Serie TV > Merlin
Ricorda la storia  |      
Autore: luxuryloser    22/04/2015    5 recensioni
Erano già passati un paio di mesi da quando Merlin aveva iniziato a lavorare part-time alla Help Line organizzata dall’ala psichiatrica del West Albion Hospital.
Ci sono storie che non si raccontano, che si scrivono sull'anima finché non gronda d'inchiostro e ancora non finiscono, finché non c'è più spazio per una parola. Ci sono persone distrutte che parlano, e persone spezzate che ascoltano.
Ma ci sono anche conversazioni telefoniche durate troppe ore, e pezzi di puzzle che si incastrano quasi alla perfezione.
Ci sono Merlin e Arthur, sotto quelle macerie.
ATTENZIONE! Se potete pensare a un trigger warning, in questa storia c'è.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino, Morgana, Principe Artù, Uther | Coppie: Merlino/Artù
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
A volte ritornano. Anche se a volte spariscono per mesi senza la capacità di buttar giù due righe, poi ritornano. E mediamente scrivono ventiquattro pagine di angst puro. (Ma chi li conosce lo sa.)

Disclaimer: nessuno dei personaggi citati in questa storia mi appartiene, cosa che non si può dire per le loro azioni. Non intendo in alcun modo mancare di rispetto a chi si sia mai trovato in una delle situazioni che descrivo, nè tantomeno causare reazioni negative nei lettori. Questa storia è la storia di tanti, è un esorcismo che faccio a me stessa, e non vuole essere altro che questo.


.
(un)broken.
 
For a star to be born, a nebula must collapse.
So collapse. Crumble.
This isn't your destruction.
This is your birth.

 
Erano già passati un paio di mesi da quando Merlin aveva iniziato a lavorare part-time alla Help Line organizzata dall’ala psichiatrica del West Albion Hospital. Gli era già successo di accorgersi con una punta di autorealizzazione delle lacrime che smettevano di scendere, di percepire il graduale stabilizzarsi del battito di un cuore, ma anche di sentirsi inutile, di sentire il tuu tuu tuu di una telefonata interrotta e dover rintracciare una chiamata finita male.
“Sono una persona orribile.”
Iniziava sempre così, più o meno. Nessuno che stesse tanto male da chiamare un estraneo con le cuffie sulle orecchie e solo un pochino più voglia degli altri di tenere attaccate alla vita le persone aveva un’opinione di sé più alta un velo di polvere. Merlin lo sapeva bene, e spesso si chiedeva perché cercasse con ogni mezzo in suo potere di tenere le persone dall’altro capo del telefono aggrappate alla più piccola scintilla di vita.
Forse perché, quando sei fatto di pezzi di puzzle, di macerie rimesse insieme con il nastro adesivo, vuoi davvero con tutto te stesso che nessun altro si senta mai allo stesso modo.
“Sei una persona fantastica. Qualunque cosa sia successo, puoi uscirne, lo so.”
Dall’altra parte del telefono, una pausa. Merlin fece compiere mezzo giro alla poltroncina girevole mentre aspettava gli insulti, le lacrime, altri insulti e tutto ciò a cui era abituato. Non era mai facile.
“Non mi conosci.”
Il ragazzo avrebbe avuto una bella voce. Arrochita dal pianto, ogni tanto spezzata ma così densa, piena. Era una voce che veniva voglia di abbracciare, ma Merlin sapeva che avrebbe dovuto fare tutto con una telefonata. Il suo scopo era sentire quella voce senza che coprisse un urlo soffocato.
“Non è vero. Cos’è stato?”
Silenzio.
“È stato nel bel mezzo della scena più comica di un film, quando tu invece volevi piangere? È stato quando hai guardato l’ora e hai realizzato che in ventun ore e quarantanove minuti di questa giornata non sei stato vivo nemmeno per un secondo? O quando hai tentato di uscire di casa e la realtà ti ha ricordato che non ne fai parte?”
Silenzio, quel silenzio di singhiozzi soffocati, quello che attraverso una cornetta odora di lacrime, e nella stessa stanza non sarebbe sopportabile.
Merlin aveva parlato di sé, come ogni volta che voleva provare a indovinare, ma sapeva in cuor suo di aver avuto ragione almeno a metà, e la pugnalata alla schiena non faceva meno male, anche se la ignorava.
“Tutto, e anche tutto il resto.”
“Dove sei?”
Merlin digrignò i denti alla sua stessa frase. Era una domanda di routine, una di quelle che si fanno per valutare se il proprietario del cellulare a numero privato di quella volta sta per buttarsi dal ponte di Blackfriars o per impregnare di sangue l’acqua della vasca da bagno, ma gli dava fastidio rivolgerla a quella voce.
Sembrava così vicina, quasi come se stesse per rispondergli “Sono qui, davanti a te, perché non mi abbracci? No, non toccarmi.
“Nella villa.”
“C’è qualcuno?”
Sapeva che non avrebbe significato niente, ma la routine diceva di chiedere della solitudine. Cazzata. Merlin sapeva per esperienza che, a meno di essere in un monolocale di otto metri quadri, la vicinanza di qualcuno non impediva niente.
E potevano essere vicini quanto volevano, ma in mezzo rimaneva sempre un muro di cemento ricoperto di filo spinato.
Ti prego, abbracciami.
Lo sto facendo.
Non sento niente.
“Mia sorella.”
Il primo passo era la risposta alla frase di circostanza. Non aveva pensato di dire neanche un ciao, ma aveva detto qualcosa, anziché riattaccare. Molte volte Merlin aveva detto le ultime parole al tuu tuu tuu di una cornetta accusatoria. Quel ragazzo dalla voce morbida e umida e distrutta aveva coraggio, il coraggio di ammettere di avere bisogno di qualcuno a cui appoggiarsi, ma anche l’orgoglio di odiare se stesso per quella necessità.
Il secondo passo era riconoscere che qualcosa non andava, che tutto non andava, e Merlin lo dipingeva sotto le macerie, soffocare le lacrime nel cuscino, sfuggire lo sguardo di quelle persone troppo reali, desiderare che ogni attimo della sua vita andasse in fiamme, scritto su una pergamena antica.
E poi il terzo, quel tono spezzato a metà, quel mia che suonava di qualcun altro, le parole rimaste bloccate a metà tra la laringe e la piena certezza che pronunciarle sarebbe l’ultimo dei desideri. La risposta.
“Sorellastra. Sta dormendo, credo. O è sgattaiolata fuori come al solito. Lei è quella che fa bella figura agli eventi di gala. Lei è quella perfetta.”
Quarto, il paragone, l’idea di perfezione, l’essere meno di qualcun altro o meno di chiunque, il leggero astio dietro i complimenti.
Quinto, respirare nel telefono, un respiro pesante ogni tre trattenuti, tentando di nascondersi dietro se stesso ancora per un po’, senza riuscire neanche a aprire gli occhi.
Merlin lo aspettava e basta. Era quello che doveva fare.
Lo immaginò, lui e la sua villa, i suoi abiti scuri agli eventi di gala.
Con ogni probabilità, conoscendolo in qualsiasi altro contesto l’avrebbe odiato. Ricco di famiglia e cresciuto tra circoli del golf e gabbie dorate, a distribuire i soldi di papà a concessionarie e club altolocati.
Non gli avrebbe dato neanche mezzo neurone.
E si sarebbe sbagliato.
 
