere emarginato per sempre da quel
campo di legno, tagliato fuori da tutto ciò che poteva avere
importanza per lui.
Era
una sensazione ed una consapevolezza insopportabile per un solo,
così
giovane ragazzo.
Il
suono della sirena dell'ambulanza giunse alle sue orecchie pochi
minuti dopo, trasportandolo in ospedale. Il tragitto gli era sembrato
infinito, quasi come se fosse la strada verso l'inferno.
La
sua stanza era un posto freddo ed inospitale, e aveva tutto meno che
l'atmosfera di casa. Non aveva il calore a cui Mitsui era abituato, e
non aveva nemmeno ciò che lui cercava disperatamente: un
posto che
sentiva suo.
Quel
luogo gli ricordava, e lo avrebbe sempre fatto, una sconfitta
più
forte e dolorosa di qualsiasi pugno che avesse mai potuto ricevere in
vita sua.
Aveva
l'odore pungente di fallimento, di chi non ce l'aveva fatta.
E
il ragazzo, volente o nolente, ne era entrato a far parte.
Molti
pensieri gli affollavano la mente, ma tutti rimanevano con la stessa
risposta buia: non avrebbe mai più potuto giocare a basket.
La sua
mente era offuscata ormai da giorni da questi pensieri, e il lenzuolo
bianco del letto subiva tutta quella rabbia attraverso i pugni
serrati che lo stringevano durante l'arco della giornata.
Le
mani gli facevano male dalla troppa forza che metteva in quel gesto,
quasi come a voler passare a quel materiale inanimato un po' del suo
dolore. Ma in cambio non otteneva altro che rabbia e consapevolezza
del fatto che non sarebbe mai più stato quello di un tempo.
“Maledizione!!”
Il
lenzuolo cadde a terra come un fagotto, ed il rumore di piatti rotti
riempì la stanza e le orecchie di Hisashi. Il pranzo era
rovinosamente rovesciato sul pavimento; tanto non aveva fame. Non ne
aveva più da giorni ormai, e nemmeno le visite dei suoi
amici gli
erano di aiuto.
Aveva
provato a passare il tempo leggendo, ma la sua mente era troppo
distratta e cercava in tutti i modi di non essere riempita di
qualunque informazione. Anche lei aveva preso a ribellarsi.
Le
foto accanto al letto lo aiutavano sì a stare un po' meglio,
ma lo
rigettavano in un malumore che nemmeno con tutta la forza e la buona
volontà del mondo sarebbe riuscito ad allontanare.
La
sua stava lentamente diventando un'ossessione che non lo abbandonava
mai, né durante il giorno, e né tanto meno
durante la notte.
Quello
era il momento peggiore; quel lasso di tempo in cui
l'oscurità la
faceva da padrone gli riportava a galla tutta la fatica che aveva
fatto durante il dì per buttare giù quella
pillola amara che per
sua sfortuna rimaneva sempre incastrata in gola. Lo ridestava dalla
calma apparente che era riuscito a raggiungere, facendolo ripiombare
nell'oblio.
I
sogni non lo consolavano certo di più: il volto del signor
Anzai
infestava la sua testa quando cercava ristoro almeno durante il
sonno. Quando riusciva ad addormentarsi, era ovvio. Anche la veglia
era disturbata, e forse era ancora peggio che sognare.
Hisashi
pareva non farcela più.
Una
testa riccioluta fece capolino dalla porta, con un sorriso in volto.
“Posso
entrare?” chiese, con voce limpida ed allegra.
Hisashi
si girò verso la fonte del rumore, scorgendo la sua amica Ai
sulla
porta.
Sorrise
a sua volta.
“Vieni
Ai, lo sai che sei sempre la benvenuta!” la
invitò, e la figura
minuta della ragazza fece il suo ingresso nella stanza. Era piuttosto
piccola, con due occhi grandi e verdi e la faccia pulita, quasi
angelica.
Ai
era sua amica fin dai tempi dell'infanzia, e lo aveva sempre
incoraggiato nello sport che più amava al mondo. Era
presente ad
ogni partita e conosceva a memoria il gioco di Mitsui, non essendosi
mai persa una sua azione. Quando poteva andava anche a sbirciare gli
allenamenti, ed al ragazzo questo non poteva che far piacere.
