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Autore: Yoko Hogawa    30/04/2015    4 recensioni
Col senno di poi, D’Artagnan avrebbe riconosciuto quel momento come l’inizio di tutto ciò che accadde successivamente. L’origine di tutti i mali, delle scelte sbagliate e delle conseguenze irrimediabili. Quell’unico e solo attimo che avrebbe rimpianto fino al giorno della sua morte, rivivendolo nella mente più e più volte per cercare di capire cos’era andato storto e cosa poteva essere cambiato.
Cominciò tutto con una mano sulla sua spalla e una frase all’apparenza disinteressata. La mano in questione era quella di Rochefort. La frase una semplice osservazione.
« Re Luigi sembra dare molto peso alle vostre parole, giovane D’Artagnan ».
[Spoiler fino all'episodio 4 della seconda stagione]
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Athos, D'Artagnan, Rochefort, Un po' tutti
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Desclaimer: The Musketeers e i relativi personaggi non mi appartengono (peccato). È tutto proprietà della BBC e del caro vecchio Dumas. Io li uso solo per sfogare le mie manie da ficwriter seriale.
 
Note: prima di tutto ricordatevi questo: è una fanfic.
È essenziale.
Ci sono molte cose all’interno di questa fic, a livello canonico e storico, che non combaciano minimamente con la timeline del telefilm (e quella reale). Ho probabilmente esagerato col mio superpotere “piegare-il-canone-perché-mi-serve-che-sia-diverso” dunque chiedo scusa all’animo perfezionista dei lettori precisi e agli storici. Sono schifosamente contrita *si inchina*. A mia discolpa posso dire che ho cercato di modificare il minimo necessario.
 
Secondo: avvisi utili. Questa è una Athos/D’Artagnan. Perché sì, li shippo. Tantissimo. Forse troppo.
Si parlerà di guerra, morte, omicidio e violenza. Se qualcuno è infastidito da questi argomenti, è meglio che non legga.
La fanfic è settata intorno all’episodio 4 della seconda stagione.
Presenza di BAMF!D’Artagnan a vangate.
 
Un ringraziamento speciale va a Papysanzo89 per avermi sopportato prima e – soprattutto – durante la scrittura <3 e a Doctor Who per avermi prestato il titolo.
 
Fine dei convenevoli. Auguro a chi vorrà una buona lettura <3

 
 
 
 
 
 
 
 
 
P A R T E     I
 
 
D’Artagnan aveva pensato che se la vita aveva in serbo per lui altri momenti come quello, lui sarebbe stato felice di viverla in loro attesa. E che finalmente, finalmente, aveva trovato ciò che stava cercando da sempre.
Si era ritrovato fra le braccia di Athos senza nemmeno accorgersene. Dopo due giorni passati incatenato a Re Luigi, preda di rapitori e mercanti di schiavi e con la paura repressa – ma presente –  di finire dimenticato su di una galera spagnola, le uniche cose che era stato in grado di sussurrare ad Athos una volta tornato erano state delle scuse.
« Mi dispiace » aveva sussurrato sul suo collo mentre l’uomo lo teneva stretto a sé come se fosse qualcosa di prezioso e fragile al contempo. « Mi dispiace » e non sapeva nemmeno lui perché si stava scusando, ma gli sembrava l’unica cosa giusta da dire.
Allora Athos si era separato da lui quel tanto che bastava per prendergli il volto fra le mani e lo aveva guardato senza dire niente, lasciando parlare il suo silenzio, fiducioso che D’Artagnan avrebbe capito e aspettando una risposta a una domanda a cui non aveva bisogno di dare voce.
C’era qualcosa di più importante ed era proprio lì, in quei pochi centimetri che ancora li separavano. Nei lunghi sguardi quando l’altro non stava guardando, nei contatti rubati fra le loro dita passando all’altro un bicchiere di vino, o sopra l’elsa di un fioretto. Una danza di insicurezze e di malcelata attrazione che era cominciata un giorno per caso e che non era mai cessata, continuando a crescere in forza e desiderio, fino a consumare entrambi loro e le persone che stavano loro intorno e che assistevano a quel gioco maldestro e senza regole.
Aramis e Porthos erano i suoi fratelli d’arme e D’Artagnan li amava come se fossero davvero cresciuti insieme, ma Athos era qualcosa di più, qualcosa che aveva imparato a non desiderare, ritenendola impossibile da realizzare. Il cuore di Athos era stato frantumato e rimesso insieme alla bene e meglio e la speranza che quel cuore potesse appartenere a lui, un giorno, D’Artagnan non poteva permettersela.
Eppure Athos era lì in quel momento, le sue mani sulle sue gote e una domanda nascosta nelle iridi blu, e Charles non aveva cuore di rifiutargli la risposta che stava cercando.
Il giovane moschettiere annuì piano, quasi con premura, e socchiuse gli occhi quando le labbra di Athos si appoggiarono sulle sue, in un bacio casto che sembrava più che altro un assaggio, un tocco riverente.
« Sei sparito » aveva sussurrato poi l’uomo con un filo di voce, « sei sparito e l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era che non te lo avevo mai detto. Il rimpianto di quel momento ha superato il timore di un tuo rifiuto. »
Le labbra di D’Artagnan si piegarono in un sorriso dolce. « Sei un pazzo se pensi che io abbia motivo di rifiutarti, in nome o meno del buon senso » rispose il Guascone e non si fece alcun problema nel riappropriarsi di quella bocca che già considerava sua.
« Dovresti » soffiò Athos, e la sua voce era persa sulle labbra di D’Artagnan ma formò comunque quelle parole, quella sottointesa richiesta di un’ulteriore conferma.
Davvero, D’Artagnan amava quell’uomo pericolosamente e ormai non sarebbe più potuto tornare indietro. « Non ho rimpianti » lo rassicurò con il medesimo tono adorante.
E la risposta di Athos prima di impadronirsi della sua anima fu « meglio così ».
 
 
Il braccio di Athos era avvolto possessivamente attorno alle sue spalle, approfittando dello schienale della sedia in modo che sembrasse appoggiato lì per semplice comodità. La mano di D’Artagnan, per contro, aveva trovato posto sul ginocchio di Athos e lì era rimasta, nascosta alla vista altrui dal tavolo.
Porthos e Aramis stavano discutendo dell’ultima missione seduti di fronte a loro, bevendo un vino dolce e gradevole al palato, e D’Artagnan si ritrovò a ridere all’interpretazione personale che Porthos diede del combattimento di Aramis. Il moschettiere in questione rispose con un pugno alla spalla di Porthos che provocò a quest’ultimo una risata sentita.
D’Artagnan prese un altro sorso di vino dal suo bicchiere e strinse la mano sul ginocchio del suo amato. Athos avvicinò il volto al suo per sussurrargli qualcosa all’orecchio.
« Quali sono i tuoi pensieri? » domandò, avvicinandosi a lui tanto quanto la prudenza gli permetteva. Gli avrebbe baciato la guancia se non fossero stati in una taverna. D’Artagnan aveva scoperto con piacere che Athos era incline a piccoli gesti d’affetto di tanto in tanto, come se sentisse il bisogno di rassicurarlo in merito ai suoi sentimenti per lui. A D’Artagnan non servivano rassicurazioni, la fiducia che provava per Athos era totale, ma di certo non si lamentava di quei tocchi fugaci fatti di nascosto.
« Nulla di importante » rispose D’Artagnan inclinando un po’ il viso verso Athos, « sono semplicemente contento della mia famiglia ».
Athos sorrise e annuì. Aramis, che aveva smesso di stuzzicare Porthos, si espresse in un sospiro teatrale. « Guardali Porthos. Tutta questa felicità nell’aria... »
« Stomachevole » rispose il moschettiere, un ghigno divertito sul volto. « Trovatevi una camera ».
Athos riservò loro una delle sue migliori occhiatacce ma D’Artagnan si limitò a ridacchiare. « La gelosia è una brutta bestia, ragazzi » ironizzò.
« Geloso io? No, no » rispose Aramis con le mani alzate. « Non fraintendermi D’Artagnan, non sei niente male ma se provassi anche solo a metterti gli occhi addosso Athos mi ucciderebbe, e io ci tengo alla nostra amicizia. E alla mia vita ».
Per tutta risposta Athos mimò un inchino e Porthos e D’Artagnan risero di gusto allo scambio di occhiate fra i due. C’erano alcuni segreti fra loro, pensieri tenuti per sé e cose che non si era pronti a condividere, ma nessun risentimento rendeva amaro il loro sangue per questo. Erano fratelli di legame, fratelli d’arme e fratelli nello spirito, e D’Artagnan si sentiva fortunato ad essersi guadagnato la loro fiducia ed essere diventato parte di quella piccola famiglia. E non poteva nemmeno cominciare a spiegare tutto ciò che era Athos – fratello, maestro, mentore e ora anima gemella.
Non poteva sperare di vivere una lunga vita essendo moschettiere, dunque i suoi desideri dovevano limitarsi a ciò che poteva avere subito, senza pensare ad un futuro troppo incerto. Loro erano lì, ed erano una delle sue conquiste migliori, e sarebbe stato fiero di morire al loro fianco, se questo era il suo destino.
 