***
 
Ventidue telefonate.
Merlin le aveva contate, come uno scoiattolo ad Hyde Park avrebbe contato le noci, anche quelle che non riusciva a sgusciare. Aveva contato anche quelle che finivano con Arthur che gli sbatteva il telefono in faccia, perché non poteva capire.
Undici ore. Circa.
Aveva contato anche quelle, come contava i giorni in cui riusciva a mangiare, in cui non si chiudeva in bagno a chiave a vomitare. Almeno, con le ore, non doveva ogni volta ricominciare da capo.
Seicentosessanta minuti, ognuno diverso, ognuno una sfumatura, un punto interrogativo, il segno di un’unghia sul palmo della mano. In ognuno di quei minuti avrebbe desiderato abbracciare Arthur, poi prenderlo a schiaffi, poi stringerlo fino a farlo addormentare, fargli sbattere la testa contro il muro, caricarlo sul dorso di un drago e portarlo via.
Non aveva mai fatto nessuna di queste cose.
Ma sentire ogni giorno la sua voce, sentire Gwen e Lance digitare il numero del suo interno dopo aver detto te lo passo, salutarlo ogni volta con la voce più leggera, non era niente, ma era abbastanza.
 
***
 
“L’ha rifatto. È entrato nel mio ufficio senza bussare, mi ha sbattuto sulla scrivania una pila di fogli che non ho potuto guardare, dovevo ascoltare lui che mi diceva quanto la mia politica aziendale facesse schifo e quanto non fossi degno di essere lì.”
Non aveva fatto in tempo a rispondere con la frase d’attacco dell’Help Line, quasi neanche ad avvicinare la cornetta all’orecchio. Quella voce, la stessa voce di qualche sera prima, si era fatta strada fino alle sue orecchie urgentemente, quasi con prepotenza.
Era una voce a cui non importava del conforto, di un’altra voce che le facesse eco lungo un filo, di ogni sorta di riscontro. Una voce che voleva soltanto esistere fuori dalla propria testa.
“Non c’era il minimo difetto. Un incremento dell’1.9%, è qualcosa di incredibile.”
Merlin non sapeva cosa volesse dire. Le pagine di borsa sui giornali erano arabe come i numeri che le costellavano, e non aveva mai avuto interesse negli zeri delle percentuali. Ma il modo in cui ne parlava, in cui continuava a parlarne snocciolando dati e quote, somigliava tanto ai raggi di sole che filtrano tra le nuvole.
Prima di un uragano.
“Ed era tutto una conseguenza dei miei progetti, i miei. Ma appunto per questo non andava bene.”
Una pausa, ma Merlin non lo interruppe. Non faceva parte della routine, ma sentiva che se avesse parlato non avrebbe avuto che un segnale di occupato dall’altro capo del filo.
Interrompere qualcuno che raccoglie le proprie idee portava quasi sempre a fargliele cadere tutte a terra.
“Non andava bene che avessi aumentato le tredicesime al personale e devoluto una quota parte in beneficienza. Non andava bene che avessi fatto tutto quello che aveva chiesto, ma non come voleva lui. A quanto pare sono l’alternativa peggiore che avrebbe potuto capitargli come figlio. E a quanto pare ha cancellato ogni cosa che ho fatto.”
Avrebbe potuto dire con quasi totale sicurezza che non stava piangendo. Erano più quei singhiozzi rochi di chi non riesce a versare una lacrima, e le sente all’altezza del petto, infrangersi come il mare contro gli scogli, venire ricacciate indietro.
Merlin pensò che avrebbe voluto stringerlo, sentirlo sobbalzare tra le sue braccia, l’eco dei suoi battiti nella propria cassa toracica vuota.
“Mithian mi ha portato il thè quando se n’è andato. Era qualcosa al gelsomino. Non l’ha detto, ma deve averlo sentito urlare dal fondo del corridoio.”
“Se n’è andato. Se n’è andato, e un giorno, appena riuscirai, te ne andrai tu. Un giorno gli dirai addio con le valigie in mano, o non gli dirai nulla, e saranno le ultime parole che gli avrai rivolto. Non deve andare in questo modo per sempre.”
Te ne andrai, e i demoni fuori di te rimarranno indietro, in mezzo alla polvere sollevata dalla tua auto in corsa.
“È mio padre.”
“Ed è quanto di più diverso possa esserci da te. Tu sei altruista, forte, indipendente. Non lasciare che lo cancelli, che cancelli te.”
Non ottenne risposta.
“Come ti chiami?”
La domanda gli sorse spontanea, immediatamente seguita dalla consapevolezza che se Gaius avesse ascoltato quella specifica conversazione lui avrebbe potuto dire addio al suo posto. Mai chiedere altro che le domande di routine, mai intromettersi, mai cercare di identificare chi, avendo chiamato un servizio anonimo, non vuole che i mostri nella sua testa siano altro che un identificativo di chiamata.
Lui era così, pensò Merlin in un lampo di pretesa onniscienza. Non avrebbe mai ammesso di fronte ai suoi amici dell’alta società londinese (per qualche motivo non aveva dubbi sull’agiata condizione economica del suo interlocutore, o forse si stava solo affezionando all’idea di lui che aveva costruito nella propria testa: la peggior forma di affetto possibile) di starsi inesorabilmente sbriciolando dietro la sua maschera di perfezione Burberry, ma il ritratto nascosto in soffitta era diventato insopportabile da guardare perfino per lui.
“Non devi rispondere, scusami, è stato invadente da parte mia.”
“Arthur.”
“Merlin.”
“Lo dici ogni volta che rispondi al telefono.”
“Cercavo solo di fare la persona normale.”
Le parole gli morirono in gola, la rappresentazione vocale di un diminuendo in musica. Era ormai stabilito che nessuno tra loro due fosse normale, ma Arthur non lo sapeva. Sapeva solo di non esserlo lui.
“Nessuno è normale, Arthur. La differenza è in quanto si riesce a fingere di esserlo.”
 