Anche
in quel momento era felice di vederla, ma non avrebbe voluto che lei
sapesse del suo infortunio. Sapeva che si sarebbe preoccupata
più
del dovuto, spaventandosi come una preda quando sente il predatore
nelle vicinanze.
Mitsui
le voleva molto bene, e per lui era diventata una figura importante
nella sua vita.
La
ragazza dalla folta chioma castana si sedette sulla sedia accanto a
lui, non perdendo mai il suo sorriso.
“Come
stai, campione?” gli aveva chiesto, usando il nomignolo che
gli
aveva affibiato anni or sono.
Già,
come stava? Si sentiva uno straccio, un incapace, un fallito.
“Sto
bene...” rispose però, non volendo dare adito ai
suoi più cupi
pensieri. Non voleva intristire l'amica, nonostante sapesse benissimo
che non gli avrebbe creduto.
Lui
per Ai, era un libro aperto. Lo leggeva con una facilità
tale da
fargli paura, a volte.
“Certo,
e io ho vinto l'ultimo concorso di bellezza!” lo
schernì. “Dimmi
la verità”.
Mitsui
strinse come di consueto, ultimamente, il proprio lenzuolo, cercando
di trattenere la rabbia e le lacrime di nervosismo. Uno sforzo vano,
con lei sarebbero uscite comunque: era incapace di nasconderle i
propri sentimenti.
“Sono
un fallito, ecco tutto!” quasi lo urlò, ma Ai gli
mise gentilmente
una mano sulla spalla, quasi come se volesse assorbire un po' del suo
dolore.
Se
fosse stato possibile lo avrebbe fatto davvero.
“No,
non lo sei. E lo sai bene.” le sue parole erano dolci, ed
erano le
uniche che gli avevano dato un minimo di conforto sperato.
“Lo
sai che puoi anche metterti a strillare come un neonato, se ti
può
aiutare. Io rimango qui.” e sorrise amorevolmente.
E
fu allora che tutta la rabbia, la frustrazione e la tristezza
uscirono dalle labbra del ragazzo, accompagnate dalle lacrime amare
di una sconfitta. Parlò come se potesse essere l'ultima
volta
possibile, svuotò tutto se stesso da quelle angosce e da
quelle
ossessioni che lo attanagliavano, e una volta finito, si
sentì
meglio.
Ai
lo stette ad ascoltare senza fiatare, attenta ed in silenzio
religioso.
Sapeva
quanto fosse importante per Hisashi sfogarsi e buttare tutto fuori;
non poteva che fargli bene. Tenersi dentro tutto lo avrebbe
consumato, fatto marcire da dentro. Non poteva portarsi quel fardello
dietro da solo, non era in grado di reggere un macigno di quella
portata. Almeno non un'altra volta. Non era così forte come
voleva
dare a vedere. Gli era già successo una volta questa
sventura, ed
un'altra non poteva che peggiorare le cose se non si fosse aperto con
qualcuno.
Ai
lo guardò un attimo, prima di rispondergli. Doveva pesare
bene le
parole: non voleva né dargli false speranze ma nemmeno
illuderlo di
un qualcosa che non sarebbe mai più potuto accadere.
Faceva
male anche a lei sapere che il suo migliore amico non avrebbe
più
potuto giocare a basket e realizzare i suoi sogni.
“Io
dico che non tutto è perduto!”
sentenziò allegramente, non
credendo troppo alle sue parole. Guardò un attimo fuori
dalla
finestra.
“La
speranza è l'ultima a morire, e non va bene
abbandonarla!”
Mitsui
la guardò sorpreso. Erano le stesse parole che gli aveva
detto Anzai
il giorno della finale.
Sorrise,
pensando che fosse davvero fortunato ad avere accanto un'amica del
genere.
Ai
se ne accorse, ma non disse niente, felice almeno di aver alleggerito
il carico del ragazzo per un po'.
“Ma
lo sai che c'è un'infermiera che non mi lascia in
pace?” esordì
d'un tratto, un po' infastidito. “Crede che mi piaccia e
continua a
farmi delle avance!”
