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Autore: The Writer Of The Stars    23/04/2015    4 recensioni
Se osservate una lapide, una bara o più semplicemente una lastra funebre, vi accorgerete di sicuro di una cosa. Ci sono un nome, un cognome, e due date. La data di nascita e quella di morte. Ma se osservate bene, c'è qualcosa in mezzo a queste due intoccabili cifre, qualcosa che divide il principio dalla fine. Un trattino. Un minuscolo ed insignificante trattino. E sapete cosa mi fa impazzire? Il fatto che la vita di un uomo sia riassunta in quella semplice lineetta. La crescita, gli sbagli,le esperienze, i dolori e le felicità ... sta tutto lì. Tutto quello che c'è stato in mezzo, dopo la nascita e prima della morte, è lì, rappresentato da un insignificante trattino. Tutti avremo un trattino, prima o poi.
Ma a volte, alcuni trattini sono troppo brevi. Tagliati a metà dopo pochi anni, scanditi da un incessante e angoscioso ticchettio di un metronomo abbandonato in terra ...
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A tutti coloro a cui la pazzia umana ha spezzato troppo in fretta il loro trattino rendendolo breve ... infinitamente breve.
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AU| Angst,drammatico. (Laura/Ross)
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Laura Marano, Ross Lynch
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Nota: ispirata ad una scena dell’ episodio 4X18 della serie televisiva Glee (sì, siete incappati in una Gleek, e anche bella sfegatata *-*). Molto angst e drammatico, facendo riferimento agli attacchi di gente armata nelle scuole americane. A voi "Shooting Star."
 
Alle 19,45 la famiglia Fabray si sedeva a tavola nella vasta sala da pranzo del super attico di loro proprietà a New York.

Alle 19,45 anche la famiglia Lopez si sedeva attorno al vecchio tavolino dalle gambe di legno traballanti nella stretta cucina del loro squallido monolocale nel quartiere spagnolo della Grande Mela.

Alle 19,50 la famiglia Fabray cominciava la propria cena, assaporando le portate della domestica Lorelayne, inserendo sprazzi di conversazione da ricconi con il loro tono di voce altolocato tra un boccone e l’altro.

Alle 19,50 Rosalinda poggia al centro del tavolo la vecchia pentola arrugginita da cui ricava la zuppa per i piatti dei suoi cinque figli e di suo marito, ammassati tutti intorno a lei, perché i Lopez sono una famiglia numerosa.

Alle 19,55 il signor Fabray chiede a Lorelayne di accendere la televisione per ascoltare le notizie al telegiornale, e la domestica obbedisce subito.

Alle 19,55 i piccoli Lopez ingaggiano una lotta con il cibo per ottenere il possesso del telecomando, che viene prontamente sottratto dalle loro manine paffute e unte dal signor Lopez, che voltandosi verso il minuscolo catorcio poggiato sulla mensola vicino al tavolo preme il pulsante d’accensione, e la televisione antiquata si illumina.

Alle 19,57 comincia il telegiornale e passano i titoli di apertura, mentre la giornalista comincia  a parlare a raffica e dopo poche frasi ha già il fiato corto, ma non si ferma, perché ha troppe cose importanti da dire.
 
Alle 19,58 anche i Lopez puntano sette paia di occhietti scuri sullo schermo dove la signorina bionda dall’espressione impassibile sembra stia per sciogliersi in lacrime per la notizia che sta riferendo.
 
“Ed è l’ennesima tragedia che colpisce le scuole americane. Questa mattina nell’istituto superiore “McKingley High School” hanno fatto irruzione due uomini armati e hanno preso a sparare per i corridoi e le aule piene di studenti. Delle trecento persone presenti nell’istituto 49 hanno perso la vita, tra cui sette insegnanti, due dei collaboratori scolastici e quaranta studenti … l’America è sotto choc.”
 
Sono le 19,59 quando la famiglia Fabray, la famiglia Lopez e tutti gli Stati Uniti restano immobili davanti alla televisione, mentre al posto dei crampi della fame un nodo allo stomaco si fa posto dentro di loro.
 