***
 
Merlin si guardò le cicatrici, chiedendosi se Arthur ne avesse, di che colore fosse la luce dei suoi occhi spenti. Perché sapeva che lo erano, nessuno porta quel dolore senza un segno, è solo che la gente che vive nello zucchero filato non lo nota.
Quella sulla mano destra era il segno dei denti sulle nocche, delle mille volte in cui aveva giurato che avrebbe smesso, di quelle in cui si era odiato quando non aveva smesso più.
Il sacco da fit boxe, avrebbe detto. Se qualcuno avesse chiesto.
Quelli erano i tagli verticali di quando divorandosi le unghie si era strappato la pelle quasi fino all’osso, e anche se in quel momento erano quasi lunghe, e riusciva quasi a suonare senza plettro quando la notte non poteva dormire, la sua pelle restava segnata come un campo di battaglia, una mappa di tutti i suoi giorni.
Migliaia di persone si mangiano le unghie, non c’è nulla di strano. Questo l’aveva invece detto parecchie volte.
E quelle scomparivano sotto i bracciali di cuoio e le maniche del maglione, e le stesse sbiancavano se possibile ancora di più la pelle della parte alta delle cosce, sotto i jeans attillati.
Quelle non le avrebbe mai potute giustificare, e sentirne il rilievo faceva ancora male.
Lui era un sopravvissuto a giorni alterni e un ipocrita a tempo pieno, era vero. Aveva mentito a Gaius, dicendo di non essere mai stato meglio, spinto dall’insano desiderio che almeno qualcun altro non facesse i suoi stessi errori, non soffrisse delle sue stesse fiamme avvolte attorno all’anima.
Chiuse gli occhi. Non piangeva da anni ormai, ma sempre più spesso sentiva i dotti lacrimali sul punto di esplodere, sentiva se stesso sul punto di implodere, come una supernova, trasformandosi in un buco nero che avrebbe risucchiato ogni traccia di luce dalla sua stessa vita.
Si era sentito così inutile, così incompleto quando Arthur aveva interrotto la comunicazione.
Merlin non era emotivo, non era empatico, non più: credeva semplicemente di aver staccato la spina ad ogni sorta di sentimento, per non fare troppo male a se stesso, ma quelle cicatrici rimanevano, e il ricordo di quanto si era odiato, ogni volta che asciugava le tracce di vomito dalle guance, dai capelli, si fondeva alla voce di Arthur, al respiro di Arthur, all’ “Ho ucciso mia madre, e mio padre sta uccidendo me.”, ma soprattutto al “Sono così egoista.”
Perché Merlin era egoista.
Era egoista nel bramare di rivedere le ossa quasi bucare la pelle tirata, nel volere almeno quel controllo sulla sua vita, lo era sempre stato. Ma più che in ogni altra cosa era egoista nel suo bisogno di sentire la voce di Arthur ogni giorno, di sapere che stava meglio, che stava meno peggio, e che era grazie a lui.
 
***
 
“Tutto quello che volevo era che mi dicesse che non avevo sbagliato.”
Immaginò Arthur disteso a fare flessioni in palestra, prendere a calci il sacco da boxe e acquisire tutta la massa muscolare possibile. Definito, scattante, una macchina da guerra. Lo immaginò capace di ogni cosa, ma incapace di affrontare suo padre, di rispondergli.
Quasi lo vide di fronte ai suoi occhi, ritrarsi di scatto al minimo gesto inconsulto da parte di chiunque, segnato, marchiato da tutte le volte in cui un movimento brusco non era stato soltanto uno spostamento d’aria, assordato da quelle grida ogniqualvolta qualcuno accanto a lui alzava troppo la voce.
“Nessuno ti chiede di essere perfetto, Arthur.”
“Non posso dirti che lo sei, così, per rassicurarti.”
“L’unica cosa che posso dirti è che ti è stata data questa vita. E prendi pure a parole il destino, sono il primo a porgerti il megafono, ma tutto quello che puoi fare è… essere te stesso. Essere la tua migliore versione possibile.”
“Mi hai fatto respirare ogni parola in questi mesi, Arthur, e posso assicurarti che non esiste nessuno come te. Ed è abbastanza.”
Lui non rispose, e Merlin vi era così abituato che lesse il suo silenzio come un libro, come un diario un po’ sfocato dalle impronte delle dita.
Neanche si stupiva più a quanto fosse semplice anche non parlare.
 
***
 
Merlin si rigirò nel letto per la quarantasettesima volta (le aveva davvero contate), quasi schiacciando il gatto che dormiva tra le sue coperte.
“Scusa, Kil.”
Sentiva le ossa del bacino premere contro il materasso non esattamente confortevole, lo stomaco in fiamme, gli occhi che pungevano disidratati.
Erano passati mesi da quando aveva smesso di piangere in risoluzione definitiva, ma in maniera perfettamente incoerente sentiva le lacrime accumulate all’altezza del lobo temporale, pronte ad investirlo come uno tsunami dall’interno.
Era ironico ed ipocrita, il fatto che lavorasse alla Help Line, e ancora peggio era il non poterla chiamare, l’essere costretto, proprio lui, a rimanere chiuso nel suo guscio, con Gwen di turno all’Albion che avrebbe riconosciuto la sua voce al primo singhiozzo, con Hunith addormentata e ignara nell’altra stanza, convinta o noncurante del suo stare bene, sotto l’effetto di qualsiasi cosa stesse prendendo in quel momento per non piangere la morte dell’amore della sua vita accaduta dieci anni prima.
La sensazione di pienezza bruciava, e sapeva che era troppo tardi, e aveva promesso non l’avrebbe più fatto, ma sapeva che avrebbe nuovamente perso il controllo.
Non quella sera ma forse il giorno dopo, o quello dopo ancora, la musica alta e l’acqua corrente, il bagno chiuso a chiave.
Kilgarrah picchiettò il naso contro l’esterno della sua coscia, desideroso di attenzioni, e Merlin batté le palpebre per un istante troppo lungo prima di accarezzarlo dietro le orecchie grigie, pensando che se le persone fossero state come i gatti un pasto troppo abbondante non gli avrebbe fatto perdere ogni stima di se stesso, e non sarebbe stato così devastante, così simile ad una morsa stretta intorno al corpo, cercare un riconoscimento che non gli era mai dovuto.
Così forte, così bravo ad esserne uscito del tutto.
Così bugiardo, così falso il suo sorriso, come il suo continuo rimarcare gli allenamenti in palestra e la dieta bilanciata, non parlando dei pasti saltati, degli “Oggi pranzo fuori” tradotti in un caffè, del nascondere le mani in fondo alle tasche dei jeans neri.
“Non sono chi dico di essere, gatto.”
Quello gli si appiattì addosso, una seconda pelle morbida e calda e pesante sulle sue ossa fragili, ma sempre troppo coperte di carne. Le fusa vibrarono attraverso i suoi tessuti tesi.
“Ma dovrò uscirne. L’ho già fatto una volta. Per mamma, per Gaius, per Gwen. Per me.”
Per Arthur.
Certo, come no.
Si alzò dal letto.
 
