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Autore: Calliope49    28/04/2015    4 recensioni
*COMPLETA*
«Avete anche un nome, monsieur?»
«D’Artagnan».
Lei strinse appena le labbra. «Ah, siete quel d’Artagnan».
«Prego?»
«D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis. Treville vi nomina spesso - quando parla dei rischi per la sua salute, ad esempio».

Una calma insolita è piovuta su Parigi, ma la situazione non è destinata a durare. Strani incidenti, un omicidio e la comparsa di un misterioso bandito daranno filo da torcere agli uomini del re. Nel mezzo, una ragazza e troppe cose che non sono quello che sembrano…
[AthosXNuovoPersonaggio; Accenni Constagnan e Annamis]
[N.B. La storia non tiene conto degli sviluppi della seconda stagione perché è stata ideata prima che ne cominciassero gli episodi]
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Athos, Captain Treville, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'On the side of the angels '
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XIII
Sentori di tempesta

 
Trovarono Diane in mezzo alla strada, davanti alla porta di casa.
Treville strinse i pugni e il cuoio delle redini scricchiolò nella sua presa: l’unico gesto che tradì il suo nervosismo. Sua nipote non lo avrebbe mandato a chiamare se non fosse successo qualcosa di assai grave.
Scese rapido di sella e andò in contro alla ragazza. Lei era pallida, sembrava incapace di distogliere lo sguardo spento dalla porta chiusa davanti a sé.
Athos e Porthos si scambiarono un’occhiata allarmata. L’istinto li aveva abituati a fiutare i guai e quello che aleggiava nell’aria in quel momento era decisamente il sentore di una tragedia.
Diane si mosse con gesti lentissimi, quasi impacciati, per nascondere il capo nel petto del capitano. Teneva la testa china, le spalle leggermente curve, come se un peso la stesse opprimendo e fosse sul punto di spezzarla. I suoi occhi erano ancora fissi sulla porta, lo sgomento le aveva cucito le labbra ridotte a una fessura sul viso bianchissimo.
Treville le circondò le spalle con un braccio e indicò la porta con un cenno del capo, dando ai due moschettieri l’ordine silenzioso di andare a controllare cosa ci fosse lì dentro.
Porthos soffiò con le narici, nervoso. Qualsiasi cosa fosse, era qualcosa che avrebbero volentieri evitato di vedere.
All’interno la casa era fredda e buia, come disabitata. Sui due lati della cucina un po’ in disordine si aprivano le porte che immettevano nelle camere da letto, quella sulla sinistra era aperta, si vedeva la luce del sole filtrare fioca dagli scuri rimasti socchiusi.
Il silenzio gelido e quasi innaturale levigava i rumori, attutiva il suono incessante della città che proveniva dall’esterno.
Athos e Porthos si affacciarono oltre la porta aperta. Per un attimo, entrambi chiusero gli occhi.
Il volto di Porthos si fece cupo, irrigidito in un’espressione addolorata e indignata allo stesso tempo. Si mosse verso il letto e coprì il corpo  mezzo nudo della ragazza con il lenzuolo gualcito che pendeva da un angolo del materasso.
Athos le chiuse gli occhi, rimasti aperti come bocche che gridavano al vuoto. Sentì il gelo della pelle della morta anche attraverso i guanti, un senso di malessere gli formicolò nei muscoli.
Il sangue attorno alla ferita al petto si era già seccato in una chiazza scura, lì dove spuntava la lama sottile di una misericordia. 
«Diane l’ha trovata così» mormorò Porthos.
Persino per una ragazza abituata alla vista dei cadaveri quello era troppo.
Athos si rese conto di non riuscire a ricordare il nome della giovane e provò una rabbia sorda e cieca che per un istante gli annebbiò la vista. Tra tutte le morti e i tremendi incidenti di quelle ultime settimane, era come se ad ogni nuova scelleratezza un peso si aggiungesse alle sue spalle per trascinarlo a fondo. Ogni giorno che trascorreva senza che le loro indagini portassero a niente era un passo più vicino all’inferno.