10 ore prima …

Ross si passò una mano sul volto, strofinando con vigore nel tentativo di scacciare il sonno. Forse era un idiota a restare alzato fino a tarda notte davanti al computer perdendo tempo con videogames online, ma era un’abitudine e aveva deciso che le abitudini del liceo sarebbero rimaste tali fino a quando le superiori non fossero finite e lui fosse andato al college. O da qualche altra parte. Mancava ancora un anno, era vero, ma sentiva già che il tempo rimastogli a disposizione in quella scuola stava per finire e non voleva abbandonare  quelle mura senza aver prima lasciato un segno del suo passaggio. Sbadigliò rumorosamente, portandosi una mano alla bocca troppo tardi perché potesse nascondere le tonsille che non aveva tolto a quattro anni. Gli occhi color del miele e pieni di sonno vagarono con lentezza per le pareti dell’aula canto, sorridendo dentro di sé. Non aveva mai creduto che fare parte di un Glee Club avrebbe potuto renderlo tanto felice ma diamine, lo era eccome adesso. Era entrato a farne parte un anno prima, quando dopo anni di chiusura il professor Hudson, vecchio membro del Club ai suoi tempi del liceo, aveva deciso che era ora di riaprire quella vecchia stanza piena di strumenti impolverati e di riportare in auge il Glee Club, allo stesso splendore di un tempo. Suonare gli piaceva, cantare anche, ed inoltre quello poteva essere un modo per “lasciare il segno” che tanto bramava. La prima riunione del Glee Club era stata alquanto imbarazzante, dal momento che si erano ritrovati solo in quattro all’appuntamento con lo speranzoso insegnante. Il Professor Hudson allora li aveva squadrati con un sorrisino speranzoso, incitandoli a presentarsi. Era stato lì che li aveva incontrati. Calum aveva i capelli rossi e nonostante sembrasse pazzo era davvero buffo. Raini era una latina dalle forme prosperose, con manie di protagonismo ed egocentrismo ad un livello quasi plateale, ma era simpatica. Laura era diversa. L’aveva incuriosita subito, con quel suo modo di starsene in disparte e di tenere lo sguardo basso, con quella gonna a scacchi, le ballerine sformate e i calzini fino al ginocchio. Parlava poco, quasi per niente, e quando lo faceva incespicava tra se, intrecciandosi con le sue stesse parole. Era stato strano allora sentirla cantare, il giorno successivo nell’aula canto. Era stato strano, ma era stato anche incredibile, perché la voce di Laura era qualcosa di talmente indescrivibile che lo aveva lasciato a bocca aperta dal primo istante. Allora le si era avvicinato poi, non appena era scappata dall’aula canto al suono della campanella. L’aveva stretta delicatamente per un braccio, come se avesse avuto paura di romperglielo, e le aveva chiesto se le andava di prendere qualcosa da bere insieme. Non avrebbe mai dimenticato allora quegli occhioni da cerbiatta color cioccolato spalancarsi confusi e quella voce leggera come una piuma chiedergli, triste:
“Perché proprio io?” e Ross era rimasto talmente tanto sorpreso da quelle parole e da quel tono di voce, che non era riuscito a fare nient’altro che guardarla allontanarsi a testa bassa, per la sua strada. Poi piano piano aveva capito che cosa Laura volesse dire. Quando il giorno dopo l’aveva vista entrare a scuola con un grande livido sul volto e i vestiti sporchi di granita alla fragola, aveva cominciato a rischiararsi le idee. Al liceo non c’è molto da fare; se nasci sfigato, resti sfigato. E se entri a far parte del Glee Club, allora sei proprio finito. Dai giorni successivi le granite in faccia aveva cominciato a prenderle anche lui, perché faceva parte di quel gruppo di “sfigati”, come dicevano i giocatori della squadra di football, e meritava di passare tra le vittime preferite dei bulli. Non si faceva mettere i piedi in testa, ma Laura era diversa, Laura era fragile, Laura non ce la faceva. Era così cominciato il piano “Lynch” , così lo aveva chiamato grazie al suo cognome, per cercare di aiutare la ragazzina dagli occhi color cioccolato. I miracoli non fanno parte di questo mondo, ma con l’aiuto di Ross, del Glee Club che nel frattempo cominciava a popolarsi di altri sfigati, Laura aveva cominciato a guardare la vita con occhi diversi. E quando avevano vinto le gare Provinciali di canto coreografato contro i Glee Club delle altre scuole, Ross aveva visto Laura sorridere come mai aveva fatto, e si era reso conto che probabilmente quel gruppo di losers e quell’auletta canto avevano una specie di effetto curativo fuori dal comune. E si era anche dimenticato tutto quando, dietro le quinte del teatro, Laura si era slanciata verso di lui, baciandolo con delicatezza sulle labbra, come a volerlo ringraziare.
 Era passato un anno da allora, e il Glee Club continuava ad andare avanti, e sebbene le granitate in faccia e gli atti di bullismo non cessassero, Ross sentiva che infondo quell’aula poteva essere davvero l’unico luogo dove sentirsi a casa in un mondo fatto di apparenze e popolarità.