***
 
 “Non ho turni, la prossima settimana.”
Era periodo di esami, e Gaius gli aveva praticamente imposto di prendersi qualche giorno di ferie per il ripasso finale, perfettamente consapevole che si sarebbe trattato di studio matto e disperato dell’ultimo minuto. A niente erano valse le sue scuse, a niente il fatto innegabile che avrebbe preferito dare gli stessi esami dieci, quindici volte, se avesse significato far stare meglio Arthur.
Lui non rispose. Tutto quello che Merlin poté sentire fu il suo trattenere il respiro, come se la sua assenza lo gettasse dieci metri sott’acqua senza bombole, come se la sua voce fosse l’unica cosa ad impedirgli di annegare.
Fu il suo cuore a fare un tuffo quando si permise di pensare che fosse realmente così.
“Potrei… No, certo che no, non è professionale.”
“Cosa?”
Fu quel tono a fargli perdere ogni scrupolo, se mai ne avesse avuti: quel tono da bambino la mattina di Natale, da minuscola scintilla di speranza, da ultima cialdina di caffè quando si è sul punto di crollare sui libri.
“Potrei lasciarti il mio numero privato. Se avessi bisogno di parlarmi.” Si interruppe, il tempo di prendere un breve respiro, di ammettere a se stesso ciò che stava per sussurrare nella cornetta quasi fosse un segreto. E lo era, mantenuto davanti alla sua stessa mente. “Voglio che tu sappia che per te non ci sono turni. Che puoi chiamarmi anche alle cinque del mattino, con tre ore di sonno alle spalle e senza caffeina in circolo. Che ci sono, in ogni momento della mia vita.”
È il mio destino starti accanto, pensò, ma non lo disse, perché il destino era solo una scusa per giustificare le proprie azioni più insensate, perché Merlin non sapeva niente di destino.
Sapeva solo che Arthur era l’altra faccia di se stesso, l’altro capo di quell’intricato, autodistruttivo groviglio di emozioni, squilli, lacrime, battiti.
“D’accordo.”
 
04.41 From: UNKNOWN
Grazie.
 
04.48 To: Arthur
Anche quando mi interrompi i sogni? Non era nel contratto, ma farò un’eccezione.
 
04.50 From: Arthur
Mi dispiace :( Era un bel sogno?
 
Merlin preferì non dirgli quanti mesi erano passati dall’ultima volta che aveva dormito bene senza prendere quelle gocce dal sapore amaro di una domenica pomeriggio quando piove.
 
04.51 To: Arthur
Non migliore di sapere che va tutto bene.
Buonanotte, Arthur :)
 
05.12 From: Arthur
Buonanotte, Merlin.
 
***
 
Merlin prese un altro sorso di caffè.
Nero, come la sua anima.
Fece roteare la penna tra le dita, il moto incessante e sempre più veloce prima che cadesse sulla superficie bianco sporco del tavolo, facendogli sfuggire una risata amara.
Si morse il labbro.
Di tutte le diagnosi che aveva ricevuto, l’ADHD era l’unica che non gli era stata mai attribuita, ma in quel momento si sentiva sul punto di esplodere, voleva muoversi, urlare, e non ne sapeva il motivo.
Affondò i denti nel cappuccio della penna, marchi indelebili di irrequietezza celata. Anche male.
Nausea, vuoto, sovraccarico, il rumore troppo forte di altri studenti che giravano le pagine.
 
11.32 To: Arthur
Non penso sopravvivrò a questa sessione.
 
Lasciò vagare lo sguardo sulle proprie dita scheletriche intorno al telefono, sulle vene blu del polso che pulsavano lentamente al tocco, sulle braccia magre ma non abbastanza, mai abbastanza.
Ricacciò indietro quel pensiero.
Rischiava di essere meno sarcastico di quanto avesse previsto.
 
11.35 From: Arthur
Ogni volta che ti sento stai studiando. Credo in te. A meno che tu non ti interrompa per tutti quanto lo fai per me, ma preferisco essere speciale.
 
Il telefono era più pesante nelle sue mani, il polso più veloce, l’unica domanda e adesso cosa gli rispondo?
Riassaporò il caffè sulle labbra, amaro e forte, si chiese neanche per la prima volta come lo bevesse Arthur.
 
11.52 To: Arthur
Tu SEI speciale.
 
Neanche sapeva quanto.
 
 
***
 
21.59 From: Arthur
Come stai?
 
Merlin era sempre stato dell’idea che quella domanda, almeno in condizioni normali, fosse la combinazione di parole più ipocrita mai scritta.
Bene, avrebbe risposto, se non si fosse trattato di Arthur.
Non era più ottimista, neanche ci provava. Nulla sarebbe potuto andare peggio ed era sempre, sempre il giorno peggiore possibile. Fino al giorno dopo.
Benissimo, avrebbe aggiunto nella sua testa, non è assolutamente una serata di ricadute e phon acceso per coprire il rumore del riflesso vagale, non mi faccio per niente schifo per quello che ho appena fatto.
Non voleva neanche stare meglio. Aveva visto quanto avesse funzionato, fare quasi finta di guarire.
Voleva solo un corpo nuovo, un cervello nuovo, non esistere.
 
22.02 To: Arthur
Nuvoloso con un po’ di pioggia.
 
Forse un uragano.
 
***
 
20.57 To: Arthur
Non avresti dovuto farlo.
 
20.59 From: Arthur
Mi hai detto che non avevi cenato.
 
Merlin lanciò uno sguardo scettico al sacchetto di Starbucks che giaceva intonso nell’angolo della scrivania.
Si morse la pelle di una nocca, già scorticata dalla maniacale ripetizione di quel gesto, mentre con l’altra mano stringeva il cellulare fin quasi a sentirlo imprimersi indelebile nel palmo, con lo stesso inchiostro dei ricordi, lo stesso delle ferite aperte che bruciano con la sola aria.
Non lo voleva.
Non voleva nemmeno aprire la bocca, non voleva neanche un sorso d’acqua, stava bene, stava meglio quando gli girava la testa nell’alzarsi.
Tu non sai niente, Arthur.
 
21.00 From: Arthur
È la mia ordinazione preferita.
 
Sentì qualcosa rompersi, come spezzarglisi dentro, perdere sangue tra il cuore e la bocca dello stomaco. Nessuno di loro due sapeva niente, nemmeno lui stesso.
Sul bicchiere c’era scritto soy mocha. 77 calorie, conosceva il menu della caffetteria a memoria, i numeri impressi tanto a fondo nel suo cervello che avrebbe potuto tappezzarne le pareti come in A beautiful mind.
La caesar salad ne aveva 230.
Non ce l’avrebbe fatta, lo sapeva.
Si sarebbe infilato le dita in gola dopo neanche cinque minuti, deviando le sue chiamate in entrata al box di Gwen.
 
21.06 From: Arthur
In realtà, per me avrei ordinato dei muffin. E un caffè con molta panna sopra. Ma questa è una cosa sana, e tu per me sei la cosa più sana che ho in questo momento.
 