 
Successe a fine estate che un gruppo di rivoluzionari riuscì a intrufolarsi a palazzo. Erano pochi e inesperti ma bene organizzati e il loro capo, un certo Lefebvre, era abbastanza furbo da minacciare seriamente la vita del Re e della Regina anche con i pochi mezzi a sua disposizione.
Il destino aveva voluto che quel giorno D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis fossero di servizio a palazzo. (Successivamente, a emergenza rientrata, Porthos si sarebbe lamentato di come fosse praticamente impossibile che i guai li trovassero anche quando non se li andavano a cercare, e D’Artagnan avrebbe pensato che non era un discorso insensato, tutto sommato.)
Le Guardie Rosse avevano presto circondato la reggia e catturato buona parte degli invasori ma il piccolo gruppo che comprendeva Lefebvre era riuscito ad entrare, quindi i moschettieri si erano ritrovati sulle spalle il compito di proteggere i reali e Rochefort. Erano rimasti miracolosamente insieme finché non avevano dovuto separarsi per forza e D’Artagnan era finito chiuso in una stanza del palazzo che non conosceva insieme a Re Luigi, passando la notte in bianco nel tentativo di proteggerlo.
Dopo quel giorno il Re sembrava avere preso D’Artagnan in simpatia e, appena possibile, ne richiedeva la presenza a palazzo. Sembrava anche convinto che i consigli del moschettiere fossero degni di essere ascoltati e, nonostante non li seguisse se non concordavano con il suo capriccio del momento, chiedeva frequentemente la sua opinione.
« Probabilmente avergli salvato ripetutamente la vita ha finalmente dato i suoi frutti » aveva commentato Athos in merito, scostandogli i capelli bagnati dal collo e dedicandosi successivamente a baciarglielo.
D’Artagnan aveva mugolato qualcosa di incoerente prima di riuscire a mettere in fila le parole della sua risposta. « Ne dubito. Mi sento come un cagnolino da compagnia. Probabilmente sono solo il suo giocattolo del momento ».
Athos aveva esitato un attimo con le labbra appoggiate sulla sua spalla. « Se lo dici in quel modo sembra molto ambiguo » aveva commentato.
D’Artagnan aveva sbuffato, divertito, inclinando il capo per poter incontrare brevemente le sue labbra. « Stai prendendo in considerazione il regicidio? » aveva scherzato poi, ma Athos non aveva risposto al sorriso allo stesso modo. Lo aveva guardato negli occhi con serietà e con un sentimento a cui D’Artagnan non riusciva a dare nome dal quanto era profondo.
« Non sai cosa farei per te » aveva detto Athos, semplice e conciso, e D’Artagnan si era chiesto per l’ennesima volta che cosa avesse fatto di speciale per meritare il cuore di un uomo come il decaduto Comte de La Fère.
 
 
Col senno di poi, D’Artagnan avrebbe riconosciuto quel momento come l’inizio di tutto ciò che accadde successivamente. L’origine di tutti i mali, delle scelte sbagliate e delle conseguenze irrimediabili. Quell’unico e solo attimo che avrebbe rimpianto fino al giorno della sua morte, rivivendolo nella mente più e più volte per cercare di capire cos’era andato storto e cosa poteva essere cambiato.
Cominciò tutto con una mano sulla sua spalla e una frase all’apparenza disinteressata. La mano in questione era quella di Rochefort. La frase una semplice osservazione.
« Re Luigi sembra dare molto peso alle vostre parole, giovane D’Artagnan ».
Charles non aveva paura di Rochefort. Anzi, alcuni suoi modi di fare supponenti e altezzosi erano persino irritanti, ma D’Artagnan non temeva né l’uomo, né il potere di cui disponeva al fianco di Re Luigi.
Forse avrebbe dovuto.
« Ne dubito. Soprattutto quando le nostre opinioni non combaciano » rispose il moschettiere, resistendo all’impulso di scacciare quella mano dalla sua spalla.
Rochefort si espresse in una risatina falsa che di divertimento aveva poco o niente. « Oh, ma le vostre divergenze di opinioni non contano. Il Re è testardo ma le sue idee possono essere facilmente influenzate se si fida abbastanza della persona a cui le domanda » spiegò con finta calma. La sua mano si strinse sulla spalla di D’Artagnan che ne sentiva la pressione sotto il paraspalla di cuoio raffigurante il fleur de lis dei Moschettieri. « E cosa c’è di meglio del salvare la vita di una persona per guadagnarsi la sua fiducia? ».
Era una minaccia velata e D’Artagnan vide in quegli occhi solo una scintilla della vera pericolosità di Rochefort, solo quel tanto che gli veniva magistralmente mostrato per fargli capire il concetto principale delle sue parole: “non apprezzo la tua influenza a Corte”.
Ma D’Artagnan era giovane, e orgoglioso, e se colse il significato di quelle parole, se pensò a ciò che aveva da perdere e a quanto valesse in confronto a quello che avrebbe guadagnato, lo ignorò in favore di un’occhiata di sfida e delle parole velenose che seguirono.
« Sembra quasi che voi sminuiate il compito dei Moschettieri di proteggere il Re, insinuando che tale protezione sia solo un modo per entrare nelle sue grazie. Se il Re lo sapesse... » accennò senza terminare il discorso.
Ma Rochefort colse il senso di quelle parole forte e chiaro. Lasciò andare la spalla di D’Artagnan con un ghigno scontento prima di sibilare « non finisce qui » e andarsene.
I giardini del palazzo erano illuminati dal sole quel giorno e D’Artagnan aggrottò le sopracciglia alla sgradevole sensazione di essersi guadagnato un’attenzione sgradita, ma abbandonò il pensiero quasi immediatamente, incamminandosi per fare ritorno alla Guarnigione.
Se fosse stato più attento, e più saggio, probabilmente sarebbe andata diversamente. Ma non lo fu, e i suoi errori avrebbero per sempre fatto parte del passato immutabile e dei rimpianti che avrebbe portato con sé nella tomba.
 
 
Le mani di Athos erano callose e ruvide, rovinate dagli anni passati a maneggiare pistole e fioretti. Mentre passavano con reverenza sulle sue cosce, D’Artagnan pensò brevemente che non sembravano affatto le mani di un nobile – che avrebbero dovuto essere lisce e curate, nella sua immaginazione. Anche la sua barba era piacevolmente ruvida e pungente sulla pelle del suo collo, un po’ come la sua personalità e il suo modo di fare schivo.
D’Artagnan sapeva che era il suo passato a tormentare la sua anima, a fargli spesso preferire l’alcool al dolore, a farlo chiudere in se stesso anche davanti ai suoi fratelli, che per rispetto delle ferite altrui (e delle proprie) non facevano domande e si limitavano a tenerlo d’occhio da lontano. Fratellanza non significa sempre condividere tutto; può essere anche un punto di inizio per qualcosa di nuovo e ciò che si è lasciato alle spalle, ciò che si vuole disperatamente dimenticare, non può essere rivangato con facilità dal passato in cui è stato sepolto con la promessa di non tornare mai più a riprenderlo.
Se non fosse che Athos non aveva seppellito proprio nulla dietro di sé; portava le sue colpe come un peso sulle spalle, un’onta per castigarsi, e non ne aveva condiviso il peso con nessuno, non con Porthos e Aramis a cui affidava giornalmente la sua vita, non con Treville a cui aveva giurato fedeltà, mai più dopo Milady. La fiducia di un uomo è una cosa fragile e una volta spezzata è difficile da rimettere insieme, e ancora più difficile da donare ancora.
Poi, era arrivato D’Artagnan. Charles non si considerava il salvatore di Athos, né aveva la presunzione di essere la cura di tutti i suoi mali, ma gli era stato concesso di portare sulle spalle un po’ di quel peso e lui era felice così. Athos gli aveva dato più della sua fiducia, più del suo passato; gli aveva donato ciò che rimaneva del suo cuore, scusandosi per com’era ridotto, e quel cuore era tutt’ora la cosa più preziosa che D’Artagnan possedeva. Aveva scoperto la dolcezza di Athos, la tenerezza e il calore sotto quella maschera d’uomo composto e introverso, e se ne era innamorato perdutamente.
Finché non si era reso conto che non aveva più vie di fuga. Finché non si era reso conto che non avrebbe amato mai nessun altro. E andava bene così.
« D’Artagnan ».
Il richiamo del suo amante lo distrasse dai suoi pensieri, riportandolo alla realtà. Forse non era il momento adatto per perdersi nella sua testa, con Athos mezzo nudo sopra di sé.
« Sei a chilometri da qui » lo riprese bonariamente Athos, posandogli un bacio sullo sterno. D’Artagnan sorrise e gli passò una mano fra i capelli scuri.
« Pensavo a come siamo arrivati qui » gli confidò il giovane moschettiere e Athos capì cosa voleva dire senza bisogno di spiegazioni. Tuttavia optò per l’ironia quando formulò la sua risposta.
« Camminando. Abbiamo attraversato il cortile, poi salito le scale e... »
« Athos » lo interruppe scherzosamente D’Artagnan.
Il moschettiere sorrise sulla pelle olivastra del suo petto. « Per caso » disse poi, e questa volta la risposta era sincera. I suoi occhi blu incontrarono quelli di D’Artagnan e lì rimasero.
D’Artagnan avrebbe voluto fare una battuta di spirito sulle circostanze che avevano portato al loro incontro, ma le parole gli morirono in gola. Ricordare la morte di suo padre avrebbe fatto male ancora per molto, forse per sempre, anche se dal sangue versato quel giorno era nata la strada che lo aveva condotto ad Athos.
« Dovrei ringraziare il destino, allora » disse invece, passando le dita sulla barba corta del suo amante.
Athos si stese su di lui, puntellando un gomito per non pesare completamente su D’Artagnan, e gli accarezzò il volto con una mano. « Non so che fare » confessò poi a bassa voce. « L’ultima volta che ho amato qualcuno così tanto non ho retto il contraccolpo. L’amore mi ha distrutto ».
Charles scosse piano il capo. « Una persona ti ha distrutto. L’amore non ha colpe ».
« L’amore è una malattia » disse però Athos. « Devastante come una carestia, come la siccità. Ti dona tutto e ti toglie tutto, senza guardarti in faccia e senza chiederti perdono, o il permesso. Ti fa toccare il cielo e l’attimo dopo stai implorando pietà nella polvere ».
D’Artagnan fece per parlare, ma Athos gli appoggiò le dita sulle labbra per impedirglielo. Lui seguì il suo volere e rimase in silenzio, lasciando al suo amante la possibilità di continuare.
« Avevo giurato che non avrei amato mai più... » sussurrò piano, « il mio giuramento si infrange con te ».
Charles sorrise e baciò i polpastrelli delle dita di Athos, ancora appoggiate alle sue labbra.
« Non tradirmi, D’Artagnan. Se devi farlo, prima uccidimi. Altrimenti non so se porrei fine alla mia stessa vita o ti darei la caccia per prendermi la tua » gli rivelò con franchezza, ma D’Artagnan non provò paura a quella minaccia. Ne fu, invece, persino lusingato.
Allungò il collo e lo baciò. « Morirò amandoti o morirò con te » promise sulle sue labbra.
 