Sorrise sornione, voltando poi il capo leggermente verso sinistra, dietro di lui. Qualche sedia più dietro, Laura se ne stava tra se e se, intenta a rileggere lo spartito del brano assegnato loro dal professor Hudson una settimana prima. Sorrise, estraniandosi dalle risate e dalle grida entusiaste degli altri ragazzi intenti a scherzare tra loro in attesa dell’arrivo del loro amato insegnante, alzandosi dalla sedia e avvicinandosi alla ragazza.

“Ma è possibile che tu debba sempre studiare?” la rimbeccò con tono dolce, abbassandosi alla sua altezza. Colta di sorpresa, Laura sobbalzò sul posto, lanciandogli un’occhiata colma di tenerezza.

“A differenza tua …” buttò lì con un tono leggermente accusatorio, distogliendo lo sguardo dai suoi lineamenti e riportandoli sugli spartiti poggiati sulle ginocchia nivee. Ross sorrise divertito, avvicinando il suo volto a quello della ragazza.

“Ahhh, ma lo sai che sei adorabile quando fai la maestrina?” le sussurrò in un orecchio con voce roca, ridacchiando leggermente e alitandole piano sul collo. Intravide le gote di Laura tingersi di rosso, e soddisfatto del risultato, avvicinò le labbra alla guancia candida della ragazza, posandole un delicato e casto bacio. Si rialzò sorridendo soddisfatto, sedendosi sulla sedia accanto a quella di Laura, ancora immobile per l’imbarazzo.

“Buongiorno ragazzi!” gli occhi di tutti saettarono allora verso la porta, scontrandosi con la figura allegra del Professor Hudson. Sorrisero tutti, pronti per rispondere al saluto.

Bam!

Ma non ce ne fu il tempo. Uno sparo. Il rumore di uno sparo riecheggiò per i corridoi semideserti dell’istituto, raggiungendo le classi piene di studenti e l’aula canto dove si sarebbe svolta la lezione del Glee Club. Ross spalancò gli occhi, terrorizzato, fissando il Professor Hudson.

Bam!

Un secondo sparo, e le grida dei ragazzi si alzarono per l’aula canto, dinanzi agli occhi sconvolti del professor Hudson, incredulo.

“Nascondetevi, nascondetevi!” li incitò gridando agitato, nel tentativo di portare la calma. Ma non era possibile.

“Ross, Calum, aiutatemi a spostare questo armadio davanti alla porta!” disse allarmato, e aiutato dai due ragazzi sbarrò la porta d’ingresso dell’aula. Ross corse a nascondersi dietro al
vecchio pianoforte, dove aveva intravisto spuntare le ballerine azzurre di Laura.

“Ross!” esclamò a mezza voce la ragazza, vedendolo sedersi al suo fianco. Ross la guardò negli occhi, stringendola a se nel tentativo di rassicurarla. Ne erano successe troppe di situazioni così negli Stati Uniti durante gli ultimi anni, e sapevano tutti cosa sarebbe accaduto. Il Professor Hudson si lasciò scivolare contro lo stipite della porta, sedendosi in terra.