Ai
strabuzzò gli occhi e scoppiò in una fragorosa
risata, che le fece
venire male alla pancia e le lacrime agli occhi. La scena che le si
era presentata agli occhi della mente era qualcosa di esilarante: si
immaginava le avances spinte della donna nei suoi confronti, e lui
che non riusciva ad accettarle.
Mitsui
si accigliò.
“Ma
perché ridi tanto eh?”
Per
tutta risposta ebbe un altro scroscio di risa.
“Va
beh, quando sei tornata nel mondo reale fammi un fischio!”
Ai
si trattenne a fatica, guardando Mitsui divertita.
“E
togli quel muso lungo, permaloso!” disse, punzecchiandogli la
guancia.
Il
viso del ragazzo si deformò ed un mugugno di dissenso
uscì da
quella massa maltrattata.
Un
altro suono di risate riempì l'aria. Ai era riuscita a
portare un
po' di buonumore in quella stanza tanto cupa e triste.
Mistui
era steso sul letto e guardava il soffitto in cerca di una qualsiasi
risposta che lo facesse stare meglio.
Ai
se n'era andata, e con lei il suo buonumore. Ed era tornato tutto il
macigno che lo appesantiva da ormai troppo tempo.
Pensava
al fatto che ci aveva riprovato; aveva provato a giocare di nuovo, e
per un attimo l'illusione che tutto sarebbe tornato come prima lo
aveva pervaso.
Ma
il suo demone era dispettoso, e gli aveva preparato un tiro mancino.
Una ricaduta tremenda, che non gli aveva più permesso di
tornare ad
essere un serio giocatore di basket.
Se
n'era andato, lasciando tutto; lasciando anche la sua sfida con Akagi
rimanesse aperta.
Non
si era fatto più vedere, e aveva lasciato che la sua figura
venisse
accantonata ed oscurata, lasciata in u cassetto a impolverarsi; ma a
non ad essere dimenticata.
Nessuno
poteva dimenticarsi di Hisashi Mitsui.
D'altronde
una leggenda non la si scorda mai. Ed una leggenda viene anche
tramandata di generazione in generazione.
Per
un po' di tempo aveva lasciato scorrere i giorni nel vuoto
più
completo. Le sue giornate ora sembravano inevitabilmente più
lunghe
e senza fine. Avrebbe dovuto pur trovarsi qualcosa da fare.
Adesso
che riusciva a camminare normalmente, senza l'ausilio della
stampella, poteva muoversi senza problemi. Apparentemente era tornato
ad essere un ragazzo normale.
L'unica
cosa che gli andava di fare ultimamente era proprio camminare. Vagare
senza una meta precisa, pur di occupare il tempo in eccesso.
In
uno dei tanti giorni di noia, sempre accompagnati da quella
frustrazione che lo tormentava, Ai era venuta a fargli compagnia. Era
preoccupata per lui, e cercava in tutti i modi di riuscire a
combinare qualcosa di buono pur di far sentire meglio Hisashi. Non
voleva lasciarlo solo, in balia dei suoi brutti pensieri. Gli voleva
bene, e non l'avrebbe abbandonato per nulla al mondo.
“Hisashi,
e fammi un sorriso su!” lo implorava lei, alzandogli gli
angoli
della bocca per averne almeno una parvenza. “Sei
così bello quando
sorridi!” cercava di incitarlo, toccandolo sull'orgoglio
puramente
maschile.
“Ai,
piantala dai!” mormorò, spostando con poca
delicatezza le piccole
mani della ragazza dal suo viso.
Lei
sbuffò infastidita.
“Io
faccio quello che mi pare, e adesso ti dico che devi almeno provare a
sorridere, cercando di vedere qualcosa di positivo anche in questa
faccenda!” si era adirata leggermente, toccando un tasto che
per
Mitsui era scomodo.
La
rabbia gli montava dentro, e non ce la fece a controllarla.
“Smettila!
Smettila e vattene! Non ho bisogno di te e della tua misericordia!
Non mi serve a niente! Tu non mi servi a niente!” le
sputò queste
parole addosso, facendola sobbalzare ed insieme colpirla nel
profondo. Seguì un breve silenzio, carico di tensione.