Era totalmente random, quella frase.
Priva di senso e grammaticamente scoordinata e talmente agrodolce da farlo star male.
Sorseggiò lentamente il caffè ancora tiepido, il sorso più piccolo che riusciva a dare.
Posso farlo.
 
21.09 To: Arthur
Grazie.
 
***
 
Avrebbe dato qualsiasi cosa per avere idea di che gli stesse passando per la testa. Qualsiasi.
Per farsi fare una risonanza al cranio e vedere esattamente quali aree, quali circonvoluzioni del suo cervello non stessero funzionando a dovere. Quali non facessero altro che scrivere il nome di Arthur con inchiostro sinaptico.
Troppo presto, troppo sbagliato, troppo tutto una sua fantasia, per l’innegabile fatto che il destino non esisteva, che due metà non facevano un intero ma un mucchio di cocci vicini.
Tutto nella sua testa.
Insieme alle voci.
Se solo non fossi così insignificante.
Se solo potessi piacere a qualcuno.
Se solo fossi qualcosa di più che un fallimento su tutta la linea.
Si alzò dal pavimento, scrollando a terra il tabacco rimastogli sulle gambe. Il telefono era immobile, senza alcun led che segnalasse che a qualcuno fregasse qualcosa. Che ad Arthur fregasse qualcosa.
Se solo chiunque al mondo non avesse avuto qualcosa di meglio da fare.
Se solo qualunque cosa al mondo non fosse stata migliore di lui.
Aprì il getto d’acqua per coprire il rumore. Hunith dormiva a due porte di distanza.
Chiuse la porta a chiave.
Le conosceva a memoria quelle piastrelle, da anni di guarigioni e ricadute, da anni di inferno e di cadute ancora più in basso. Le aveva macchiate più e più volte, di cibo, di sangue. Di lacrime, nel tempo in cui ancora riusciva a piangere.
Raschiò il dorso della mano contro i denti.
Naturale.
Ci pensò soltanto nel suo inconscio, senza elaborare. Perché era incapace di elaborare, c’era soltanto l’onda di piena, la travolgente sensazione di avere fisicamente bisogno di farlo.
Si compresse lo stomaco con l’altra mano.
Lacrime, lacrime, un riflesso nervoso. Non si sentiva triste, in quel momento, forse non si sentiva e basta.
Quasi si strozzò sulla sua stessa mano.
Quasi si fece più schifo di prima di iniziare.
Quasi.
Si buttò con tutta la testa sotto l’acqua del rubinetto, riemergendone con i capelli gocciolanti, l’odore e il sapore di acido solo leggermente meno intensi.
Se solo fosse bastato anche a lui per sparire.
 
***
 
03.37 From: Arthur
Se non mi senti domani è perché sono in post-sbronza sul pavimento di qualche bar.
 
Merlin si rigirò nel letto al suono fastidioso del telefono. Kilgarrah ai suoi piedi si stirò stizzito, senza però emettere alcun miagolio di risposta.
Non stava dormendo, sarebbe stata un’insperata parentesi di vuota serenità, ma l’sms aveva ugualmente interrotto i suoi pensieri che si muovevano dissonanti, andando a cozzare contro le pareti del cervello, non abbastanza elastiche. In effetti, forse non era stato un male.
Lo lesse strizzando gli occhi alla luce del maledetto telefono, cercando di fare mente locale su che giorno fosse, di che mese, su che pianeta.
Giovedì. Sedici aprile. Terra, probabilmente, senza escludere di essere stato catapultato in un episodio di Doctor Who.
 
03.41 To: Arthur
Non è passata l’ora di andare a letto?
 
03.41 From: Arthur
Nessun letto disponibile.
 
La testa gli girava in maniera indecente mentre cercava di mettersi a sedere contro la pila di cuscini, l’odore di acido ancora sulle mani da ore prima mentre toccava a caso lo schermo per far partire la chiamata.
La metà di uno squillo, neanche il tempo di associarlo ad una forma di rumore bianco.
“Arthur, dove sei?”
“All’Eight. Sul moorgate.”
La sua voce era liquida, di lacrime o di alcol o di entrambi.
“A quest’ora?”
Esci da questa casa è un ordine abbastanza chiaro.”
Si torturò le unghie con i denti, sentì il sapore metallico del sangue in bocca.
“Tua sorella?”
“Non lo so. Ma mio padre stravede per lei. Sono sempre lei e mio padre, e poi ci sono io.”
 
***
 
Era una bella giornata.
Con bella intendeva che non pioveva così da mesi e quasi non riusciva a vedere oltre i vetri, solo gocce e luci come uscite da una fotografia fuori fuoco.
Merlin abbassò gli occhi e si guardò le mani, quelle mani sottili e striate di blu, le mani di qualcuno che non era fatto per il colore e lo sapeva.
Un altro sorso di caffè ormai freddo, quel caffè americano senza zucchero che beveva perché quel giorno era l’unica cosa che si era concesso.
Un altro tiro di sigaretta, scivolò oltre la porta del balcone soffiando il fumo dalle narici.
Era troppo tardi per mangiare per quel giorno. E poi, cosa avrebbe meritato lui, con quelle ossa di nuovo sepolte, che non sembrava nemmeno più avere?
Mi manchi, Arthur.
Il mondo era il vuoto che si specchiava in quelle gocce opache.
Un tiro, quasi soffocò dal troppo fumo negli occhi. Un altro ancora, crampi allo stomaco, ma non gli poteva dispiacere, non gli poteva importare.
Arthur.
Spense la sigaretta nell’incavo del polso. Bruciò per un attimo, giusto il tempo di sentire qualcosa, e poi non fu altro che una ferita rossa brillante.
Il dolore era questione di voler essere umani.
Arthur.
Scusami.
Buttò il mozzicone oltre la balaustra, già spento dalla pioggia prima di toccare terra.
Decise che il mondo poteva andare a farsi fottere.
 
***
 
00.20 From: Arthur
Per inciso, non voglio che tu cambi. Voglio che tu sia sempre te stesso.
 
In qualche modo, Merlin sapeva che era il suo modo per dirgli grazie.
 
***
 
“Merlin?”
Quello era il tono di voce da fine della parte brutta della telefonata, da cessato allarme. Per lui era ogni volta come la voce registrata nella metro che annunciava la sua fermata, come il cartello London City Centre all’uscita dall’autostrada, come le porte dell’ascensore che si aprivano. Come casa.
Era la cosa meno professionale che avesse mai pensato, e si morse il labbro inferiore fin quasi a sanguinare, ma stava preoccupantemente iniziando a considerare quella voce casa.
“Sì?”
“Ci ho pensato, e credo che dovremmo incontrarci.”
Merlin interruppe il moto rotatorio della poltroncina così bruscamente che rischiò di essere gettato a terra dalla forza centrifuga.
“Arthur, io…”
Non posso, non è professionale, non voglio che tu mi veda per come sono realmente, non posso permettermi che mi conti i difetti, anche solo che arrivi ad uno.
Non posso, non sono pronto ad affrontare un sentimento che non saprei neppure definire.
“Non avrei dovuto chiederlo. Dopotutto è solo lavoro.”
Ancora una volta, il suo unico interlocutore fu il suono del telefono staccato, mentre scivolava nello spazio dove si nascondono i codardi e sussurrava mi dispiace.
 