“Fate silenzio!” esclamò a bassa voce, lanciando un’occhiata preoccupata ai ragazzi nascosti dietro gli strumenti. Li osservò tremare, rendendosi conto che alcuni di loro avevano preso a piangere. Si portò la testa tra le mani, chiedendosi perché dovesse accadere proprio quel giorno, in quella scuola, proprio a loro. Nella foga di nascondersi e di sbarrare la porta, dal pianoforte era caduto il vecchio metronomo, amico fedele del professore. Riversato in terra, lo strumento ticchettava con regolare costanza, tenendo il ritmo della tensione e rendendo la situazione più angosciosa di quanto non fosse già.

Tic, tac … tic,tac

 Per il corridoio si udirono dei passi veloci, una corsa, e sentendoli passare vicino alla loro porta i ragazzi serrarono gli occhi, ricacciando le lacrime e pregando che il pazzo con la pistola tra le mani non si accorgesse di quell’auletta dimenticata da Dio.

“Ross …”

“Shh!” la zittì subito, preoccupato. Laura affondò il capo nel petto di Ross, nascondendo il viso tra le pieghe della maglia.

“Mia madre!” esclamò d’un tratto a mezza voce. Ross spalancò gli occhi, fissando Laura senza parlare. La madre di Laura lavorava nella cucina della scuola, era un’inserviente della mensa. Era una donna dalla corporatura obesa, che la rendeva vittima di derisioni da parte degli studenti che frequentavano la mensa, ed inoltre era povera. Laura e sua madre non avevano molto, poco niente in verità, e Ross sapeva quanto quel lavoro fosse importante per la madre della ragazza. Era una persona meravigliosa, gentile e sempre disposta a porgere l’altra guancia, se una veniva schiaffeggiata con violenza, e per Laura quella era l’unica persona che potesse chiamare famiglia.

“Non c’è alcuna via d’uscita d’emergenza nella cucina!” esclamò Laura con voce rotta, portandosi la testa tra le mani e prendendo a scuoterla violentemente.

“Ragazzi inviate messaggi, tweet, qualunque cosa, dobbiamo far sapere là fuori cosa sta accadendo. Ma non dite dove ci troviamo! Anche i criminali hanno i cellulari …” disse agitato il Professor Hudson, lanciando occhiate preoccupate ai ragazzi. Ross estrasse il proprio smartphone dalla tasca dei jeans, respirando pesantemente e aprendo la schermata dei messaggi. Intravide la figura di Laura al suo fianco china sul suo cellulare, tremante e respirando a malapena.

“A chi stai scrivendo?” le chiese allora a bassa voce. Le dita di Laura si muovevano tremanti sullo schermo del telefono, mentre incontrollabili lacrime solcavano il suo volto di porcellana.

“A mia madre …” rispose a malapena.

“Non so perché non mi risponde …” sussurrò poi in un misto di voce e lacrime, mentre il suo labbro inferiore tremava paurosamente.

“Sta bene, ne sono convinto. Le vogliono tutti bene, non le succederà nulla …” sussurrò Ross nel tentativo di calmarla, percependo invece la sua voce spezzarsi per le lacrime. Non gli era mai capitato di piangere davanti a qualcuno, ma in quel momento percepiva tremendamente il suo destino farsi sempre più vicino, lo spirito della morte si era abbattuto in quell’aula con una forza spaventosa, lasciando tutti loro col fiato sospeso.

Tic, tac … tic, tac

E intanto, il metronomo abbandonato in terra, al centro dell’aula, continuava a ticchettare.
 