 
La sala del trono era opulenta anche da vuota e D’Artagnan, nonostante ne ammirasse la bellezza, si sentiva un pesce fuor d’acqua. Poche volte gli era capitato di presenziare in quella stanza e mai da solo; tutte le volte era in compagnia dei suoi fratelli e del Capitano Treville, senza contare che il Re e la Regina erano presenti, insieme ad altri cortigiani. Ora che invece si trovava lì da solo, nonostante la luce e le grandi finestre quella stanza gli sembrava persino opprimente.
Re Luigi lo aveva mandato a chiamare di primo mattino, mentre lui e gli altri tre moschettieri stavano facendo colazione alla Guarnigione. Il messo aveva insistito molto, dicendo che era un affare urgente, e per quanto il termine “urgenza” avesse più di un significato se uscito dalla bocca di Re Luigi uno non può semplicemente ignorare una convocazione del Re di Francia. Non era strano che lo mandasse a chiamare nei momenti più disparati, negli ultimi tempi, così D’Artagnan si era alzato di controvoglia e aveva sellato il cavallo, dirigendosi a palazzo. Treville lo aveva messo in pattuglia quel giorno, ma Aramis gli aveva assicurato che lo avrebbero coperto loro.
Stava già aspettando da un po’ quando una porta laterale si aprì, ma invece del Re comparve Rochefort. Ovviamente era troppo pretendere che Re Luigi fosse effettivamente pronto a riceverlo dopo averlo convocato – sia mai che D’Artagnan ritenesse cortese una tale amenità – ma il Conte era davvero l’ultima persona che il Guascone era in grado di sopportare quel giorno (e tutti gli altri giorni).
Tuttavia per lui la cortesia non era morta. « Comte de Rochefort » salutò con un cenno del capo.
« D’Artagnan » Rochefort gli restituì il saluto. « Sono felice di vedere che avete risposto alla mia convocazione così rapidamente ».
D’Artagnan aggrottò le sopracciglia, confuso dalle sue parole. « Il messo mi aveva detto che la convocazione era da parte del Re ».
Rochefort stirò le labbra in un sogghigno rivelatore.
« Ah, capisco » commentò il moschettiere.
« Non temete, il Re sa che siete qui e lo incontrerete comunque. Solo che prima mi piacerebbe scambiare qualche parola con voi in privato, tutto qui » disse il Conte, avvicinandosi a lui con passo tranquillo.
Si sentiva puzza di tranello nell’aria, e il moschettiere riusciva a capire dallo sguardo furbo del Conte che l’uomo aveva in mente qualcosa, ma quello scherzo lo aveva messo con le spalle al muro e non poteva fare altro che annuire. Se il Re sapeva della sua presenza, allontanarsi dal palazzo senza avergli parlato lo avrebbe indisposto. Ed era meglio assecondare i capricci di qualcuno quando questo qualcuno era il Re di Francia.
« A cosa devo l’onore? » domandò allora D’Artagnan.
Il conte gli sorrise maliziosamente. « Mi sono giunte all’orecchio alcune voci interessanti e ho pensato che sarebbe stato... istruttivo chiedere il vostro parere » disse, portando le mani dietro la schiena e osservando i giardini fuori dalla finestra. « Voci riguardanti voi, il fu Comte de la Fère e il tipo speciale di amicizia che vi lega ».
A D’Artagnan si gelò il sangue nelle vene. Il cuore gli saltò in gola e lo stomaco gli si chiuse così in fretta da causargli un’ondata di nausea.
« Fra di voi non c’è un semplice legame di fratellanza fra moschettieri, vero? Siete legato a lui in modo... più profondo. Più intimo » incalzò Rochefort.
Una gran quantità di immagini passò per la mente di D’Artagnan e nessuna di esse era gradevole. Cercò con tutto se stesso di mantenere una facciata di disinteresse, magari persino di incredulità, ma la sua paura gli si leggeva in faccia. Diamine, probabilmente Rochefort poteva sentirne persino l’odore.
Gli sfuggì una risatina che doveva essere divertita ma che invece sfociava nell’isterismo. « Sciocchezze. Athos è mio mentore e fratello d’arme. Chiunque abbia messo in giro queste voci non sa quello che dice ».
« Io invece credo di sì » rispose Rochefort e questa volta non c’era traccia della malizia che aveva colorato la sua voce fino a quel momento; il tono era duro e serio e l’espressione una maschera di freddezza. « È stato difficile cogliervi sul fatto, siete molto prudenti, ma fortunatamente per me non abbastanza. Athos abbassa la guardia dopo qualche bicchiere di vino e la sua mano tende a posarsi molto spesso sulla vostra coscia, così come le sue labbra sull’arcata del vostro orecchio. Gesti che passerebbero inosservati da chiunque, tranne da chi li sta cercando ».
D’Artagnan dovette concentrarsi per non far tremare la propria voce quando parlò. « E voi basate le vostre accuse sui modi affettuosi di un uomo sotto l’effetto del vino nei confronti di un suo fratello d’arme? Che assurdità ».
« Non mi servono delle prove D’Artagnan, mi serve solo un pretesto. Pensate davvero che i nobili a corte, perennemente annoiati, si lascino sfuggire uno scandalo? No, no. La notizia si spargerà a macchia d’olio in meno di un giorno » disse.
Come se i nobili non indugiassero in simili passatempi loro stessi, pensò D’Artagnan. La sodomia era punita dalla Chiesa, questo era vero, ma nella segretezza delle loro stanze i Duchi, i Baroni e i Conti di corte si lasciavano spesso andare alla lussuria e molti di loro avevano giovani ragazzi come amanti. Non era detto ad alta voce, e non in presenza di orecchie indiscrete, ma non era nemmeno taciuto. Bastava saper ascoltare.
La Gendarmeria, questo D’Artagnan temeva. E la Giustizia di Parigi, la cui soluzione per tutti i problemi sembrava essere quella di chiuderli in una cella a marcire o di mettere la loro testa in un cappio.
Aveva già capito lo scopo di quella conversazione. Rochefort era infastidito dalla sua vicinanza al Re e dall’attenzione che Luigi gli riservava e voleva liberarsi di lui. E quale modo migliore del minacciare Athos, la persona per cui D’Artagnan avrebbe versato fino all’ultima goccia di sangue? Il Conte sapeva e le conseguenze di una denuncia per sodomia erano terribili. Impiccagione. Il rogo. Anche se non avessero ucciso Athos, anche se si fossero limitati a mutilarlo e a lasciarlo in vita in nome del suo titolo nobiliare, l’accusa e le ferite gli avrebbero impedito di continuare a fare moschettiere e lo scandalo avrebbe coinvolto anche Porthos e Aramis e, buon Dio, persino Treville. D’Artagnan era stato allo Châtelet e sapeva che la strada per la gogna era più semplice da percorrere all’andata che al ritorno. Rochefort aveva ragione: alla Giustizia non servivano prove, solo ragionevoli dubbi.
Continuare con quella farsa era inutile.
« Cosa volete in cambio del vostro silenzio? » domandò il giovane Guascone fra i denti, scoprendo le carte. Era come ammettere la veridicità delle accuse ma, anche negando, il risultato sarebbe stato lo stesso.
Il Conte sorrise soddisfatto. « Voglio che voi ve ne andiate » disse semplicemente.
D’Artagnan lo guardò con astio ma trattenne la voglia travolgente di prenderlo a pugni. « Vorreste che io abbandonassi i Moschettieri e me ne andassi da Parigi? » domandò quasi incredulo.
Ma Rochefort scosse il capo. « No, non mi importa della vostra commissione nei Moschettieri. Pensavo ad una destinazione più permanente, una dalla quale avreste poche chance di tornare indietro. Vi offrirete volontario per il fronte, D’Artagnan ».
L’Armée de Terre. L’esercito al servizio del Re e dispiegato nelle zone in cui la vera guerra contro gli Asburgo veniva combattuta con il sangue, non tramite labili trattati di pace e false alleanze. Un esercito che contava sempre meno uomini e che aveva cominciato a raccogliere criminali e reietti a cui era stata data la scelta di morire impiccati o di morire in battaglia.
Rochefort continuò a parlare ma D’Artagnan nemmeno lo ascoltò. « Siete un giovane ambizioso, la vostra richiesta di partire volontario per il fronte sembrerà un atto onorevole, un modo per mettervi alla prova. Non c’è motivo perché il Re si opponga alla vostra richiesta, considerato il bisogno crescente di soldati » disse.
D’Artagnan deglutì a fatica. « E se mi rifiutassi? » sfidò.
« Allora posso garantirvi che Athos morirà entro un paio di giorni. Poi toccherà a Porthos e Aramis. Siete sempre insieme, sarà facile convincere la Gendarmeria che anche loro nascondono qualcosa. Treville ne risentirà e sarà destituito dal comando. Voi vedrete tutto questo, ovviamente, prima di essere processato a vostra volta » spiegò.
D’Artagnan strinse i denti talmente forte che la mascella cominciò a dolergli. L’eco di alcuni passi risuonò dalla porta da cui era entrato Rochefort e la voce squillante del Re lo avvertì che il sovrano stava per arrivare.
« Il tempo scorre... » gli disse il Conte prima di rivolgersi al Re con un inchino profondo, seguito a ruota da Charles che ne copiò il gesto automaticamente.
« D’Artagnan! » esclamò sorpreso Re Luigi, facendo segno ad entrambi di alzarsi. « Cosa posso fare per voi? Ovviamente sono molto impegnato, ma trovo sempre tempo per un amico fidato ».
Il moschettiere faceva fatica a mettere in fila i pensieri e non aveva nemmeno il coraggio di formulare le parole che gli servivano. Avrebbe voluto opporsi, sfidare Rochefort a singolar tenzone e combattere per il proprio onore e per quello di Athos, ma era troppo pericoloso persino pensarci. Non poteva duellare per un segreto che non doveva essere rivelato. Non lì, non in quel momento.
Ma “quì” e “ora” erano tutto ciò che gli rimaneva, perché Rochefort lo aveva intrappolato come un topo e lui non aveva semplicemente più tempo.
Chiudendo gli occhi prese una decisione.
« Ho una richiesta da farvi, vostra maestà ».
 