***
 
C’erano due cose di cui Merlin aveva paura.
La prima, gli inizi. La seconda, i finali.
Li aveva avuti entrambi, ne aveva avuto la possibilità.
Incontrarci. In piena nonchalance. L’idea stessa di lui e Arthur, di loro due davanti a un caffè a parlare di tutto e niente, era qualcosa di incompatibile con la sua immagine, con la sua vita. Riusciva a visualizzarsi mentre si stringeva le gambe con le mani, mentre cercava con tutte le sue forze di essere inglobato dal maglione troppo grande e scomparire. Riusciva a sentire la sua testa esplodere, nel tentativo di capire cosa lui pensasse.
Non avrei dovuto. Ora visualizzava soltanto se stesso, ancora seduto a gambe incrociate, quasi annodate, sul suo pavimento, gli occhi vitrei e un po’ gonfi di lacrime che non scendevano, di lacrime di avremmo potuto mai successi. Vedeva le sue mani, in tempo reale, scendere a tormentare la pelle bianca e rovinata della cima delle cosce. Sentiva la sua testa esplodere, nel tentativo di capire cosa stesse pensando lui stesso.
Si alzò velocemente, come a voler fuggire, come sperando di non essere rincorso dai suoi stessi fantasmi.
Nonostante tutto, lo seguirono anche in bagno.
 
***
 
Merlin rispose al telefono della Help Line prima ancora che terminasse il primo squillo, tormentato dal desiderio bruciante di sentire Arthur dall’altro capo della linea, e allo stesso tempo sicuro che non l’avrebbe chiamato mai più.
“West Albion, dipartim…”
Non ebbe il tempo di finire la formula di risposta del centro.
“Scusami per quello che ho detto. Sono stato inopportuno. Ho bisogno di parlarti.”
Evidentemente, si sbagliava.
 “Non l’avevo mai saputo. Per tutto questo tempo ho pensato che non avesse un problema al mondo. Era di fronte ai miei occhi e io non ne ho mai saputo niente.
La sua voce era panico, era tempesta, era peggio della prima telefonata, di quasi tutte quelle che aveva mai ricevuto. Si spezzava nei punti sbagliati, con un’inflessione che mai avrebbe attribuito ad Arthur se ogni sua intonazione non fosse registrata su vinile nella sua mente da mesi.
Era la voce di chi aveva perso tutto, pur non avendo niente.
“Arthur, che cosa è successo?”
Stava piangendo. C’era una sfumatura d’acquarello tra i respiri affannati, una che non aveva mai sentito, frasi sfumate sul foglio, crepe sul muro.
Il solo pensiero di cosa l’avesse ridotto all’ombra di se stesso lasciò Merlin senza fiato per più di un attimo, le mani malferme sulla cornetta.
“Arthur ti prego parlami.”
Morgana.
Seppe cosa stava per dire prima ancora di sentirlo prendere fiato, e percepì le proprie stesse viscere attorcigliarsi, quasi sicuro che non le avrebbe più districate, che non avrebbe visto svanire per molto tempo i segni impressi dalle unghie dal bordo ruvido sul palmo della mano.
Era un argomento in cui si era imbattuto tante volte, da quando lavorava all’Albion, che gli aveva attraversato la strada come un fuoristrada irrispettoso delle precedenze in un giorno di pioggia, ma si era sempre asciugato dagli schizzi d’acqua, aveva sempre fatto in modo di coinvolgere le forze dell’ordine, di ricostruire gli argini degradati dalla piena.
Ma non si era mai trattato di qualcuno che conosceva.
Non si era mai trattato della sorella di Arthur.
 
Arthur!
 
Qualcuno aveva urlato a qualche porta di distanza dal microfono, e in ogni modo Merlin l’aveva sentito chiaramente. Era una voce diversa, dura, feroce, un tono che nessuno vorrebbe sentire nel momento in cui sta cercando di raccogliersi da terra, che poteva far smettere di respirare e farlo passare come un pessimo tentativo di recitazione.
Merlin ricordò che era qualcosa che il proprietario della voce aveva già fatto.
“Devo andare.”
“Arthur aspetta, non…”
Era la prima volta che riattaccava il telefono senza salutare.
Merlin contò ventisette tuu prima di riuscire effettivamente a posare la cornetta, scosso senza saper trovare un valido motivo, attaccato con i denti all’ingenua speranza di star reagendo in modo esagerato.
Attraversò a passo di marcia la piccola stanza destinata al centralino per quelle che gli parvero ore, la testa che iniziava a girargli da tutte le volte che si era voltato, o forse solo dal terrore di cosa potesse star accadendo in quel momento in una zona imprecisata di Londra, di cui tutto quello che immaginava erano le case indipendenti dalle facciate bianche con le semicolonne in rilievo, i giardini ben curati oltre le siepi di cinta, i rumori e l’eco delle urla riflessi dalle pareti di stanze enormi di un’altra epoca.
 
“Vieni subito qui!”
Arthur gettò le gambe oltre il bordo del letto, alzandosi a fatica, lasciando il cellulare ancora illuminato tra le pieghe del piumino che aveva quasi preso la sua forma.
Indossava la conseguenza dell’aver creduto di essere solo, una t-shirt e pantaloni della tuta, che ora stonavano con l’incontrare suo padre, con il bisogno fisico di essere impeccabile ai suoi occhi, con il fatto che fosse completamente svanito, superato dal desiderio di vederlo sparire per sempre.
Scese le scale, senza riuscire a pensare, senza elaborare niente di più coerente di un nome.
Morgana.
Morgana.
Morgana.
 
22.58 To: Arthur
Arthur cos’è successo?
 
Non riuscì a guardarlo, steso sul pavimento, il volto deformato dalle urla interrotte a pochi centimetri dalle scale, immobile nel punto in cui l’aveva colpito.
Sapeva che si sarebbe rialzato, che tutto sarebbe ricominciato, peggio che mai, da lì a poche ore, che non avrebbe potuto fermarlo, in nessun caso.
Le sue parole non facevano che rimbalzare sul marmo, tornare indietro più forti, amplificate, più vere ad ogni onda d’eco nella sua testa.
Non poteva neanche proteggere sua sorella.
Pensava davvero di riuscire a fermarlo?
Non era nient’altro che un abominio.
Tanto sapeva che gli piaceva.
Aveva ucciso sua madre.
Faceva schifo.
 