La signora Marano alzò leggermente la testa, udendo una vibrazione risuonare per la cucina deserta. Osservò inerte il cellulare, lacrimando senza singhiozzare. Si era accucciata in un angolino della cucina, proprio vicino al ripiano cottura, non appena aveva udito gli spari, quando era intenta a preparare il cibo per la mensa di quel giorno. Non aveva nemmeno fatto in tempo a spegnere il fornello, così la pasta continuava la sua cottura all’interno dell’enorme pentola. D’un tratto uno sbuffo di vapore fuoriuscì dall’utensile e la signora Marano serrò gli occhi con forza, pregando perché nessuno si accorgesse di quella cucina e perché la sua bambina stesse bene.
 

Ross strinse il cellulare tra le sue mani, guardando ora Laura rannicchiata al suo fianco, ora gli altri membri del Glee Club, sparpagliati e nascosti nell’aula, tremare terrorizzati.  Calum era seduto dinanzi a lui, almeno fino a pochi secondi prima.

“Calum!” sobbalzò all’udire il grido smorzato del professor Hudson. Riportò lo sguardo dinanzi a sé, scoprendo il suo migliore amico alzarsi in piedi agitato e correre verso la porta.

“Che stai facendo?!” lo rimproverò il professore, afferrandolo per un braccio.

“Sentite, devo andare, Raini è rimasta in bagno, è da sola, non posso lasciarla lì …” vomitò tutto d’un fiato il ragazzo, cercando di divincolarsi dalla stretta del professore.

“Calum fermo! Fermati!”  lo intimò il suo insegnante, placcandolo nel tentativo di fermarlo. Ross si alzò subito, accorrendo in aiuto del professore.

“Lasciatemi andare, devo andare da lei!” gridò il rosso alche Ross gli tappò immediatamente la bocca con una mano, terrorizzato dalla prospettiva di essere scoperti.

“Calum! Calum, smettila! Stai mettendo la vita di tutti quanti in pericolo! Guarda loro; guarda loro!” lo intimò duramente il professor Hudson ad un orecchio, sentendo l’adrenalina salire alle stelle. A quelle parole il ragazzo sembrò calmarsi, smettendo di agitarsi e liberandosi dalla presa dei due si lasciò cadere in terra, tornando a sedersi dietro il pianoforte, come poco prima. Ross lo raggiunse subito, accucciandosi nuovamente al fianco di Laura. Fissò il rossastro davanti a lui prendersi il viso tra le mani e cominciare a piangere sommessamente, cercando di non fare rumore. E realizzò in quel momento che Calum aveva ragione: Raini si trovava in bagno al momento degli spari e ciò significava solo una cosa: era ancora lì. Da sola.
 

Il rumore dell’acqua scrosciante riempì il bagno dove una doccia era rimasta aperta, causando l’unico rumore udibile. Chiusa in un minuscolo gabinetto, Raini se ne stava accucciata in ginocchio sopra alla tazza dal coperchio abbassato. Chinò il capo, cominciando a singhiozzare piano, tirando di tanto in tanto su col naso. D’un tratto udì un porta nei paraggi spalancarsi e subito serrò gli occhi, trattenendo il respiro e un singhiozzo. Era sola. Maledettamente e tremendamente sola. E per quanto fosse sempre stata una delle persone più indipendenti e sicure di sé del Glee Club, si rese conto che la morte era vicina e che l’avrebbe colta proprio lì, in un misero gabinetto maleodorante. Da sola.
 

Ross respirò a fondo per una decina di volte, tirando su col naso e fregandosene delle lacrime che stava versando da troppo tempo ormai. Si strinse maggiormente le gambe contro il petto, lanciando per un attimo uno sguardo a Laura, che con il capo chino sulle ginocchia non riusciva a smettere di piangere e tremare. Nessuno aveva detto cosa fosse successo in verità, ma era chiaro come il sole ciò che stava accadendo. L’ennesimo attacco di qualche psicopatico armato ad una scuola americana. Ross ne aveva sentite tante di storie così ma mai, mai avrebbe pensato che sarebbe accaduto proprio a lui. Per un attimo udì un silenzioso bip e voltandosi in direzione di Calum lo trovò con la sua amata videocamera in mano, intento a puntare l’obbiettivo su di lui.

“Che stai facendo?” chiese in un sussurro, osservando il volto del suo migliore amico provato dalle lacrime ma nonostante ciò ancora forte.