 
Il silenzio era caduto all’improvviso nella stanza di D’Artagnan alla Guarnigione ed era denso e pesante, quasi come se l’aria stessa ne fosse pregna e fosse diventata irrespirabile.
Aramis era bianco come un lenzuolo e lo guardava a bocca aperta, scioccato. Porthos sembrava stesse aspettando la battuta. Athos fissava il tavolo come se gli avesse fatto un affronto personale ed era sull’orlo di una crisi di panico o di un attacco d’ira, Charles non ne era sicuro.
Quella pesante immobilità venne spezzata da Porthos, che si lasciò sfuggire una risatina isterica. « È adesso che dobbiamo ridere, vero? ».
D’Artagnan scosse sconsolato il capo. « Non è uno scherzo, Porthos ».
« D’Artagnan, adoro ascoltarti quando dici cose intelligenti, ma adesso ho appena sentito la più grossa stupidaggine della mia vita » aggiunse Aramis, talmente teso che non sapeva dove appoggiare le mani.
Il giovane moschettiere sospirò profondamente. « Era l’unica soluzione ».
« No, niente, continuo a sentire stupidaggini » commentò Aramis, abbandonandosi contro lo schienale della sedia.
« Sei impazzito?! » sbottò allora Porthos, sbattendo le mani sul tavolo. D’Artagnan si aspettava una cosa del genere dunque non sobbalzò nemmeno. Continuava a guardare Athos con la coda dell’occhio, aspettando una reazione che non arrivava. Porthos, dal canto suo, urlò ancora più forte. « Perché non ci hai chiesto aiuto?! ».
« Non ho avuto tempo, Rochefort mi ha ingannato! » ribatté il Guascone con fervore, ripetendo ciò che aveva già spiegato.
« Potevi mentire, prendere tempo! Avremmo pensato a qualcosa insieme! »
« No invece! » sbottò D’Artagnan, alzandosi dalla sedia che aveva occupato fino a quel momento, sbattendo a sua volta le mani sul tavolo. Davvero, adorava Porthos, ma a volte la sua cocciutaggine lo faceva imbestialire. « Avrebbero arrestato Athos ancora prima del mio ritorno alla Guarnigione. E voi con lui » disse, abbassando il tono. « Non potevo permetterlo » aggiunse, sospirando e rimettendosi seduto, il volto tra le mani.
Anche Porthos sembrò perdere la voglia di discutere e si limitò ad imprecare tra i denti. Aramis si passò una mano sugli occhi come se dovesse svegliarsi da un brutto sogno che continuava nonostante i suoi sforzi di negarne l’esistenza. « Forse Treville potrebbe– »
« Treville lo sa » lo interruppe D’Artagnan, e non c’era davvero bisogno di approfondire. Anche se costretto, agli occhi del Re la sua richiesta era stata fatta in piena volontà e quindi non poteva più ritirarla. Non senza rischiare che il suo onore fosse messo in dubbio e non lontano dagli occhi onnipresenti di Rochefort, che avrebbe messo in atto il suo piano ancora prima che D’Artagnan potesse dar voce al motivo della sua rinuncia.
Il silenzio calò di nuovo, denso e soffocante. C’erano molte cose che Porthos e Aramis volevano dire, se le loro espressioni erano rivelatrici quanto D’Artagnan pensava che fossero, ma entrambi preferirono non farlo, timorosi che se avessero spezzato quell’immobilità sarebbe stato qualcos’altro ad infrangersi, qualcosa di molto più importante e prezioso. Ma Charles non era della stessa idea: Athos non aveva ancora parlato e quel silenzio, soprattutto da parte del suo amante, per il giovane moschettiere era intollerabile.
« Athos » chiamò dunque, « ti prego, di’ qualcosa ».
Solo allora Athos alzò lo sguardo dal tavolo, i suoi occhi indecifrabili. Poi le parole lasciarono le sue labbra e D’Artagnan sentì qualcosa creparsi dentro di sé, e la calma che si era promesso di indossare come corazza abbandonarlo.
« Avresti fatto meglio a uccidermi ».
Era ingiusto che Athos vedesse il suo gesto come un tradimento. Stava solo cercando di proteggerli – loro e se stesso ma soprattutto lui – e aveva deciso molto tempo prima che Athos era meritevole di qualsiasi sacrificio da parte sua, non importava che il moschettiere stesso non volesse essere salvato. D’Artagnan non stava tradendo nessuno.
« Sto solo cercando di salvarti la vita » rispose il Guascone duramente.
« Nessuno te l’ha chiesto ».
« Non è necessario ».
« Athos, D’Artagnan... » Aramis cercò di interromperli ma i due lo ignorarono.
Athos si alzò lentamente dal tavolo, recuperando il cappello e avviandosi verso la porta della camera. Ma D’Artagnan non era della stessa opinione.
« Dove credi di andare? » disse, alzandosi a sua volta e bloccando il cammino di Athos.
Il suo amante lo guardò minacciosamente. « A bere » rispose, e nessuno in quella stanza pensò che stesse scherzando, anche se in realtà speravano fosse così.
« È questa la tua soluzione? Fuggire? » domandò il giovane moschettiere, più arrabbiato che ferito ma si poteva sentire traccia di entrambi i sentimenti nella sua voce.
« Che importa? Tanto ci ha già pensato qualcun altro a risolvere il problema » rispose l’uomo, sottolineando con la voce il vero motivo della sua irritazione: il fatto che D’Artagnan avesse fatto tutto da solo, escludendolo. Il fatto che avesse deciso di sacrificare la propria vita per lui senza dargli la possibilità di impedirglielo.
Ma D’Artagnan non aveva intenzione di ripetere che non aveva avuto scelta e, anzi, lasciò che la sua frustrazione prendesse il sopravvento.
« È comodo, vero? » iniziò dunque, « innamorarsi di qualcuno sapendo che se le cose si mettono male puoi sempre scappare e lasciarti tutto alle spalle » sibilò.
« D’Artagnan! » esclamò allora Aramis ma Charles lo ignorò di nuovo, concentrandosi su Athos per coglierne qualsiasi reazione.
Athos lo squadrò con rabbia malcelata ma non disse nulla, deciso ad andarsene. Ma D’Artagnan non aveva intenzione di lasciar perdere il discorso, non con la sua partenza fissata per il mattino successivo.
« Forse non dovevo aspettarmi chissà quale miracolo. Dopotutto, non è il tuo forte restare a guardare » disse, e sapeva che si sarebbe pentito di quelle parole, che le avrebbe odiate e se le sarebbe rimangiate infinite volte, ma adesso era lui a sentirsi tradito e il suo cuore ebbe il sopravvento sulla ragione.
Probabilmente Porthos e Aramis non capirono la velata accusa, ma la reazione di Athos fece intendere loro che D’Artagnan aveva detto qualcosa di profondamente sbagliato: il moschettiere prese il giovane uomo per il colletto con entrambe le mani e lo sbatté al muro. Charles non sentì dolore, in realtà, e da quello capì che Athos non voleva davvero fargli del male; ma la sua reazione e l’ira cruda con cui lo stava fissando raccontavano di quanto le sue parole lo avessero ferito. Di quanto non si aspettasse che qualcuno lo accusasse così specificatamente di codardia, e di come quel qualcuno non sarebbe dovuto essere mai D’Artagnan.
Charles se ne sarebbe pentito, sì, lo sapeva. Ma sarebbe partito per la guerra al sorgere del sole e probabilmente non sarebbe più tornato, e Athos voleva lasciarlo solo nell’unica notte in cui l’ultima cosa di cui aveva bisogno era l’assenza della persona che amava più di se stesso e per la quale avrebbe imbracciato un moschetto e combattuto fino allo stremo.
Non si dissero nient’altro e quando Athos lasciò andare D’Artagnan e scomparve in poche falcate attraversando la porta, Charles non provò nemmeno a fermarlo. Porthos lo inseguì con un ringhio e Aramis urlò il suo nome, ma nessuno dei due ebbe fortuna e Athos non si fermò, né tornò sui suoi passi.
Forse è meglio così, si ritrovò a pensare D’Artagnan. Nessun addio e nessuna sofferenza.
Ancora abbandonato con la schiena alla parete, il giovane moschettiere abbassò lo sguardo sul pavimento quando un luccichio attirò la sua attenzione. Lì, ai suoi piedi, giaceva il ciondolo d’argento che Athos portava sempre al collo. La catenina era spezzata, motivo per cui nella commozione doveva essergli caduto senza che l’uomo se ne accorgesse.
Deglutendo, si chinò e lo raccolse. Lo aprì e alcuni non-ti-scordar-di-me, essiccati e pressati, lo fecero sorridere tristemente.
Ovviamente sapeva il significato che quel ciondolo aveva per Athos, e perché non lo toglieva mai. Aveva imparato a sue spese che i piccoli fiori blu rappresentavano Milady de Winter – Anne – e che Athos custodiva quel gioiello come ricordo di un tempo in cui il mondo era un posto luminoso e gentile e prometteva solo cose belle.
D’Artagnan non aveva mai chiesto o preteso che lo togliesse (anche se, forse, era un suo diritto) rispettando il volere dell’amato di avere una prova tangibile che quei momenti, quei giorni felici, non erano una contorta illusione. Anche se si erano rivelate tutte bugie, D’Artagnan aveva capito che qualcosa di vero c’era, ed era l’amore che Athos aveva provato per Milady anche dopo avere perso suo fratello e averla condannata all’impiccagione.
D’Artagnan non era geloso. Non lo vedeva come un affronto, o un’offesa. Il ciondolo era un piccolo ricordo sigillato nell’argento, un frammento di tempo conservato con cura. Era parte di Athos così come lo erano le sue membra, così come lo era D’Artagnan. Si fidava delle parole dell’uomo quando gli diceva di amarlo, di adorarlo; quello sguardo non mentiva, i suoi baci non mentivano, dunque non aveva motivo di odiare quel piccolo memento. Al contrario, ai suoi occhi custodiva un pezzo dell’anima di Athos.
Riparò velocemente il danno alla catenina e se lo mise al collo, nascondendolo sotto la camicia. Avrebbe fatto l’egoista fino in fondo, per una volta, e avrebbe portato con sé un pezzo di Athos in battaglia; il suo personale crocifisso, il suo Dio a cui chiedere protezione e sostegno.
E se il suo destino era quello di non fare ritorno, almeno avrebbe mantenuto la sua promessa.
Sarebbe morto amando Athos.
 