Si accorse che Porthos era rimasto a fissare il pavimento, gli diede una leggera pacca sulla spalla per farlo riscuotere e gli fece cenno di tornare di fuori, dal capitano.
Treville sembrava ansioso di avere notizie. Diane non aveva ancora detto una parola e lui sembrava timoroso di farle domande, con lo stesso timore con cui si eviterebbe di destare un sonnambulo.
«È… è meglio che guardiate anche voi, signore» disse Porthos, incapace di ripetere a parole quello che aveva visto o forse solo per risparmiare a Diane una descrizione della scena che l’avrebbe perseguitata nei suoi incubi per molte notti a venire.
Il capitano si staccò piano da sua nipote. Per un attimo Athos temette che Diane sarebbe crollata in terra senza qualcuno a sostenerla, ma la ragazza rimase in piedi, immobile come quando l’avevano trovata.
Porthos le si avvicinò e le prese la mano. Athos aveva già in mente mille domande da farle, ma forse la silenziosa gentilezza del suo compagno era, al momento, la reazione più appropriata.
Treville spuntò dalla porta poco dopo, sporgendosi con il busto. Guardò sua nipote con un accenno di ira che non era rivolto a lei ma che appariva abbastanza spaventoso.
«Tu non resterai in questa casa un secondo di più!» disse secco. «Per adesso ti porto alla guarnigione, fino a quando non avremo capito cosa è successo qui».
Diane annuì, meccanicamente.
Quello che era successo era terribilmente chiaro. Ma di certo il capitano non poteva fare a meno di pensare quello che stava pensando anche Athos: cosa sarebbe successo se ci fosse stata anche Diane in casa, quando l’assassino della sua amica era venuto a farle visita? O semplicemente, cosa sarebbe successo se ci fosse stata lei al posto della ragazza bionda?
Il pensiero lo atterriva.
«Fate venire qualcuno a occuparsi di quella povera ragazza, non possiamo lasciarla così» disse poi Treville.
Quando Porthos lasciò la mano di Diane, lei sembrò riaversi.
«Le mie cose» mormorò.
«Che?»
«Non posso restare con questo addosso. Verrò dove vuoi, ma devo portare qualcosa con me, non ho intenzione di dover tornare qui dopo a fare i bagagli».
Il capitano la scrutò con un’occhiata che non aveva davvero l’ardire di essere severa, poi si passò una mano sul viso.
«Athos, va’ a prendere le cose di mia nipote» sbuffò.
Lei guardò il moschettiere con un’alzata di sopracciglio. Lo sgomento e il dolore le avevano portato via quell’aria da ragazzina sfacciata e le avevano spento lo sguardo, ma le occhiate di Diane erano comunque sempre molto eloquenti.
«Sono certa che lui sia troppo gentiluomo per mettersi a frugare nella mia biancheria». In un’altra circostanza ci sarebbe stata una nota di sarcasmo un po’ querulo in quelle parole, ora invece Diane le aveva pronunciate senza alcuna inflessione.
Treville alzò gli occhi al cielo. «Accompagnala, allora» si arrese, allargando le braccia.
Perché non può andarci Porthos?
Porthos era già salito a cavallo per andare a cercare qualcuno che si occupasse del cadavere.
Athos sospirò impercettibilmente. Entrò in casa e guardò che la porta della stanza della ragazza bionda fosse chiusa, non c’era proprio bisogno che Diane vedesse di nuovo quello spettacolo.
La nipote del capitano venne dietro di lui, lo sorpassò e si diresse verso quella che doveva essere la sua camera per poi rimanere ferma davanti alla porta, esitante.
«Permetti?» disse Athos in tono asciutto. La scansò e aprì, gettando un’occhiata all’interno per assicurarsi che non ci fossero brutte sorprese.