“Bene.”
si alzò dalla panchina sulla quale era seduta, riavviandosi
il
vestito. “Se è questo che vuoi, allora ti lascio
in pace.” si
era voltata, e se n'era andata, sparendo in fretta dalla sua visuale.
Era successo tutto così velocemente, che lui quasi a stento
se n'era
accorto. Era successo davvero? Ma la risposta la conosceva bene, e si
era immediatamente pentito di ciò che aveva fatto un attimo
prima.
Sapeva
di averla ferita, ma in quel momento non capiva che lei era davvero
l'unica che potesse tirarlo fuori dai guai. La lasciò andare
via,
senza nemmeno chiamarla, stando seduto a fissare la sua figura
sparire lentamente all'orizzonte. Si pentì subito dopo per
averla
trattata a quel modo. Non voleva paragonarla ad un oggetto utile, lei
non lo era. Lei si preoccupava solo per la sua salute. E lui
l'avrebbe capito troppo tardi.
Non
l'aveva cercata per giorni, e lei non era stata da meno. Era troppo
orgogliosa per fare il primo passo.
Si
erano lentamente persi, senza smettere di pensare l'uno all'altra. Se
nessuno metteva da parte l'orgoglio, la situazione rimaneva immobile.
E nessuno dei due voleva cedere, l'una perché era stata
ferita e
pretendeva delle scuse, l'altro perché era troppo testardo
per
poterle pronunciare.
Si
incontrarono un giorno, per strada, per caso. Lei era sola, mentre
Mitsui era in compagnia dei suoi nuovi amichetti, tra cui il famoso
Tetsuo. Avevano già suscitato scalpore con tutte le risse
che
avevano provocato. Hisashi non poteva scegliere una compagnia
peggiore per lui.
Le
passarono accanto, non risparmiandole dei commenti allucinanti e
volgari. Hisashi cercò di zittirli senza un grande successo,
cercando però di non dare troppo nell'occhio, specialmente
quello di
Ai.
“Cos'è,
la tua ragazza?” gli aveva detto uno, prendendola per un
braccio in
modo tutt'altro che galante e delicato.
“Lasciami
brutto stronzo!” era stata la sua reazione, cercando di
divincolarsi dalla stretta. Mitsui gli prese il braccio e
liberò Ai
dalla morsa ripugnante. Lei si ricompose.
“Fate
proprio schifo” si rivolse a tutta quella banda di teppisti
dalla
pessima reputazione “E tu, più di
tutti.” era gelida nel dirlo,
guardando Hisashi negli occhi, con un'espressione delusa e
inquisitrice. Quello sguardo lo penetrò nel profondo,
aprendo una
ferita che sanguinava più di quando aveva perso i due denti
davanti.
Faceva male, un male cane. Lei non poteva pensare una cosa del
genere, lei lo aveva sempre apprezzato. Ma lei non credeva che
sarebbe arrivato a ridursi così. Un teppista da strada che
trova in
un branco di idioti la sua nuova casa. Non lui, non Hisashi Mitsui.
L'aveva profondamente delusa, e questo lui lo sapeva.
Senza
aggiungere altro s'incamminò per la sua strada, non
voltandosi
nemmeno una volta. Mitsui la guardò di nuovo andare via ed
allontanarsi. L'aveva persa, di nuovo.
“Che,
ti fai mettere i piedi in testa da una femmina qualunque?”
qualcuno
aveva sparato accuse, beccandosi un pugno come risposta. Lei non era
una “femmina qualunque”. Lei era la sua Ai.
“Ehi
ehi, calma Mitsui” Tetsuo era intervenuto. “E tu,
idiota,
piantala”.
Lui,
capo della banda, era forse l'unico ad avere un po' di sale in zucca.
Aveva captato qualcosa.
“Razza
di coglioni.” commentò Hisashi, guardando il
cielo. Lui e Ai erano
soliti guardare le stelle, insieme. A inventarsi nomi improponibili
per le costellazioni e a ridere su quella scemenza. Le mancava tanto,
le mancava da morire. E anche stavolta l'aveva lasciata andare, senza
fare nulla, senza muovere un muscolo.