 
L’alba di quel giorno segnò la fine di una notte insonne.
Le strade di Parigi erano semi-deserte a quell’ora, salvo per alcuni mercanti che cominciavano le loro attività giornaliere. I fornai avevano appena sfornato pane e croissant e l’odore fragrante li aveva accompagnati, lui e i suoi fratelli, al punto in cui la carovana partiva per il fronte.
Treville lo aveva salutato con una stretta di mano e un abbraccio alla Guarnigione, rifiutandosi di prendere il paraspalla con il fleur de lis quando D’Artagnan glielo aveva offerto per restituirglielo.
« Te lo sei guadagnato, è tuo. Sarai sempre un Moschettiere. Tienilo sotto la cappa, non lo noteranno ».
D’Artagnan aveva sorriso e ringraziato e aveva aggiunto che lui era il miglior Capitano che avesse avuto l’occasione di servire e se gli occhi di Treville si erano fatti lucidi, nessuno aveva detto niente.
Ora D’Artagnan si sentiva sempre più a disagio nella divisa blu scuro dell’Armée de Terre. Non aveva perso la speranza di veder comparire Athos in fondo alla strada, ma più il tempo passava e più si rendeva conto che non sarebbe venuto. E se la prospettiva di andare in guerra gli aveva tolto il sorriso, la sua assenza in quel momento di bisogno gli fece dubitare dell’amore per cui D’Artagnan stava facendo quel sacrificio.
Al suo fianco, gli occhi a sua volta sulla strada, Porthos ringhiò. « Lo pesterò talmente forte quando farà rivedere il suo brutto muso, che al tuo ritorno farai fatica a riconoscerlo ».
« Non è colpa sua » lo difese però D’Artagnan. « Ha ragione ».
« Tuttavia non è una scusa » aggiunse Aramis e D’Artagnan non commentò oltre.
Dietro di loro, l’ufficiale incaricato al trasporto delle reclute diede l’ordine di salire sui carri. Era giunto il momento.
Non fece in tempo a trovare le parole d’addio per i suoi fratelli che Porthos lo strinse in un abbraccio spaccaossa. Subito dopo Aramis gli posò una mano sul collo, mormorando una preghiera prima di dargli un bacio sulla guancia. D’Artagnan dovette lottare per trattenere le lacrime. Anche senza parole i suoi fratelli erano riusciti a comunicargli l’affetto che provavano per lui e che Charles si riteneva fortunato ad avere.
Aveva appena dato loro le spalle quando una voce chiamò il suo nome.
« D’Artagnan! »
Per un momento, il giovane moschettiere pensò che fosse Athos. Sperò che fosse Athos. Ma il suo cuore si riempì comunque di gioia quando Constance corse verso di lui, gettandogli le braccia al collo.
« Promettimi che tornerai » lo implorò, la voce incrinata dalle lacrime, « promettimi che non è un addio ».
« Te lo prometto » sussurrò D’Artagnan, ed entrambi sapevano che era una promessa falsa, una dolce pretesa, ma si sarebbero comunque aggrappati a quella sottile speranza, forti della capacità dell’essere umano di non lasciarla morire se non per ultima.
L’ufficiale chiamò ancora. D’Artagnan posò un bacio sulla guancia di Constance e, da sopra la spalla della donna, si rivolse ad Aramis e Porthos.
« Dite ad Athos che lo amo » disse, e i due annuirono solennemente.
D’Artagnan salì con un balzo su uno dei carri, sedendosi accanto alle altre reclute, senza perdere di vista i suoi tre amici finché non furono troppo lontani. Poi, non si voltò più indietro.
 
 
 
P A R T E     I I
 
 
Calais era una piccola cittadina affacciata sul Canale della Manica, circondata da campagna. Era a circa una settimana di viaggio da Parigi e anche d’estate il caldo non era mai soffocante come in città, o umido e afoso come in Guascogna. La vicinanza del mare lo rendeva un posto ventoso e, se doveva essere sincero, D’Artagnan aveva smesso di apprezzare le frequenti piogge già dopo il secondo giorno.
Doveva essere stato un porto importante prima della guerra ma la sua posizione strategica, a pochi chilometri dal fronte asburgico, aveva fatto di Calais un avamposto militare. Erano pochi i civili rimasti in città, più che altro volontari e medici, mentre la maggior parte delle famiglie della cittadina e dei paesi vicini si erano trasferite altrove. Non era una città vuota, ma a D’Artagnan sembrava comunque diversa.
Non appena arrivati erano stati portati dal comandante in carica del reggimento, il Colonnello Valette.
Valette era un uomo integerrimo e serio, ma non emanava la stessa aura di comando che aveva Treville, né lo stesso rispetto che ispirava Athos. Si limitava a impartire ordini e più volte, durante il suo discorso di benvenuto, D’Artagnan dovette ingoiare le parole sarcastiche con cui avrebbe voluto rispondere. Ma non era più nei Moschettieri, dove poteva permettersi qualche battuta di spirito, e aveva l’impressione che al fronte gli ufficiali superiori non vedessero di buon occhio l’ironia.
E D’Artagnan capì perché quando fu chiamato nell’ufficio del Colonnello, ricavato da un ex ufficio postale, e gli fu brevemente spiegato che, grazie alla sua commissione di Moschettiere, lui era uno dei soldati più addestrati che avevano. Le leggi reali imponevano che gli ufficiali fossero di sangue nobile, ma la scarsità di uomini e l’incapacità in battaglia di alcuni elementi avevano potato Valette a considerare quella regola pericolosa per la causa, preferendo assegnare gradi da ufficiale a chi dimostrava di meritarseli. Una novità per l’Armée de Terre. Era stato dunque promosso senza preamboli al grado di Sottotenente e gli era stata assegnata una squadra di sei uomini. Il moschettiere non ebbe l’occasione di dire nulla che fu subito congedato, con in mano solo le informazioni di dove trovare la sua squadra e le mostrine con i gradi di sottotenente, che avevano ancora un pezzo di tessuto blu attaccato alla spilla. Charles evitò di pensare che erano stati strappati da un altro farsetto, molto probabilmente quello di un caduto.
Trovò la sua squadra in una delle vecchie locande sulla strada principale, usate per dare alloggio ai soldati durante la loro permanenza a Calais. Erano seduti ad un tavolo, alcuni giocavano a carte e altri si rilassavano con i piedi su una delle sedie libere più vicine. Portavano il fioretto al fianco e le pistole alla cintola mentre i moschetti erano appoggiati alla parete, comunque a portata di mano. C’erano altri soldati impegnati nelle stesse attività, probabilmente di riposo dopo una missione o di ritorno dal fronte, e molti di loro gli lanciarono un’occhiata curiosa quando entrò.
Solo guardandosi intorno D’Artagnan si rendeva conto di essere uno dei più giovani e, chissà perché, aveva l’impressione che la sua squadra non avrebbe accettato di buon grado di prendere ordini da lui. Lui stesso non si sentiva totalmente sicuro della sua capacità di comando: gli unici esempi che aveva avuto modo di osservare erano Athos e Treville ed entrambi avevano esperienza da vendere, cosa che a lui mancava. Tuttavia si fece coraggio e si avvicinò ai “suoi” uomini.
Ancora prima che potesse aprire bocca il più anziano del gruppo, un uomo sulla quarantina con i primi capelli bianchi, si alzò in piedi rispettosamente. Si premurò anche di sbattere un pugno sul tavolo quando gli altri cinque uomini non fecero subito lo stesso, fulminandoli con lo sguardo finché non si alzarono tutti.
Solo quando ebbe la loro attenzione D’Artagnan si fece coraggio e prese parola. « Sono Charles D’Artagnan. E, a quanto sembra, sono il vostro ufficiale comandante ».
« mon lieutenant » salutò il più anziano con un distaccato rispetto, « Sergente Adrien de Serre ».
« Caporale Basile de Joubert » si presentò il successivo, un uomo dalla carnagione pallida e dai capelli castano chiaro. Sembrava reticente e dubbioso, così come lo erano tutti, e D’Artagnan ebbe conferma di due cose: primo, aveva ragione nel pensare che uomini fatti e finiti non apprezzassero di essere comandati da un ufficiale più giovane di loro e, secondo, che avrebbe dovuto utilizzare il metodo che Athos impiegava contro le reclute piene di sé che arrivavano alla Guarnigione pensando di essere già pronte per la commissione.
« Soldato di Prima Classe Claude de Guillon » si presentò il medico della squadra. Gli ricordava vagamente Aramis a parte i baffi, ma il colore di capelli e la carnagione erano gli stessi.
« Soldato Semplice Donatien D’Armand » disse un giovane con i capelli lunghi e scuri raccolti in una coda di cavallo.
« Soldato Semplice Egide de Laroche » e D’Artagnan pensava che non avrebbe mai incontrato uomini più grossi di Porthos, ma a quanto pare si sbagliava.
« Soldato Semplice François de Lucas » si presentò l’ultimo di loro, l’unico che come età si avvicinava alla sua.
D’Artagnan annuì, osservandoli attentamente. I loro sguardi erano diffidenti, a volte addirittura ostili, e lui di certo non poteva biasimarli. Probabilmente dopo quel giorno lo avrebbero detestato ancora di più, oppure lo avrebbero rispettato, ma almeno avrebbero eseguito i suoi ordini senza dare l’impressione di volergli piantare un coltello nella schiena alla prima occasione.
« Prendete la vostra roba e seguitemi » disse dunque, « vediamo cosa sapete fare ».
 
 
Li aveva preceduti in una zona appartata della città dove si era tolto cappa, pistola e moschetto, tenendo solo il fioretto. Aveva esortato i suoi uomini a fare lo stesso e poi si era messo silenziosamente in posizione, sfidandoli uno alla volta a batterlo con la spada. Non si era disturbato a togliersi il farsetto, così il paraspalla con il simbolo dei Moschettieri era rimasto in bella vista; una sorta di monito silenzioso da parte sua perché lo prendessero sul serio.
Erano bravi ma non abbastanza. Il suo talento innato e i suoi continui allentamenti con Athos avevano reso D’Artagnan un ottimo spadaccino e, nonostante i soldati si fossero impegnati e avessero chiesto ripetutamente di riprovare, nessuno di loro era stato abbastanza capace da metterlo in difficoltà. L’unico che era riuscito a rendere il duello impegnativo era stato il Sergente Serre, ma D’Artagnan aveva avuto la meglio anche in quel caso.
Alla fine di quello strano allenamento la squadra aveva cambiato modo di guardarlo e il Sergente aveva chinato il capo con rispetto, riconoscendo la sua bravura e assicurandogli silenziosamente la sua cooperazione. La fiducia sarebbe arrivata col tempo, probabilmente dopo che Charles avesse dimostrato le sue doti in battaglia, ma per il momento si accontentava di avere la loro obbedienza.
 