La stanza di Diane era un caos di vestiti sparsi ovunque, letto disfatto e libri lasciati alla rinfusa sul piano di uno scrittoio sotto la finestra, accanto a una ciotola sporca. Paradossalmente però vi aleggiava un buon odore di sapone, lo stesso che lui le aveva sentito addosso la sera prima, quando…
Diane gli passò davanti, sovrapponendosi tra lui e quello squarcio di normalità inattesa. Sembrava perfettamente a suo agio in mezzo a quella confusione, aprì un baule e ne estrasse una sacca da viaggio, la stessa che aveva portato con sé a Bourbon-les-eaux. Cominciò a riempire la sacca con alcuni dei vestiti sparsi in giro, ogni tanto ne annusava qualcuno e decideva di lasciarlo sul pavimento con un cenno negativo.
Si chinò, mettendosi in ginocchio accanto al baule e tirò fuori qualche fazzoletto e qualche piccola scatola che infilò nella sacca.
Athos cercava insistentemente di guardare altrove. Il dover supervisionare quell’operazione lo faceva sentire a disagio, o forse era solo l’idea di trovarsi da solo con lei.
Quando la struttura a travi del soffitto aveva ormai assorbito la sua completa attenzione, sentì dei singhiozzi. Si voltò per vedere Diane ancora in terra, con il viso nascosto tra le mani e le spalle scosse dal pianto.
Ci sarà del vino in questa casa?
Athos rimase sulla soglia, a rigirarsi il cappello tra le mani. Era normale che Diane cominciasse a crollare e forse sarebbe stato riguardoso non intromettersi in quel suo sfogo, ma il pianto non accennava a calmarsi e dopo qualche minuto il moschettiere cominciò a trovare insopportabile l’idea di quelle lacrime.
Si avvicinò alla ragazza e si chinò accanto a lei. Prese uno dei fazzoletti dalla sacca e glielo porse.
Diane lo prese con le dita che le tremavano, si asciugò gli occhi gonfi. «Scusa…» mormorò, le sillabe che le si accartocciavano in gola.
Athos scosse il capo come a dire che non c’era nulla di cui scusarsi. «Scusa tu» le disse.
No, non è questo il momento.
Diane lo guardò da sopra l’orlo ricamato del fazzoletto. «Cosa?»
«Lo sai. E io so che a volte ho un pessimo tempismo, lascia star-»
«Sì, un tempismo veramente idiota»
«Già. Scusa, in generale».
La ragazza si soffiò il naso con discrezione. «Scuse accettate, in generale» mormorò. Almeno aveva smesso di piangere.
Athos le posò una mano sulla spalla. «Andiamo» concluse. «Tuo zio vorrà portarti via e dobbiamo parlare di tutto questo».
Diane voltò piano il capo, a guardare in direzione della stanza della sua amica uccisa. «Hai ragione» ammise con un sospiro triste. Richiuse la sacca da viaggio già piena e Athos se la buttò in spalla.
Treville li stava aspettando sulla soglia della porta.
Da fuori, stavano arrivando altri moschettieri che scortavano il medico dell’obitorio alla guida di un carretto trascinato da un vecchio mulo.
Il capitano fece cenno ad Athos di sbrigarsi: non voleva che Diane restasse lì e vedesse il corpo della sua amica venir portato via.
La ragazza parve esitare e di nuovo il pianto le salì agli occhi, ma riuscì a trattenerlo. Treville la pilotò verso i cavalli.
Il corsiero fulvo del capitano si voltò verso di lei e mosse le orecchie pigramente. Diane tirò indietro la testa.
«Dio, devo trovare il tempo di insegnarti ad andare a cavallo» borbottò suo zio. 
Alla fine, si risolsero ad andare a piedi.
Diane restò muta, al fianco di suo zio per tutto il tragitto. Il bel vestito che aveva indossato quella mattina a corte sembrava stonare in mezzo alle vie dei quartieri popolari di Parigi. Ma anche l’intera giornata sembrava stonare, con il sole e con il pulsare vivo della città che continuava come se niente fosse successo.