Si
maledisse, si maledisse tutta la sera. L'avrebbe rivoluta accanto a
sé. Lei era la sola a non giudicarlo mai, ed a comprenderlo
come
nessuno mai aveva fatto.
Voleva
di nuovo la sua amica -ma davvero solo amica?- accanto a sé,
per non
smarrire di nuovo la strada.
Nella
sua mente si fece largo questa idea, e ci mise poco ad essere
convertita in realtà.
Quella
sera i suoi pensieri quotidiani erano stati fermati da un tirapugni
che gli aveva lasciato il segno. Una piccola cicatrice sul mento
sarebbe rimasta lì, a ricordargli l'accaduto per il resto
della sua
vita. Avrebbe voluto essere già oltre, aver già
passato quell'età
critica; avrebbe voluto guardarsi allo specchio e dire “Ce
l'ho
fatta, nonostante tutto.”
Ma
quel giorno era ancora lontano.
Poche
sere prima avevano fatto a botte con un certo Myagi, e adesso
volevano pareggiare i conti. Quella volta a Mitsui non era andata
bene come sempre. Se l'era prese di santa ragione, ed i suoi due
denti mancanti ne erano la prova.
Gli
era montata una rabbia smisurata, e le mani gli prudevano tanto da
farlo quasi impazzire; sarebbe stato meglio se se le fosse tirate via
a morsi.
Quel
pomeriggio aveva incontrato Ai nei pressi di casa sua, mentre
bighellonava sperando di vederla. Ormai da quando avevano litigato,
lo faceva spesso.
Lei
lo aveva appena guardato, lo sguardo deluso e cattivo. Non avrebbe
voluto farle così tanto male, ma in fondo non la biasimava.
Se non
voleva parlare al ragazzo che era diventato, ne aveva tutti i motivi.
Hisashi aveva sperato che almeno lo salutasse, ma lei non gli aveva
concesso neanche quello: gli era passata accanto quasi sfiorandolo,
senza degnarlo di uno sguardo o di una parola. Quel comportamento lo
aveva ferito come se avesse preso cento pugni nello stomaco. Lei era
sempre stata quella che non lo aveva mai giudicato, ma adesso Mitsui
aveva davvero passato ogni limite.
Anche
se aveva provato a parlarle, dopo quella volta che i suoi amici
l'avevano quasi aggredita, si era sentito rispondere che lei non lo
conosceva più, che era diventato un mostro del quale non ci
si può
fidare.
“Dov'è finito il mio Hisashi? Dove l'hai nascosto? Quando l'hai ucciso?”
Quelle
parole erano arrivate come una pallonata dritta in faccia.
Se
nemmeno lei si fidava più, se non lo voleva più
vicino, allora
aveva perso completamente le speranze.
“Hisashi ti prego, smettila di vederti con quei teppisti! Ti rovineranno!”
Non le aveva dato retta. E solo Dio sapeva adesso quanto avrebbe voluto.
“Hisashi, torna a giocare a basket...”
L'aveva
implorato, sapendo perfettamente che lui si sarebbe arrabbiato e
avrebbe rinunciato in partenza.
“Niente
è perduto...”
Le aveva urlato in faccia, per risposta. E l'aveva mandata via, forse per sempre. Non avrebbe mai dovuto...non avrebbe mai voluto.
Quando
avevano varcato la soglia della palestra, qualcosa in Hisashi era
scattato. Tutti i ricordi si affollavano nella sua mente, facendolo
annegare. Non riusciva quasi a respirare.
Nonostante
le botte prese e quelle date, i racconti di Kogure gli avevano fatto
più male. Non voleva sentir parlare del ragazzo che era
stato.
Ma
qualcuno, quel giorno, aveva deciso di aiutarlo. Una manna dal cielo,
avrebbe poi pensato Hisashi.
Il
Signor Anzai era l'unico, insieme ad Ai -ma questo Mitsui l'avrebbe
capito solo a conti fatti- che potesse tirarlo fuori dal baratro in
cui era precipitato.
“Allenatore Anzai...la prego..io voglio giocare a basket!”