“Se non usciamo vivi da qui, la gente dovrà vedere questo.” Spiegò con voce tremante. Ross alzò gli occhi verso l’alto, chiudendoli per lasciar scorrere le lacrime.

Tic tac … tic tac

Per diversi secondi non si udì alcun rumore, se non quel maledetto metronomo che non aveva smesso un solo secondo di scandire il tempo con il suo ticchettio regolare, angosciante. Sembrava quasi che quello, uno strumento tipico della musica, volesse segnare anche quella volta il tempo rimasto a quei ragazzi che della musica avevano fatto la loro ancora di salvezza, in quella vecchia, polverosa e bellissima aula canto.

“Qualcuno vuole dire qualcosa?” chiese il rosso, ingoiando un grosso groppo di saliva.

“S –si, io.” esclamò a mezza voce Laura. Ross sobbalzò sorpreso, osservando Calum puntare la telecamera in direzione della sua ragazza. Laura prese un respiro profondo, sfregandosi una mano sul volto nel tentativo di asciugare le lacrime.

“C’ è un cassetto segreto nella mia scrivania … se guardate lì sotto, uhm …” sospirò, abbassando per un attimo lo sguardo per poi rialzarlo sulla telecamera in attesa dinanzi a lei.

“C’è un quaderno con un mucchio di canzoni che ho scritto … e non l’ho mai detto a nessuno, ma ne sono molto fiera …” ammise annuendo col capo, mentre gli occhi rossi di pianto non la smettevano di riversare lacrime sul suo volto diafano.

“I – io vorrei dire una cosa.” Esclamò d’un tratto Ross. Fissò l’obbiettivo della telecamera, mettendo su un minuscolo sorriso che cozzava terribilmente con i suoi occhi rossi dal pianto.

“Ti voglio bene, papà … e so che non te l’ho mai detto, ma mi hai insegnato davvero tanto … grazie.” Disse dolcemente, rivolgendo il suo ultimo messaggio all’unica persona a crescerlo dopo la morte della madre quando aveva solo sette anni.

“Spegni la telecamera, Calum, spegnila!” lo intimò con un sussurro il professor Hudson, appostato vicino alla porta serrata. Calum spense la videocamera, respirando profondamente e portandosi il volto tra le mani, pensando a Raini, in quel momento sola in un dannato bagno, senza che lui potesse fare nulla per salvarla.

Tic, tac … tic tac
 
Una porta si aprì cigolando e Raini spalancò gli occhi, trattenendo nuovamente il respiro. Udì alcuni passi ritmati percorrere il pavimento dinanzi a lei e non appena la persona dall’altra parte si fermò proprio davanti al bagno dove era chiusa, si sentì ad una passo dalla morte.

“Raini?” e poi una voce. Impiegò meno di un secondo per riconoscere la voce del professor Hudson richiamarla dolcemente, chiedendo se fosse lei lì dentro.

“Mr Hudson!” esclamò lei in un sussurro spezzato, liberandosi di un peso enorme. Spalancò immediatamente la porta, fiondandosi tra le bracci del professore dinanzi a lei, che la strinse con forza.

“Va tutto bene, va tutto bene …” le sussurrò all’orecchio nel tentativo di calmarla, mentre la ragazza riversava tonnellate di lacrime sulla sua spalla. Non era finita, non era affatto finita. Ma era riuscito ad uscire dall’aula e ad arrivare fino ai bagni dove Raini era rimasta, riportandola indietro con lui. Aveva fatto ciò che aveva vietato di fare a Calum, ma non gli importava se avesse perso la vita nel tentativo di salvare quella di una sua alunna, perché l’unica cosa che contava erano loro; i suoi ragazzi.
Il professor Hudson e Raini percorsero i corridoi deserti in punta di piedi, acquattandosi dietro ogni angolo, percorrendo con il cuore in gola e il terrore di venire beccati e uccisi proprio lì, il corridoio attraverso il quale avevano camminato migliaia di volte, nel bene e nel male.
 