«Nel mio ufficio» disse subito Treville, appena furono arrivati alla guarnigione. Lì trovarono Porthos e Aramis ad aspettarli con le facce impensierite, d’Artagnan era su una sedia sotto la finestra.
«Tu cosa ci fai in piedi?» gli disse Diane
«Non sono in piedi, sono seduto».
Aramis si parò davanti alla ragazza, le appoggiò la mano sulla guancia in un accenno di carezza. «Mi dispiace tanto, Diane».
La notizia dell’accaduto doveva essersi già diffusa alla guarnigione e presto avrebbe fatto eco per tutta Parigi.
La ragazza passò tutti loro in rassegna con lo sguardo. «Lo troverete, vero, quello che ha fatto questo?».
Ultimamente non sembravano neppure in grado di trovare le staffe per montare a cavallo, ma annuirono con convinzione, fosse stato anche solo per consolare Diane.
«Hai qualche idea su chi possa essere il responsabile?» domandò Treville, versando dell’acqua alla nipote - Athos era sinceramente convinto che del vino sarebbe stato più appropriato.
Diane si circondò il busto con le braccia, come se un’ondata di freddo l’avesse colta alla sprovvista.
«Nessuno. Marie era una sarta, conosceva un sacco di gente a Parigi, ma nessuna brutta compagnia».
Marie, ecco come si chiamava la giovane.
«La ragazza era molto bella, qualcuno l’ha notata, l’ha seguita a casa e…» Porthos fu incapace di continuare. Non ci sono parole belle o delicate o corrette per parlare di un abuso su una donna, meno che mai davanti a un’altra donna. «Voglio dire,» si corresse il moschettiere con un leggero colpo di tosse, «dev’essere stata una cosa mirata, la casa era in ordine, non erano ladri o simili».
«Il suo innamorato, non era quel Jean-Pierre?» domandò Aramis, retorico.
«Il braccio destro del conte Legrand» confermò d’Artagnan.
Athos fece scattare lo sguardo sui visi dei suoi compagni. Ancora una volta, il nome del conte veniva fuori nella discussione su un omicidio efferato, un omicidio che sembrava non avere niente a che fare con i suoi traffici, leciti o illeciti che fossero.
«Dov’è Jean-Pierre adesso?» domandò Athos. «Dovremmo quanto meno avvisarlo di quello che è successo e, magari, fargli qualche domanda».
Diane scosse il capo. «Jean-Pierre non c’entra, amava molto Marie, e comunque da qualche giorno è via da Parigi, credo che il conte lo abbia mandato a sbrigare qualche faccenda fuori città»
«Da quanto è via?»
«Credo sia partito il giorno dopo l’omicidio di Morice».
Marie. Morice. Il conte e il suo uomo. Omicidi. Più tutti questi avvenimenti apparivano scollegati tra loro, più veniva da pensare che ci fosse un nesso, un tassello del mosaico che loro ancora non avevano trovato ma che era lì, da qualche parte, l’ultimo pezzo che avrebbe dato un senso logico a quello strano disegno illeggibile.
«E se qualcuno avesse fatto del male a Marie per vendicarsi di Jean-Pierre?» disse Aramis con il tono enfatico di chi è stato appena colto da una rivelazione. «Jean-Pierre combina qualcosa. Il conte lo manda via da Parigi per far calmare le acque, ma quelli che ce l’hanno con lui si vendicano sulla sua amante».
Aveva senso. Athos ripensò suo malgrado alle condizioni in cui avevano trovato il corpo di Marie: uno sfregio, una vittima sull’altare della violenza. Se si fosse trattato solo di uno stupro, l’assassino non sarebbe stato così avventato da lasciare il corpo dove potesse essere facilmente recuperato, dove chiunque potesse vedere lo scempio. 