Quel
giorno, a guardare la scena da lontano, c'era anche Ai. Non lo aveva
mai perso di vista, nonostante fingesse di evitarlo. Non avrebbe mai
potuto abbandonarlo, nemmeno in quella circostanza.
Quando
Hisashi, finalmente senza essere seguito da quella banda di idioti,
era uscito dalla palestra, l'aveva trovata lì, ad aspettarlo.
L'aveva
guardata, ed in quel momento aveva capito tutto.
“Tu...ci
sei sempre stata...” le lacrime gli rigarono di nuovo il viso
sporco di sangue. “Non mi hai mai abbandonato...” i
singhiozzi
gli spezzavano la voce già debole.
Ai
non disse niente. Gli si avvicinò e lo abbracciò
più forte che
poteva. Le sue braccia lo tenevano stretto, come se non volessero
più
farlo scappare; le mani stringevano la giacca scura, aggrappandosi.
“Non
andare più via...” era quasi come se lo stesse
implorando.
Questa
volta fu Mitsui a non dire nulla; la abbracciò forte. Mille
parole
non sarebbero bastate per rendere l'idea della gratitudine che lui
provava.
E
Ai lo sapeva bene.
“Certo
che così è tutto un altro vedere!”
La
ragazza riccia sorrise guardando il giocatore di basket che si
esibiva in pose da book fotografico.
“Sono
bello, lo so!”
Si
atteggiava come un pavone che fa la ruota, camminando avanti ed
indietro come se stesse sfilando su una passerella.
Ai
rise a crepapelle; una risata che veniva dal cuore.
Hisashi
la guardava sorridendo. L'aveva davvero salvato. Lei c'era sempre
stata per lui, anche nel momento peggiore, anche se lui stesso non se
n'era accorto.
Aveva
giurato a sé stesso, e per lei, che mai più
avrebbe commesso un
simile errore.
Aveva
i capelli corti e i denti davanti erano tutti al loro posto.
Poteva
ricominciare da dove aveva lasciato.
Ce
l'avrebbe fatta, questa volta.
Anche
il ginocchio sembrava stare molto meglio.
Lo
avrebbe fatto per Ai; e se non ci fosse riuscito, almeno ci avrebbe
provato. Non poteva più avere rimpianti.
La
ragazza smise di ridere ed incatenò i suoi occhi in quelli
del
ragazzo.
Sorrise.
“Ce
la farai Hisashi. Ne sono sicura.”
La
palla entrò nel canestro, scatenando un boato tra le
tribune. Mitsui
toccò terra, come se si fosse tolto un peso enorme dallo
stomaco.
Quella sensazione di felicità che lo invadeva dopo ogni
canestro,
era tornata a farsi sentire prepotentemente.
Ce
l'aveva fatta. Ai aveva ragione.
Cercò
il suo sguardo tra le tribune, ma la gente era davvero troppa per
poterla vedere. Nonostante quello, Hisashi lo sapeva che lo stava
guardando. Mentalmente le dedicò quel canestro; se lo
meritava fino
in fondo.
I
suoi compagni di squadra gridarono la loro felicità ed
approvazione,
accerchiandolo e buttandolo nella mischia. Grazie a lui avevano vinto
la partita.
Hisashi
Mitsui era tornato sul terreno di gioco.
Ed
era tornato per restare.
“Mi
scusi, posso avere anche io un autografo?"
Hisashi
si girò in direzione della voce e sorrise, vedendo Ai
davanti a lui.
“Ma
certo” sorrise malizioso, atteggiandosi a grande uomo.
“Per lei
posso anche farne più di uno!”
Ai
rise, e gli si buttò tra le braccia, affondando la testa sul
suo
petto. Respirò a fondo il suo profumo, mentre il ragazzo si
inebriava della fragranza che emanavano i suoi capelli.
“Ce
l'hai fatta, hai visto?”
Le
tirò su il viso con due dita, fissandola nei suoi grandi
occhi
celesti, con enorme gratitudine.
“E'
anche grazie a te...” sussurrò, prima di posare le
sue labbra su
quelle della ragazza.
Ora,
tutto sembrava andare per il verso giusto, per una volta nella sua
vita.