 
La prima notte a Calais fu insonne per lui. Gli fu assegnato un posto nella stanza del Sergente Serre, sullo stesso piano della sua squadra, e nonostante l’uomo fosse silenzioso e il letto non fosse poi così scomodo come si era aspettato, nonostante la stanchezza e il bisogno di recuperare le forze dopo una giornata pesante, D’Artagnan si ritrovò sveglio a guardare il soffitto.
Un numero indefinito di pensieri mulinavano nella sua testa ma uno fra tutti lo tormentava: un viso, un paio d’occhi blu, un sorriso orgoglioso nascosto sotto la tesa di un cappello. Mani callose sulla sua pelle e la piacevole ruvidezza di una barba sul suo collo. La voce di Athos che gli sussurrava all’orecchio di amarlo, come se fosse lì in quel letto accanto a lui quando invece era a chilometri di distanza. Quando, invece, probabilmente lo odiava.
Sospirando profondamente D’Artagnan si sedette sul materasso, passandosi una mano fra i capelli. Pensieri del genere non lo avrebbero aiutato a rimanere in vita quando le cose si sarebbero messe male. Aveva bisogno di convincersi che Athos non lo aveva abbandonato davvero, che lo avrebbe ritrovato a Parigi quando sarebbe tornato a casa, perché era quella la sua sopravvivenza, il motivo delle sue preghiere.
Seguì con i polpastrelli la sottile catenina d’argento che aveva attorno al collo e afferrò il pendente, giocandoci con le dita prima di portarlo alle labbra e baciarlo.
Era un uomo debole ed egoista.
 
 
Erano stati tagliati fuori.
Nel tentativo di raggiungere Dunkerque con i rifornimenti il loro plotone era stato attaccato dall’esercito nemico e li avevano divisi, accerchiandoli e uccidendo il Tenente De Bois, il loro ufficiale comandante. Ora non potevano né proseguire né ritirarsi, bloccati in una foresta di betulle che offriva poca protezione. Sedici uomini, due squadre, e D’Artagnan aveva il grado più alto.
« Cosa facciamo? » domandò Serre arrivando di corsa al suo fianco, inginocchiandosi accanto a lui dietro lo stretto tronco della betulla dalla quale D’Artagnan stava osservando la foresta.
Cosa avrebbe fatto Athos, si ritrovò a pensare. Cosa avrebbe fatto Treville?
Gli servivano informazioni. Doveva conoscere il nemico, pensare come lui. Doveva sapere quanti erano e come si muovevano, dove erano stanziati e qual era il loro obiettivo (oltre ad uccidere tutti i francesi che incontravano). Erano un plotone solitario o un’avanguardia? Dunkerque era caduta in mano al nemico senza che loro ne sapessero niente?
« Aspettiamo » disse allora Charles. Non poteva esitare, altrimenti gli uomini non si sarebbero fidati del suo giudizio. Doveva prendere una decisione e pregare che fosse quella giusta. « Facciamo cerchio. Voglio occhi in tutte le direzioni e moschetti carichi pronti all’uso. Prendi Guillon e il medico dell’altra squadra e falli nascondere nel punto più sicuro della formazione. Restiamo bassi e silenziosi » disse. Si guardò poi intorno con fare pensoso. Gli alberi radi e dai trinchi sottili e bianchi non aiutavano i soldati a nascondersi. Serviva un posto più riparato. « Mandami Lucas » disse dunque.
Il Sergente annuì e ripartì velocemente verso la formazione, cominciando a sussurrare i primi ordini ai soldati. Dopo qualche minuto Lucas si avvicinò a D’Artagnan, accovacciandosi nello stesso modo di Serre poco prima. « Eccomi Sottotenente».
« Vorrei mandarti in esplorazione » disse Charles senza girarci attorno. « Sei il più veloce e silenzioso della nostra squadra. Mi serve un posto più riparato, possibilmente a nord, con cespugli o tronchi dietro cui possiamo nasconderci. Se incontri dei nemici torna indietro e comunicami la loro posizione ».
Il soldato annuì con decisione e lasciò la formazione, muovendosi silenziosamente da un tronco all’altro.
D’Artagnan pregò silenziosamente di non aver mandato Lucas a morte certa e di non aver condannato allo stesso destino anche tutti gli uomini che erano con lui.
 
 
Non c’era modo di capire dove fossero i nemici.
La pioggia cadeva fitta nella notte, il cielo nero illuminato di tanto in tanto da un lampo e seguito dal fragore assordante di un tuono. Il vento fischiava fra i tronchi di betulle trasformando le gocce in lame taglienti e il freddo era ormai una minaccia tangibile quanto il nemico, nascosto intorno a loro, in attesa di attaccarli. La pioggia aveva bagnato le micce e la polvere da sparo, rendendo moschetti e pistole niente meno che un intralcio, e D’Artagnan aveva sentito la speranza fuggire da lui quando aveva dato l’ordine di impugnare i fioretti.
Due settimane in quella maledetta foresta, tagliati fuori da tutti e costretti a razionare cibo e acqua finché entrambi non erano finiti, e questa sarebbe stata la resa dei conti. Aveva vissuto in un buco per terra senza mai staccare le mani dal calcio del moschetto e dormito ogni notte con l’orecchio teso e un occhio aperto. Aveva sopportato il freddo delle notti autunnali e il caldo insolito dei giorni di sole, aveva combattuto quando necessario, comandando i suoi uomini senza più reticenza. Man mano che i giorni erano passati la speranza di salvezza si era affievolita e, con essa, anche la paura di sbagliare qualcosa e mandare tutto all’aria. Verso la fine, quando aveva osservato i suoi uomini soffrire per la fame e la disidratazione che divoravano anche lui, aveva persino pensato che la morte sarebbe stata una soluzione più semplice.
Ma non poteva davvero permettersi di pensarla così e tutte le volte che le sue dita raggiungevano la catenina d’argento il pensiero di Athos gli dava la forza di sopravvivere ancora un’ora, ancora un giorno.
Gli diede forza anche in quel momento. D’Artagnan afferrò automaticamente il ciondolo, portandoselo alle labbra. Aveva i capelli incollati al volto e la divisa pesante e zuppa d’acqua, ma la presa sul suo fioretto era salda e il fleur de lis sulla sua spalla era un promemoria incoraggiante.
Un lampo illuminò il buio, poi un tuono squarciò il cielo. In quei pochi secondi di luce D’Artagnan riuscì a vedere le divise rosse dei nemici avvicinarsi a loro con le lame sguainate.
Con un urlo, diede ai suoi uomini l’ordine di combattere in nome del Re.
 
 
Il mattino portò con sé un’agognata vittoria e i soccorsi.
Mentre i soldati dell’Armée de Terre si occupavano dei feriti e distribuivano acqua e cibo al plotone, D’Artagnan non riusciva a staccare gli occhi dall’ultimo soldato nemico che aveva ucciso, steso ai suoi piedi come una marionetta a cui avessero tagliato i fili. Sangue era uscito dal punto in cui D’Artagnan lo aveva infilzato con il fioretto e aveva imbrattato sia la divisa che il fogliame, dando ad entrambi una nauseante sfumatura di rosso.
Charles non si era mai sentito così. Gli era già capitato di uccidere delle persone, era normale nei Moschettieri, ma la vista di quel soldato, di quell’uomo morto ai suoi piedi, gli dava una strana e spiacevole sensazione.
Non lo conosceva, non lo aveva mai visto prima e non sapeva nemmeno il suo nome. Poteva essere un padre, un marito, un fratello, un figlio.
Ma non lo erano tutti? Padri, mariti, fratelli, figli di qualcuno? Non era la morte di quell’uomo che lo disturbava, non era la consapevolezza che l’aveva ucciso per un motivo che si poteva identificare solo nella parola “nemico” e solo in quella; ciò che lo inquietava profondamente era sapere che con una divisa diversa, di colore blu rispetto al rosso e marrone dell’esercito asburgico, quel soldato morto poteva essere lui. Poteva essere chiunque degli uomini che aveva sotto il suo comando e che avevano combattuto fino allo stremo per avere salva la vita.
Una vita che era totalmente sacrificabile, e lo capiva solamente ora. Come poteva pretendere di salvarsi, di ritornare vivo a Parigi, se la sua vita equivaleva a quella di un pedone su di una scacchiera?
Fu una mano sulla spalla a riportarlo con i piedi per terra. Serre lo affiancò e, senza parlare, gli passò una fetta di pane e un pezzo di formaggio. Charles quasi ringraziò Dio.
« Una livre per sapere i suoi pensieri, Sottotenente » disse il Sergente, addentando voracemente la propria razione di pane e formaggio.
D’Artagnan mandò giù il boccone prima di rispondere. « Mi chiedo se è diverso, uccidere qui e uccidere a Parigi. Da moschettiere ho ucciso molte persone, ma sapevo quasi sempre il motivo per cui lo facevo. Erano ladri, truffatori, banditi, venditori di schiavi, spie spagnole, assassini. Di alcuni sapevo anche il nome e cosa avevano fatto per meritarsi la morte. Ma qui... » il moschettiere esitò un momento, gli occhi fissi sul soldato morto, « qui è diverso. Qui uccido degli uomini che sono esattamente come me, niente più e niente meno. Li uccido perché mi è stato detto che loro sono “il nemico”. Ma non lo siamo anche noi ai loro occhi? Non siamo anche noi “il nemico”? Cosa ci rende diversi da loro, migliori di loro? ».
Le sue domande incontrarono il silenzio di Serre e D’Artagnan si rese conto che forse aveva esagerato. Athos era abituato a questi suoi momenti di riflessione, e si impegnava sempre a seguire i suoi ragionamenti e a rispondere a tono – dando vita a conversazioni che potevano durare anche ore – ma Serre non era un nobile e di certo non era istruito quanto Athos.
Tuttavia, dopo alcuni secondi di riflessione, il Sergente gli diede una risposta.
« Io credo che la situazione sia più semplice, signore. Io credo che ruoti tutto sull’uccidere per non essere uccisi. Inoltre, voi avete una visione troppo negativa di voi stesso, se posso permettermi » disse franco.
D’Artagnan sollevò un sopracciglio ma lo lasciò continuare.
« Il punto non è se quello che facciamo sia giusto o sbagliato. Il punto è che uccidendo loro, voi avete salvato le vite di diciotto uomini. Diciotto uomini che avranno un’altra possibilità di tornare a casa perché voi li avete tenuti in vita per due settimane in una foresta in culo al nulla, con nient’altro che briciole di cibo e acqua piovana. La vita di uno di loro per salvarne diciotto » terminò.
D’Artagnan staccò finalmente gli occhi dal soldato morto e li portò su Serre. « Ne vale la pena? » chiese.
« Se mi fa arrivare a fine giornata vivo... sì, signore. Ne vale la pena. »
 