«E se Jean-Pierre fosse l’assassino di Morice?» domandò d’Artagnan.
«Questa è una teoria molto molto azzardata» rispose Treville.
«No, sentite, ha senso. Il conte ha dei traffici con Morice, Morice viene scoperto a causa dell’incendio nella casa e si viene a sapere che lo stiamo tenendo d’occhio. Il conte manda qualcuno a ucciderlo per paura che parli: Jean-Pierre, il suo fidato braccio destro. Ma sanno che la banda di criminali di Morice lo avrebbe scoperto o, almeno, lo avrebbe dedotto come stiamo facendo noi, e quindi il conte manda via Jean-Pierre, ma gli altri si vendicano sulla sua amante, in un modo disgustoso e plateale».
Athos si massaggiò la fronte. Aveva senso, aveva così senso da essere quasi troppo bello per essere vero: un collegamento logico tra tutti quei fatti orribili delle ultime settimane.
Morice prende la casa di Robert Bourell per darla al conte che ne ha bisogno per i lavori dell’ospedale. Bourell, che presumibilmente non è stato ancora pagato per la casa che ha venduto, va a protestare con gli uomini del conte - ora effettivo proprietario - ma questi lo uccidono per zittirlo. Morice ovviamente sa e, quando l’incendio alla casa con i fucili nascosti attira l’attenzione su di lui e suoi suoi traffici loschi, il conte manda il suo scagnozzo a ucciderlo.
Aveva tutto senso. Ma qualcosa ancora non quadrava.
Se il conte nascondeva tanto marciume dietro la sua aria da buon samaritano, perché nessuno se ne era mai accorto prima?
E il bandito? E le colombe?  
«Ha senso, no?» ripeté d’Artagnan, allargando gli occhi scuri alla ricerca di approvazione. Se potevano stabilire che Jean-Pierre era l’omicida che aveva fatto fuori Luc Morice, allora adesso sapevano anche chi era stato a sparargli e perché.
I moschettieri avevano conosciuto l’uomo del conte durante i lavori per l’allestimento del palco dell’inaugurazione. Forse lui temeva che il ragazzo potesse riconoscerlo in qualche modo e, preso alla sprovvista, aveva fatto fuoco… ma non lo aveva finito. Perché poi era arrivato il bandito e… cosa? Il bandito aveva salvato d’Artagnan? No, Athos rifiutava di crederlo. Forse l’arrivo del bandito aveva semplicemente messo in fuga l’omicida ed era stato un caso fortuito. Forse il bandito era in combutta con l’assassino.
«Però il bandito deve entrarci qualcosa» si lasciò sfuggire Athos.
«Forse fa parte di una banda criminale rivale a quella di Morice e non ha niente a che vedere con il conte» ipotizzò Porthos. Aramis annuì, d’accordo con questa teoria.
Athos continuava a pensare che non poteva essere così semplice, che quel criminale era proprio la cifra mancante che avrebbe fatto tornare i conti. Ma lui ne era vagamente ossessionato e forse non era il caso di insistere.
«Quindi adesso che facciamo?» chiese ancora d’Artagnan. «Interroghiamo il conte? Aspettiamo che Jean-Pierre torni a Parigi? Lo andiamo a cercare?»
«Tu non farai proprio niente che non sia startene a letto a riprenderti da quella ferita, intanto» lo ammonì Treville. «Non possiamo dare addosso al conte, dobbiamo trovare prove concrete, perché è un uomo troppo di riguardo e perché, se è davvero coinvolto come pensiamo, potrebbe far sparire tutte le prove prima che si riesca a montare un caso contro di lui»
«Però potremmo usare la morte di Marie come scusa per cercare di rintracciare Jean-Pierre» suggerì Aramis.
Treville si stropicciò gli occhi chiusi con la punta delle dita, stanco e impensierito. Athos si guardò intorno e si accorse che Diane non era più in mezzo a loro, la videro di spalle sulla soglia della porta che immetteva verso l’anticamera: stava tremando.