23.27 To: Arthur
Arthur rispondimi.
 
Arthur si chiuse la porta alle spalle, lentamente, come un automa, abbassando la maniglia per non sentirne in rumore.
Cosa aveva fatto.
Cosa non aveva fatto, per la sua intera vita.
Ogni movimento era troppo lento, quasi si trovasse in mezzo ad una sorta di gelatina che combatteva contro ogni mossa, ogni tentativo di ritrovare un soffio di umanità rimasta.
Carta e penna, un foglio A4 tanto bianco da accecarlo e la stilografica dorata che, così ironico, gli aveva dato proprio Uther.
 
23.39 To: Arthur
Ti prego.
 
Sottolineò l’ultimo ghirigoro della firma, il margine alto del foglio leggermente stropicciato dalla sua stretta nervosa, e la penna rotolò a terra con un tintinnio sinistro.
Vuoto, eco, anime dalle pareti lisce.
Il bicchiere era così pieno. Dalmore 40, era quello che aveva sempre bevuto Uther, ogni sera, prima di tirarlo giù dal letto per ricordargli quanto fosse un figlio indegno, quanto pesantemente calpestasse tutto ciò che lui aveva cresciuto.
Una goccia, due gocce, tre gocce.
L’elenco dei princìpi attivi era quasi cancellato dal liquido oleoso, e il gusto acre del delorazepam insieme al whiskey sapeva di scuse, sapeva di colpa, sapeva di resa.
 
***
 
Non aveva idea di dove vivesse.
Dio, non aveva idea di come si chiamasse di cognome.
Eppure aveva girato in bicicletta tutta la notte, senza giacca, senza fari, avere idea di cosa cercare, con la sola voce nella testa che ripeteva Arthur dove sei, Arthur che cazzo hai fatto.
Quando arrivò all’Albion erano le sette e diciannove del mattino. Non voleva mangiare, non voleva dormire, avrebbe fatto a meno anche di respirare ma il diaframma si muoveva da solo (troppo veloce, troppo poco regolarmente, troppo doloroso da sentire sotto gli addominali tirati).
Attraversò l’ospedale di corsa, con la testa che girava come lungo la parete di un vortice, trascinata verso il fondo inesorabilmente, fuori dal suo controllo come ogni cosa, come la vita stessa.
“Merlin? Non dovevi lavorare mercoledì?”
“Oggi è mercoledì.”
“Non mi inganni di nuovo, ragazzo, oggi è martedì. Cosa ci fai qui?”
Ho bisogno di aiuto.
“Merlin?”
La voce di Gwen interruppe la danza in circolo dei suoi punti interrogativi. Per un secondo.
“C’è qualcuno per te.”
Sentiva che sarebbe svenuto sul pavimento di lì a pochi istanti. Sentiva mancargli la terra sotto i piedi, l’aria nei polmoni, il sangue in circolo. Non sentiva niente. Ma si voltò.
Una donna dai capelli neri si stringeva in una vestaglia troppo grande, quasi raggomitolata su se stessa, ferita, nascosta, distante, eppure come dipinta sul quadro di una famiglia reale. I suoi occhi erano lucidi.
Merlin seppe chi era prima ancora di sentirla parlare.
 
***
 
“Nella sua stanza c’era questa. È indirizzata a te.”
Merlin sentì il blackout nella sua testa riaccendersi sconnessamente, di una luce flebile e lampeggiante come i neon prima di stabilizzarsi. O come le lampadine sul punto di bruciare, non avrebbe saputo distinguere.
“Penso sia meglio che tu la legga prima di entrare.”
Ma non ci sarebbe stato bisogno di dirlo, perché Merlin aveva già strappato la busta su un lato, già tirato fuori un foglio che sembrava finito sotto un treno.
 
Merlin,
Non penso nemmeno di sapere come iniziare questa lettera, o se sia giusto definirla tale. Sei tu quello dei bei discorsi, io non ho mai fatto altro che tirarti addosso tutto quello che avevo dentro, ma ci sono ancora troppe cose che vorrei dirti.
Non penso nemmeno di sapere come iniziare
È stata la tua voce, per tutti questi mesi, l’unico motivo per cui mi sforzavo di arrivare fino alla sera. Anche le tue battute idiote. E, anche per questo, la cosa che mi dispiace di più è il non averti detto addio.
Non ce l’ho fatta, e non ce la farò mai, e più di tutto mi dispiace di non potercela fare per te.
Vorrei poterti scrivere tutti i modi in cui mi hai salvato da me stesso, ma
 
Ma sei più di questa vita, Merlin. E questo è il motivo per cui non mi dispiace di averti salutato con un “Devo andare”. Perché, in un modo o nell’altro, in chissà quale universo parallelo, sentirò ancora la tua voce.
Volevo solo dirti che ti ringrazio.
Arthur
 