 
Il Sergente Serre era un oste, prima della guerra. Aveva una moglie e due figlie. Un giorno un incendio aveva distrutto la sua taverna e lui, a corto di possibilità, si era arruolato ed era partito. L’esercito pagava bene, se non morivi.
Armand era un ladro. Lo era stato per tutta la vita. Lo faceva per povertà, per comprarsi qualcosa da mangiare, per pagarsi una camera in una squallida locanda nei bassifondi di Lione. « Il mio problema è che sono bravo » diceva. Un giorno una banda lo aveva coinvolto in un colpo importante, il colpo della vita, ma qualcosa era andato storto e lui era stato catturato. Gli avevano detto “scegli: la forca o il moschetto”. Aveva scelto il moschetto.
Laroche era un gigante buono. Non aveva un lavoro fisso ma preferiva impieghi nei cantieri navali, o direttamente sulle navi come uomo di fatica. Quando si ubriacava tesseva le lodi di una donna che aveva lasciato a Marsiglia, una prostituta dai capelli rossi di cui si era follemente innamorato. Voleva fare soldi per cominciare una vita insieme a lei.
Il Caporale Joubert era di poche parole, ma in alcune occasioni raccontava piccoli stralci della sua vita. Aveva fatto l’errore di volere la compagnia di una donna sposata, un’importante Baronessa di Nantes, e il Barone non era stato magnanimo quando aveva scoperto la loro liaison.
Guillon era un apprendista medico prima di essere costretto ad arruolarsi. Contrabbandava laudano rubandolo dalle scorte del suo maestro. Fu scoperto e denunciato e, come Armand, per salvarsi la vita scelse l’esercito.
Lucas era il più giovane del gruppo (anche se aveva la stessa età di D’Artagnan) ed era l’unico volontario. Desiderava una carriera da soldato e sembrava nato per esserlo. Era quello con cui D’Artagnan si sentiva più in sintonia e non solo per l’età, ma perché in lui rivedeva la sua stessa voglia di fare il moschettiere. I suoi genitori avevano una panetteria a Orléans e lui era il primo di quattro figli.
Una sera, davanti a diverse bottiglie di vino, Laroche aveva chiesto a D’Artagnan com’era finito d’istanza a Calais. Charles non si era aspettato quella domanda, non nell’immediato futuro almeno, dunque non aveva nemmeno pensato ad una risposta da dare. Ma la sua squadra sembrava impaziente di saperlo, così optò per una mezza verità che non avrebbe fatto male a nessuno.
« Ho infastidito la persona sbagliata » disse solo, nascondendo un sorriso mesto sul bordo del proprio bicchiere, « e mi sono innamorato di una persona che non potevo amare ».
« Heureux comme un poisson sur la paille »1 commentò Joubert, ma quello che doveva essere uno scherzo uscì più come un’ironia amara. Gli altri alzarono i bicchieri in un brindisi silenzioso e li svuotarono rapidamente.
« E quella persona ricambia il vostro amore, signore? » domandò Guillon.
« Spero proprio di sì. Altrimenti chi sto salvando? » rispose D’Artagnan tentando un tono scherzoso e la risatina che ricevette in risposta ripagò il suo tentativo. Ma non alzò mai gli occhi dal proprio bicchiere, ora vuoto, e se gli altri notarono la tristezza nei suoi occhi non ne fecero menzione.
 
 
« C’è una nuova missione per la vostra squadra ».
D’Artagnan annuì diligentemente. Odiava quelle parole e odiava il modo noncurante in cui Mercier gliele sputava in faccia. Nei lunghi mesi in cui aveva prestato servizio a Calais la sua squadra era diventata la migliore del Reggimento e, come macabra ricompensa, oltre alla sua promozione a Tenente loro ricevevano le missioni più complesse. Non aiutava che quell’anno la primavera fosse restia a giungere e che la terra fosse inusualmente ghiacciata e ricoperta da una spessa coltre di neve. Non era ciò che si erano aspettati dopo il rigido inverno appena passato. I suoi uomini bramavano il sole come si brama l’acqua in mezzo al deserto e, ad essere sinceri, doveva ammettere che la sua anima di Guascone voleva il sole e il calore della primavera con la stessa intensità.
« Pensiamo che il centro di comando del Battaglione nemico sia a Hondschoote, a sud-est di Dunkerque » gli spiegò il Capitano, indicando un punto sulla cartina dispiegata sul tavolo. « Vorremmo che la vostra squadra si dirigesse lì, raccogliesse informazioni utili e tornasse indietro. Ovviamente con discrezione ed evitando di essere catturati, o peggio ».
Non c’era davvero bisogno che specificasse quella parte. Certo, se desiderava davvero che lui e la sua squadra tornassero a Calais senza un graffio probabilmente sarebbe stato meglio evitare di assegnare loro missioni suicide.
D’Artagnan evitò per puro buon senso di dire ad alta voce tutto ciò che stava pensando, concentrandosi sul punto della cartina indicatogli da Mercier. Aggrottò le sopracciglia quando notò un particolare disturbante.
« Hondschoote è in pieno territorio nemico » diede voce all’ovvio.
« Non ho detto che era una missione semplice » ribatté Mercier.
Questa volta ingoiare gli insulti fu davvero una dura prova di autocontrollo. « Immagino che dovremmo evitare le città lungo la via » disse invece.
Il Capitano annuì. « Prendete tutto quello che vi sembra promettente. Documenti, mappe, appunti. Studiate le posizioni dei loro contingenti, le riserve, i loro movimenti. Osservateli per quanto potete e fate rapporto alla base. Avete dieci giorni. È tutto » lo congedò Mercier.
D’Artagnan trattenne l’imprecazione colorita che era intenzionato a sputare fuori solo finché non fu tornato al campo di allenamento dove aveva lasciato la sua squadra. Dopodiché persino Laroche arrossì di fronte alla stringa di oscenità che gli uscì di bocca.
 
 
Procedevano in formazione: Laroche davanti a tutti e D’Artagnan subito dietro di lui, affiancato da Armand e Joubert. Serre e Lucas erano rispettivamente poco dietro agli ultimi due e Guillon era subito dietro D’Artagnan, nel posto più protetto del gruppo. Avevano convenuto tutti che perdere il medico della squadra non sarebbe stato efficace per la loro sopravvivenza.
Se il freddo non li uccideva prima.
D’Artagnan era convinto che chiunque avesse escogitato quel piano, nella stanzetta ben riscaldata del Colonnello Valette, non avesse considerato le temperature tipicamente invernali che quella primavera aveva loro regalato. Certo, la neve si era sciolta con la prima giornata di sole, ma il sereno aveva portato a notti ancora più fredde e il terreno, già di per sé ghiacciato, al mattino era ricoperto di un manto luccicante di brina. Dopo le prime due notti D’Artagnan si era arreso all’evidenza che serviva loro un fuoco, a costo di essere facilmente individuati, così avevano cambiato il percorso, scegliendo di camminare al limitare di foreste e piccoli boschetti, attraversando zone aperte solo se necessario. Gli alberi avrebbero mascherato un po’ la luce del fuoco, sperava.
Attraversare il fronte fu più semplice di quanto D’Artagnan si aspettasse, ma ci riuscirono. Le pattuglie di soldati nemici erano scarse e disattente – forse non si aspettavano incursioni da parte dei francesi con quel freddo – e loro riuscirono a passare oltre le linee nemiche con il minimo sforzo.
Fu la sera del terzo giorno di viaggio, quando ormai erano a mezza giornata di cammino da Hondschoote, che cominciò a piovere. Di sicuro non era un evento raro da quelle parti, ma divise fradicie e freddo erano una bruttissima combinazione quando si doveva passare la notte all’addiaccio. Fortunatamente Lucas tornò dalla ricognizione con buone notizie.
« C’è una fattoria » disse, il freddo abbastanza intenso da rendere visibile il suo fiato. « Non è lontana. Non ho visto animali ma c’è un fienile, e sembra  abitata. Una finestra al pian terreno è illuminata ».
« Sono probabilmente soldati. Data la vicinanza al fronte non mi sorprenderebbe se avessero requisito la fattoria per farne una base d’emergenza » disse Serre e D’Artagnan era d’accordo.
Osservò i suoi uomini attentamente. La missione sarebbe durata ancora a lungo ed erano già provati dai lunghi giorni passati fuori. Erano fradici e stanchi, infreddoliti fino alle ossa, e andando avanti così sarebbe stato il freddo ad ucciderli, non i nemici. Una casa poteva essere una buona soluzione per provare a cucinare un pasto caldo e per passare una notte serena prima di raggiungere Hondschoote. E, se fossero riusciti a conquistarla e a tenerla, poteva rivelarsi un buon punto di appoggio durante il viaggio di ritorno.
« Andiamo a prenderla » disse alla fine. I suoi uomini annuirono e si misero in marcia.
La fattoria era piccola. Più piccola di quella che D’Artagnan aveva perso ma il fienile era abbastanza grande da ospitare alcuni cavalli e qualche mucca da latte. I recinti erano intatti e ben tenuti, la legna accatastata in una pila ordinata e dal camino usciva un rivolo di fumo, segno inequivocabile che c’era un fuoco acceso. Quello più di qualsiasi altra cosa spinse Charles a schierare la sua squadra.
Fece segno a due di loro di andare sul retro e ad altri due di rimanere di guardia. Si avvicinò alla finestra illuminata con Joubert e, facendo attenzione a non essere visto, guardò dentro.
Non vide niente se non un focolare e una tavola apparecchiata per uno.
Si abbassò di nuovo e rifletté per un istante. L’unica finestra illuminata era quella e tutto faceva pensare che ci fosse una sola persona dentro casa, ma non era detto. Forse gli altri soldati erano nelle stanze al piano superiore e dormivano, o forse erano usciti in ricognizione lasciando indietro uno di loro. Non avevano incontrato altri nemici una volta attraversato il fronte ma questo non significava che la casa fosse sicura.
Fece un cenno a Joubert, comunicandogli silenziosamente che sarebbero entrati, e fece lo stesso segno a Serre e Armand, fermi a pochi metri da loro con il moschetto puntato alla porta. Era inutile sotto la pioggia ma era comunque minaccioso quando si aveva il vantaggio della sorpresa.
Contò con le dita fino a tre e poi lasciò che il Caporale aprisse la porta con un calcio, seguendolo dentro mentre gridava a chiunque stesse ascoltando di non muoversi e fare vedere le mani.
Fra tutte le cose che D’Artagnan si era aspettato, ciò che trovò oltre quella porta riuscì a sorprenderlo.
Una donna, matura ma non anziana. Aveva i capelli biondi raccolti sulla nuca e portava uno scialle di lana. Aveva alzato le mani non appena erano entrati e in una teneva stretto un cucchiaio di legno, Li guardava con espressione spaventata e sorpresa e D’Artagnan si sentì quasi in colpa per il trambusto, le stesse scuse che pronunciava a sua madre quando faceva tardi per cena pronte ad uscirgli di bocca. Impugnava la pistola ma non la abbassò subito, preferendo la cautela.
« Vai di sopra » disse a Joubert, che annuì e scattò velocemente su per le scale. Quasi contemporaneamente entrò anche Serre, rimanendo sulla porta in silenzio. Un silenzio che nessuno spezzò finché il Caporale non fu tornato, assicurando che le due camere da letto al piano superiore erano vuote.
Solo allora D’Artagnan abbassò la pistola, intimando ai suoi uomini di fare lo stesso. L’aria era tesa e Charles si sentiva come un cacciatore davanti ad un cervo, consapevole che se avesse fatto un qualsiasi movimento sbagliato l’animale sarebbe fuggito. Gli occhi della donna erano cauti ma spaventati mentre abbassava le mani e saettavano fra i tre soldati come se si aspettasse il peggio.
« Capisce quello che diciamo? » domandò D’Artagnan con tono calmo. La donna aggrottò le sopracciglia, confusa. Evidentemente no, o molto poco.
« Qualcuno conosce il neerlandese? » domandò Charles alla squadra senza mai togliere gli occhi dalla donna.
« Qualche parola. Posso provarci » rispose Lucas. « Cosa devo chiedere? ».
« Prima di tutto, dille che non abbiamo cattive intenzioni. Chiedile se ci sono dei soldati accampati nelle vicinanze. Poi... » esitò per un momento. « Poi chiedile se possiamo passare la notte nel fienile ».
 