«Diane?» mormorò Porthos.
La ragazza si voltò appena. Aveva il viso arrossato e rigato di lacrime.
«Scusatemi…» biascicò con voce rotta. Sollevò l’orlo della gonna e si diresse a grandi passi fuori dall’ufficio, sbattendo la porta dietro di sé.
 
***
 
«Posso stare qui?»
«Con quel vestito?».
Ignorò l’osservazione di Serge e si accucciò in terra, sotto la scala che dalle cucine portava al soppalco dove erano conservate le scorte di cibo della guarnigione. Non c’era altro posto in tutta la caserma che non brulicasse di moschettieri e Diane aveva bisogno di stare un po’ in pace e in silenzio.
Era come se di colpo tutto fosse precipitato, una rete sul fianco della montagna si era spezzata e ora la frana rischiava di sommergere ogni cosa. Si sentiva trascinare giù, cadendo a valanga dall’alto della torre di segreti e macchinazioni che aveva eretto.
L’idea di quello che era successo a Marie le attraversava la mente come una lama, squarciando i pensieri razionali di cui ora avrebbe avuto bisogno.
Dei tre morti in mezzo a quella follia, due erano completamente innocenti. Una era sua amica.
Serge uscì dalle cucine reggendo un pentolone fumante con il rancio per i soldati. L’odore di minestra rimase ad aleggiare nella stanza.
Diane si alzò e afferrò la bottiglia di liquore che aveva scoperto da tempo nella credenza accanto al camino, si cercò un bicchiere pulito e si rintanò nel suo angolo di penombra, come un ratto.
Del resto, non era quello che aveva sempre fatto da quando era tornata a Parigi? Ancora prima di lasciare la casa di suo zio, ancora prima di immischiarsi nelle indagini dei moschettieri, era andata in giro a cercare informazioni, a cercare quello che le serviva per mettere in atto il suo piano. Ora il suo piano era già avviato e, forse per miracolo, stava funzionando, eppure qualcosa cominciava a farle male, fin dentro le ossa, come un’infezione.
Il liquore era scadente, quasi insapore, bruciava sulla lingua e nella gola come se fosse fatto di tante piccole lame che scivolavano giù tagliando e graffiando.
Al secondo bicchiere però sembrava già meno terribile.
Diane chiuse gli occhi e sentì una sensazione di calore salirle dallo stomaco alla testa; quando li riaprì vide lo sbuffo di stoffa di una gonna dal tessuto a fiori, si sporse appena con la testa oltre lo spiovente della scala.
«Vedo che a forza di frequentare moschettieri state prendendo qualcuna delle loro brutte abitudini» disse una voce femminile che la ragazza impiegò qualche istante a riconoscere.
«Madame Bonacieux».
Constance si chinò per guardare sotto la scala e abbozzò un sorriso un po’ mesto. «Possiamo parlare come persone normali o volete restarvene lì?»
«Non è che mi dispiacerebbe restarmene qui» sospirò Diane.
«Sciocchezze! Alzatevi». Constance si chinò e le strappò la bottiglia di mano.
La ragazza la guardò interdetta, poi guardò le due dita di liquore che erano rimaste nel bicchiere che ancora aveva con sé e le bevve di fretta, tutto d’un fiato, prima che la donna le portasse via anche quelle.
Sentì un leggero capogiro quando si rimise in piedi. Con cosa lo facevano quel liquore, con l’olio da lampada?
Madame Bonacieux scostò due sedie appoggiate vicino al tavolo ancora ingombro di resti di verdure tagliate e bucce di patate.
«Ho saputo di Marie» disse mesta la donna. «Me lo ha detto d’Artagnan».
Diane arricciò attorno alla punta delle dita un truciolo di buccia. Si chiese se il giovane moschettiere avesse detto proprio tutto a Constance.