“Mr Hudson! Raini!” esclamarono debolmente i ragazzi non appena i due fecero rientro nell’aula. Raini si gettò subito tra le braccia di Calum, sedendosi al suo fianco, mentre il professore chiuse nuovamente la porta, tirando un sospiro di sollievo. Ma quale sollievo, pensò. Non è finito niente.

Tic, tac … tic, tac
 


“Ross?” il ragazzo dagli occhi color del miele si voltò in direzione di quella voce, accorgendosi subito che fosse quella di Laura. La ragazza seduta al suo fianco lo fissava con gli occhi gonfi, il volto arrossato, la tensione a livelli insopportabili e un tremolio convulso a scuoterla.

“Ti amo tanto … e scusa se non te l’ho detto quasi mai …” ammise, prima di gettarsi di colpo tra le braccia di Ross, prendendo a singhiozzare sul suo petto. Il ragazzo la strinse, scuotendo il capo tra le lacrime.

“Ti amo anche io … ti amo, ti amo, ti amo …” ripeté Ross a bassa voce in una specie di litania angosciante, cullando la ragazza tra le sue braccia, nell’inutile tentativo di calmarla.

“I – io non voglio perdervi. Non voglio perdere tutto questo, siete la mia famiglia … non voglio morire …” sussurrò Laura col volto premuto al petto muscoloso di Ross. Il ragazzo serrò gli occhi, stringendola a sé più che poteva.

“No, no, piccola, non dirlo …” sussurrò piangendo. In quel momento, forse per la prima volta in quei suoi diciassette anni di vita, si chiese cosa ne aveva fatto della sua esistenza. Pensò subito a quella sua smania assurda di non voler finire la scuola senza lasciare un segno indelebile del suo passaggio, il suo desiderio di essere ricordato sempre e comunque, e per la prima volta si rese conto di essere stato un vero idiota. Probabilmente non sarebbe uscito vivo da lì e capì che dopo la sua morte, nessuno si sarebbe ricordato di lui. Suo padre, l’unica famiglia che aveva. E basta. Solo suo padre. Perché alla fine in quella scuola sarebbe passato solo come una delle tante altre giovani sfortunate vittime della pazzia umana, ma cosa poi? Degli studenti sopravvissuti nessuno avrebbe ricordato il proprio nome, quelli futuri non sarebbero mai venuti a conoscenza della sua esistenza. Fu in quel momento che pensò seriamente alla morte. Pensò a quella che sarebbe diventata la sua bara, immaginò la lapide in marmo bianca svettare anonimamente in mezzo a tutte le altre, diventando poi dimenticata da tutti e ricoperta d’ erbacce, e pensò al suo nome inciso sulla lastra di marmo insieme alla data di nascita e di morte.

 1997 – 2015.

 Nella sua mente presero vita quelle cifre ricamate a piccoli caratteri cubitali e dorati, e si focalizzò per un secondo su quel trattino. E se c’era una cosa che lo fece impazzire, fu quel trattino. Stava lì ad indicare quanto era durata la vita di un uomo, ma che altro? Tutta la sua vita, quella che stava in mezzo a quelle maledette cifre … tutto racchiuso lì, in un misero trattino. Un trattino. La sua vita era un breve ed insignificante trattino durato solo diciassette anni. Ma lui lo avrebbe voluto più lungo il suo trattino. In quella lineetta avrebbe voluto inserirci un contratto discografico, una carriera musicale, un matrimonio con Laura, dei figli, una famiglia. E invece no. Doveva accontentarsi di quegli incredibili e assurdi diciassette anni di vita, di cui forse solo gli ultimi due, gli anni passati nel Glee Club, erano stati davvero degni di essere vissuti.
Non era giusto. Non era giusto per niente.