***
 
“Signor Emrys?”
Merlin si smosse dalla posizione fetale che aveva assunto sulle poltroncine di plastica blu, la cui forma sembrava essersi impressa nelle curve della sua schiena. La lettera di Arthur, ormai segnata dalle impronte dei suoi polpastrelli, scivolò di qualche centimetro prima che lui la afferrasse per l’angolo.
Sapeva di pendere dalle labbra dell’infermiera in blu mentre si stropicciava il volto, cercando invano di cancellare le tracce di sale lasciate da lacrime inevitabili.
“Come sta?”
“Può entrare a vederlo.”
Corse. Dodici passi verso la porta chiusa e le tendine tirate, il rumore sordo ed insignificante dello zaino di cuoio che scivolava al suolo dietro di lui.
Camera 513. Conosceva a memoria ogni graffio su quella targhetta. Vi si arrestò di fronte, bruscamente, quasi andandovi a finire contro, come fosse stata una barriera invisibile fra se stesso e qualunque cosa avrebbe trovato oltre.
Entrò nella stanza così lentamente da non sentire nemmeno di starsi muovendo.
C’era un borsone monogrammato sul tavolo mobile ai piedi del letto, un mazzo di fiori preconfezionato sul comodino, il cui linguaggio Merlin avrebbe potuto interpretare in “Facciamo parte del tuo ambiente di lavoro, non abbiamo idea di cosa sia successo, speriamo solo che tu torni presto o tutti i tuoi incarichi toccano a noi”.
Dal lato della stanza più lontano dalla porta, oltre un paravento aperto a metà, doveva esserci il letto di Morgana: il nome e i soldi dei Pendragon, pur grondanti di sangue, le consentivano almeno di non dormire da sola.
Il monitor pulsava imperterrito, quasi regolare. Un’onda bassa, una alta, una media, che Merlin aveva imparato a riconoscere. Sarebbe andato tutto bene, se solo non fosse non andato tutto bene.
Deglutì, la lettera di Arthur stretta in una mano umida di sudore freddo.
Il mazzo di fiori ne copriva un altro, più piccolo, più personale, di sei gigli dorati. Appoggiata al vaso, la foto incorniciata di un gruppo di ragazzi. Arthur era al centro. Sorrideva come Merlin avrebbe sempre voluto vederlo sorridere, luminoso e caldo e vero, con le fossette sulle guance e rughe di espressione intorno agli occhi. Capelli scompigliati del colore del grano maturo, una camicia blu scuro che metteva in risalto le iridi accese.
Merlin pensò al cielo delle rare giornate di sole, alle ombre sui ghiacciai innevati, alle ortensie all’inizio dell’estate.
Quell’azzurro era esattamente il colore dei suoi occhi.
Realizzò solo in quel momento di aver evitato ciò che aveva desiderato per tutto il tempo, dipingendo nella mente un ritratto di tutto ciò che in quella stanza non era totalmente antisettico e poteva dirgli qualcosa che ancora non sapeva di Arthur piuttosto che guardarlo davvero. Sentiva di avere paura di guardarlo mentre si sgretolava come le ultime polveri di un sogno, o di vederlo per la prima ed ultima volta in un letto d’ospedale.
Sembrava che dormisse, solo che al posto dei pupazzi usava complicati macchinari.
Merlin gli sfiorò l’indice della mano sinistra ingoiato dal pulsiossimetro, quasi invidiò l’abbraccio dei fili elettrici, delle flebo, desiderò in quell’istante come mai prima di sentire un suono lasciare quelle labbra dischiuse di qualche millimetro coperte dal respiratore.
Desiderò con tutto se stesso di vederlo aprire gli occhi.
Pensò a quella foto dall’inquadratura mal posizionata che lo fissava dal comodino, a pochi centimetri di distanza, al modo inesplicabile in cui il soggetto, l’intero soggetto, gli era così fortuitamente, improbabilmente familiare.
Ripensò ad una sera in cui Arthur non l’aveva chiamato, e a quella successiva in cui gli aveva raccontato di essere stato felice, e poi se ne era scusato.
Ripensò a lui stesso e Gwen in un pub, ad ignorare le calorie di un Midori dopo la fine del turno alla Help Line, a commentare un gruppo di ragazzi che ordinava birre a catena al tavolo accanto, lasciandosi andare a risate, pacche sulle spalle, spine staccate e cravatte allentate, gioia, vita.
Sì, è decisamente sexy. Ma io preferisco il biondo. Ha una luce negli occhi che… No, davvero, hai visto quel culo quando si è girato?
Chissà quanto se la tira.
Ripensò al centro di un arcobaleno, al mare sulle cartoline, al carbonchio del racconto di Conan Doyle.
Quell’azzurro era esattamente il colore dei suoi occhi.
E non era la prima volta che Merlin li vedeva.
 
 “Voglio raccontarti la prima volta che ci siamo incontrati.”
Ingenuamente, strinse l’intreccio delle loro dita, come se sperasse che la sua voce fosse servita a qualcosa, come se pensasse ancora che fosse possibile vivere in un film, come se non sapesse che il massimo che poteva ottenere era uno di quelli che fanno piangere dai titoli di testa in poi.
“Era un martedì, e pioveva.”
 
***
 
 “Non sono in condizioni di chiederti niente, lo so.”
“Ma ne ho bisogno, devo farlo. Ironicamente, sono io ad avere bisogno di te, ora.”
“Ho sempre avuto bisogno di te, anche prima di rendermene conto.”
Merlin realizzò in quel momento di avere cicatrici più profonde, più indelebili, mille volte più importanti di quelle ancora evidenti sulle mani, sulle braccia, sulle cosce. Erano le cicatrici dell’amare qualcuno più di quanto fosse possibile ad un cuore umano.
“Anche prima che mi chiamassi alla Help Line.”
“Devo chiederti una magia, Arthur.”
Dell’amare qualcuno che la morte poteva toccare.
“Un’ultima magia, Arthur. Per me.”
 “Non morire.”
 
***
 
Aprì gli occhi. Il mondo sembrava girare nel senso opposto, la gravità aver perso presa per far cadere quelli che camminavano a testa ingiù.
Luce, troppa luce, e troppi fiori che non avrebbe voluto, che non avrebbe accettato da chi non aveva niente a che vedere con le circostanze.
Indagò l’aria, l’odore antisettico e bianco di ospedale, il senso di ansietà che impregnava l’atmosfera.
Sentì il suono regolare dell’elettroencefalogramma. Bip. Bip. Bip.
La scritta ricamata sulle lenzuola ruvide ancora mai lavate gli urlava in corsivo West Albion, e contro ogni coerenza, senza neanche rendersene conto, ringraziò il destino di averlo fatto restare vivo.
Morgana era sul letto accanto, i capelli raccolti, le ginocchia catturate in un abbraccio, bloccate sotto il mento. Non l’avrebbe abbracciato, e lui non se lo sarebbe aspettato nemmeno in circostanze differenti, ma lo guardava come se non l’avesse mai visto prima di quel momento.
Come se fossero improvvisamente tornati ad essere fratelli.
Fece un cenno con il capo, ad indicare oltre le tende tirate, presumibilmente oltre la porta della stanza.
“La tua lettera è arrivata a destinazione.”
Il suono divenne improvvisamente meno cadenzato.
“Ti ha parlato, tutto il tempo.”
Improvvisamente, le sue orecchie si riempirono di parole a caso, parole che non aveva mai sentito, qualcosa a che vedere con il Sole nascente, qualcos’altro a che vedere col destino.
“Ti ha chiesto di non morire.”
Arthur sorrise.
“L’ho sentito.”
 
***
 
Era oltre quel vetro, così vicino che avrebbe potuto appoggiare il palmo della mano al suo, se solo si fosse voltato a guardarlo. Merlin si sentì quasi di troppo, guardando lui e Morgana, vedendoli stringersi come, era sicuro, non avevano mai fatto.
Allontanò la mano.
Non c’era posto, nella vita di Arthur, per un idiota che si era innamorato della sua voce frammentata, di ognuno dei pezzi di lui che spargeva sul pavimento. Non ora che poteva metterli insieme.
 
Morgana si allontanò improvvisamente dall’abbraccio, facendo scivolare la mano fino a stringergli il polso.
“È qui.”
 
Un ultimo sguardo, solo perché era così bello, ed era vivo e, Dio, sarebbe stato bene. Solo quello sguardo, e poi sarebbe sparito dalla sua vita.
Solo un ultimo sguardo che non credeva di vedersi ricambiato.
Un braccio, un vetro e pochi metri di distanza, un elettrocardiografo pulsante, occhi blu, blu, blu come il cielo quando è appena stata spazzata via dal vento una tempesta.
Arthur gli sorrise per la prima volta, un po’ inceppato, così luminoso, così suo, così reale che Merlin sentì quasi il bisogno di voltarsi.
Da qualche parte, in una scatola di puzzle che cadeva, due pezzi si attaccavano.

















 
  
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Merlin / Vai alla pagina dell'autore: luxuryloser