«Non so neppure se avesse famiglia, qualcuno che devo avvisare…» sospirò la ragazza, sentì di nuovo il pianto salirle alla gola e spezzarle la voce. «Sono sempre stata per i fatti miei e non mi sono mai interessata a lei, eppure era così gentile… ha provato a essermi amica, mi ha rimediato dei lavori, mi ha aiutato…».
Constance prese le mani della ragazza da sopra al tavolo e gliele strinse con calore. «Non aveva famiglia. Conosceva un sacco di gente per il suo mestiere, ma di fatto era una ragazza piuttosto sola».
E da sola è morta. Perché non c’era nessuno a prendersi cura di lei.
Diane prese un lungo respiro. Evitò di scoppiare a piangere di nuovo, qualcosa nella stretta di Constance parve darle forza.
«Chi si occuperà del funerale, allora?» chiese.
Madame Bonacieux scosse il capo con una smorfia di rammarico.
«Me ne occuperò io» decise infine Diane.
Constance annuì. «Vi darò una mano».
«Non dovete, non occorre…»
«Ho trenta livree da parte» mormorò la donna con un sorriso triste riaffiorato da qualche parte dei suoi ricordi. «Le ho conservate per aiutare gli amici».
Diane capì che era inutile insistere e, alla fine, accettò l’aiuto della donna con un sorriso amichevole.
Athos entrò nelle cucine e si sporse per controllare come stavano procedendo le cose. Diane ebbe una mezza idea che fossero stati lui e gli altri tre a mandare Constance da lei.
Un “come stai?” rimase sospeso e muto sulle labbra e nello sguardo dell’uomo che lanciò un’occhiata alla bottiglia di liquore mezza vuota in un angolo; Diane gli restituì uno sguardo di sfida: “non azzardarti a commentare o te la spacco in testa”.
Il moschettiere si schiarì la voce. «Il capitano ti ha fatto preparare una stanza» annunciò.
«Bello. Ho sempre sognato di passare la notte in un presidio militare»
«Non vedo proprio dove altro tu possa stare senza che a Treville venga un colpo apoplettico. E non vogliamo che tu rimanga sola».
Non volete? 
«Quando è stato deciso che l’intero reggimento mi avrebbe adottata?»
«Stamattina hai detto al capitano che saresti andata ovunque lui avesse voluto»
«Stamattina gli stava per venire un infarto»
«Smettila, Diane…» 
«Può venire a stare da me» trillò Constance, intromettendosi ad alta voce nella discussione, poi arrossì leggermente e chinò il capo. «Ehm… la stanza è ancora vuota».
Quale stanza?
«Ho idea che vostro marito non apprezzerà una ragazza sola, per giunta imparentata con i moschettieri» osservò lui con calma.
«Ah, allora mi avete adottata davvero…». L’uomo zittì Diane con un’occhiataccia.
«Mio marito non le chiederà l’albero genealogico» rispose Constance, scrollando le spalle.
Il moschettiere sembrò cedere, alla fine sospirò stizzito e tornò a guardare la ragazza. «Molto bene. Ma lo dirai tu al capitano» concluse, fece per voltarsi ma poi si fermò. «Hai bisogno di qualcosa?»
«Sì, un becchino» dichiarò Diane con il volto che tornava a intristirsi. L’idea del corpo di Marie nudo su un tavolo di obitorio la faceva star male, le doveva almeno la dignità di un’appropriata sepoltura e la pace di un rito funebre. Forse dopo si sarebbe sentita un po’ più in pace anche lei.
«Un becchino» ripeté Athos. «Te ne cercherò uno»
«Grazie». 
Il moschettiere se ne andò senza aggiungere altro. Diane avvertì su di sé gli occhi di madame Bonacieux, lo sguardo comprensivo di chi osserva uno spettacolo che ha già visto. «Cosa c’è?» le chiese.
La donna scosse la testa. «Niente» si affrettò a dire. «Prendete le vostre cose, ci occuperemo del funerale e poi vi porterò a casa».
  

 
  
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