Tic,tac … tic, tac

Osservò la chioma scura di Laura premuta contro il suo petto e fu mentre guardava quei capelli che profumavano di vaniglia che la porta dell’aula si spalancò di colpo, sfondata. Un grido generale si levò per la classe e Laura alzò subito lo sguardo, puntando gli occhioni color cioccolato in quelli di Ross, terrorizzati. Ross lanciò uno sguardo al professor Hudson, che adesso aveva una pistola puntata alla tempia e che nonostante fosse ad un secondo dalla fine non mancò di lanciare loro un ultimo sguardo carico d’amore, mimando con le labbra il suo ultimo: “Vi voglio bene, ragazzi.” Poi uno sparo. Ross non aveva avuto il coraggio di guardare e approfittò dei suoi ultimi cinque secondi di vita per baciare Laura, con dolcezza e impeto, con amore e disperazione, con rabbia e rassegnazione. Solo per un attimo, per un nanosecondo, intravide la figura di colui che stava strappando loro la vita, il futuro e tutti i sogni che sarebbero rimasti solo sogni. Aveva anche un passamontagna in testa e con un sorriso amaro, Ross constatò che non avrebbe nemmeno potuto vedere in faccia il suo assassino, senza affrontarlo in una silenziosa sfida di sguardi. Strinse con forza la mano di Laura, temendo di stritolargliela.

 E poi bum.

Fu un attimo.

Uno sparo.

E tutto divenne buio.
 
Tic, tac … tic, tac
 

“Via libera qui!” un agente di polizia spalancò la porta dell’aula canto di scatto, impugnando una pistola tra le mani. La abbassò subito, nel momento in cui si trovò dinanzi ad una delle scene più raccapriccianti che avesse mai visto. I cadaveri di decine di ragazzi erano riversi in terra, insieme a quello di un giovane insegnante di poco più di trent’anni. A passi lenti percorse la piccola aula piena di strumenti, scoprendo via via i corpi di quelle povere vittime e rischiando di scivolare sul pavimento cruento e impregnato di sangue. Un minuscolo sorriso di tenerezza e pena si formò agli angoli della bocca dell’agente, nel vedere due ragazzi, un ragazzo e una ragazza, riversi in terra dietro al pianoforte, una al fianco dell’altro. Osservò per diversi attimi le mani ancora intrecciate di quel giovane dai capelli biondi e della ragazzina mora, probabilmente la sua ragazza, che non si erano voluti separare  nemmeno di fronte alla morte, sentendo un enorme groppo salirgli alla gola.

Tic, tac … tic, tac

Alzò lo sguardo di scatto, attirato da quel rumore. Un ticchettio indistinto, lieve, flebile giunse alle sue orecchie, con un ritmo preciso ma lento … quasi angosciante. Scorse con gli occhi per tutta l’aula fino a quando, in un angolo del pavimento, avvistò un oggetto di legno non ben identificato. Si avvicinò con cautela, piegandosi poi in terra e raccogliendo l’oggetto che riconobbe come un metronomo. Osservò il vecchio apparecchio dal legno scalfito, l’asta che batteva il tempo senza sosta, sempre allo stesso modo.

Tic, tac … tic.

Con una mano fermò deciso l’avanzata dell’asta, mettendo a tacere quella nenia straziante. Il metronomo smise di ticchettare, il tic tac non scandiva più gli ultimi minuti di vita di quei ragazzi che avevano avuto solo la colpa di … già, quale colpa?

Con un colpo. Un solo colpo, unico e deciso. Il metronomo aveva smesso di ticchettare, così come i cuori di quei ragazzi avevano smesso di battere.
 
 

Nota autrice:
Ehm, buonasera. Sì, lo so che volete uccidermi. Sono una persona orribile, me ne rendo conto. Insomma, di tutte le storie che ho scritto su questi due … per ora non ce n’è una allegra. O con un lieto fine. E mi dispiace davvero per ‘sti poveri Cristi, perché nelle mie mani li sto praticamente distruggendo ma … non è colpa mia, è che sono brava a scrivere cose drammatiche. (Non sono una depressa/fanculo il mondo, tranquilli. ;) ) è solo che mi piace far soffrire i miei pupi (ecco forse sono sadica, sadica un po’ sì.) Bene, a parte la depressione che vi ho messo addosso … spero che la storia vi sia piaciuta. ;)
Alla prossima!
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