 
Dopo svariati tentativi di comunicare con la donna, e molte occasioni in cui Lucas si era affidato al linguaggio dei gesti per farsi capire, finalmente era stato dato loro il permesso di dormire nel fienile. Certo, non era la più comoda delle sistemazioni, ma la paglia era calda ed erano finalmente all’asciutto. Dal canto suo, non poteva desiderare niente di meglio per questa notte.
Anche i suoi uomini sembravano soddisfatti, sistemati sui cumuli di paglia dove si erano tolti gli stivali per fare asciugare i calzini. Nonostante fossero abbastanza sicuri che non ci fossero soldati nemici nelle vicinanze avevano comunque deciso dei turni di guardia, dai quali D’Artagnan era stato estromesso su insistenza di Serre. « Avete bisogno di riposo » aveva detto il Sergente, « vi servirà ».
L’odore della paglia gli ricordava la sua fattoria a Lupiac. Si nascondeva sempre nel fienile quando non aveva voglia di aiutare suo padre con i cavalli e rimaneva per ore lì steso a rimuginare sul suo futuro, a fantasticare di essere un moschettiere, un eroe.
Certo, all’epoca non si era aspettato che suo padre non avrebbe potuto vederlo indossare la cappa e il paraspalla dei Moschettieri del Re, così come non aveva previsto di innamorarsi perdutamente dell’uomo che aveva inizialmente – e ingiustamente – accusato dell’omicidio di quello stesso padre, ma erano comunque ricordi sereni di una vita che era stata sua, un tempo.
Inevitabilmente, i suoi pensieri volarono ad un altro tipo di vita. Alla vita che viveva a Parigi. Ad Athos.
Ascoltando solo marginalmente i discorsi assonnati dei suoi uomini, D’Artagnan tirò fuori dal farsetto il pendente d’argento e se lo rigirò fra le dita.
A volte aveva lasciato vagare la sua mente su pensieri fugaci di una vita insieme ad Athos. Una vita che andasse oltre al loro servizio nei Moschettieri, oltre all’eventualità più che probabile della loro morte in missione. Pensieri audaci di una piccola fattoria da qualche parte in campagna dove potessero essere dimenticati, o di una casa ai confini di un villaggio tranquillo e isolato. Poche stanze, ancora meno pretese. Charles sapeva che Athos non amava più lo sfarzo, che gli ricordava troppo tutto ciò che aveva perso – e che non era quantificabile in monete e lusso – dunque un arredamento semplice e tanti, tanti spazi aperti. Magari dei cavalli, qualche capra, alcune galline.
Quando ci pensava finiva sempre per ammonirsi mentalmente. Non riusciva a pensare di invecchiare, era troppo giovane per vedere sé stesso così avanti negli anni, ma era consapevole che sarebbe stato onorato di invecchiare accanto ad Athos. Per quanto quel desiderio fosse infantile, irrealizzabile e imbarazzante, finché rimaneva nella sua mente restava una piccola scena privata che ogni tanto si concedeva di sbirciare dalla porta socchiusa dei suoi desideri. E tanto bastava.
A causa di questi suoi pensieri non si rese conto che Laroche gli aveva fatto una domanda e tornò in sé solo quando il soldato lo chiamò per nome.
« Cosa? » domandò, riportando l’attenzione alla realtà.
« Vi ho chiesto se quello è un regalo della vostra amata, signore » ripeté l’uomo.
D’Artagnan guardò il ciondolo. Un sorriso mesto gli inclinò l’angolo delle labbra. « In un certo senso » rispose laconico. « L’ho rubato, in realtà. Lei... non c’era quando sono partito per il fronte ».
Forse non era giusto nascondersi così, non davanti a loro. Non dopo che i suoi uomini gli avevano dato la loro fiducia più completa e avevano messo le loro vite nelle sue mani. Tuttavia D’Artagnan non poteva permettersi di rischiare una loro reazione negativa, non poteva permettersi di mettere a rischio il meccanismo bene oliato che era diventata la sua squadra in tutti quei mesi. Il suo onore non sarebbe rimasto macchiato da una menzogna detta in buona fede, detta per proteggere se stesso e Athos.
« Posso chiedere il perché se non sono troppo indiscreto? » domandò Guillon. D’Artagnan diceva sempre talmente poche cose di sé che qualsiasi parola sulla sua vita era motivo di interesse per tutta la squadra.
« Abbiamo discusso in merito al motivo della mia partenza » disse, scuotendo piano la testa prima di continuare, « sono stato uno stupido e ho stuzzicato un uomo potente. Un nobile. Ho fatto delle... cose che agli occhi della legge non sono legali e questa persona ha minacciato di denunciarmi. »
L’attenzione dei suoi uomini era tutta su di lui e D’Artagnan cercò di rendere le sue mezze verità più sincere possibili. Una forma particolare di rispetto che a quegli uomini era dovuto.
« Avrei rischiato non solo la mia vita, ma anche quella della mia amata e dei miei fratelli d’arme. Forse anche quella del mio Capitano. Non potevo permetterlo. Il nobile voleva liberarsi di me così mi ha offerto il suo silenzio in cambio della mia partenza per il fronte e io ho accettato. »
Fece una piccola pausa, tornando a rigirarsi il ciondolo d’argento fra le dita. « Non avevo scelta. Ma Ath... lei è molto orgogliosa. Non accetta di farsi salvare dagli altri, non vuole farsi salvare. Ha preso il mio tentativo di salvarla come un tradimento e da quella sera non l’ho più vista » terminò.
Seguirono alcuni minuti di silenzio in cui D’Artagnan baciò il ciondolo e lo rimise sotto la camicia. « Che donna! » commentò allora Laroche con un fischio di approvazione. « Non preoccupatevi Tenente, sono sicuro che quando tornerà a Parigi lei sarà lì ad aspettarvi » aggiunse poi, forse per tirargli su il morale.
D’Artagnan si limitò a sorridere senza rispondere niente. Era incredibile quante cose si potevano nascondere dietro ad un sorriso e D’Artagnan vi nascose i suoi dubbi e la sua ansia, in modo che i suoi uomini non potessero vederli.
La conversazione era già ricominciata fra i suoi uomini quando la porta del fienile si spalancò. I soldati scattarono in piedi con le spade alla mano, alcuni con le pistole, ma sulla soglia si palesò solo la donna della fattoria, ferma immobile sotto la minaccia delle armi. Probabilmente avrebbe alzato le mani se non le avesse occupate trasportando una pentola di rame e alcune coperte di lana.
« Abbassate le armi » ordinò D’Artagnan, avvicinandosi poi alla donna. Quella sembrò tranquillizzarsi e riuscì persino a piegare le labbra in un sorriso agitato.
« Per voi, » disse lei in un francese stentato e dal forte accento germanico. Laroche si occupò di prendere la pentola – che si rivelò essere piena di una zuppa densa di cipolle e patate – e lei stessa offrì le coperte agli altri soldati, finché non rimase con una mantella corta di pesante lana grigia che porse a D’Artagnan.
Charles la accettò e ringraziò. Il volto della donna si illuminò e disse qualcosa nella sua lingua che D’Artagnan non capì.
« Sta dicendo qualcosa riguardo al figlio » lo informò Lucas. « Credo che voi gli assomigliate, signore. »
« Chiedile dov’è suo figlio » disse Charles. Lucas fece del suo meglio per farsi capire e la donna rispose, scuotendo il capo.
« In guerra. Hanno preso anche tutti i cavalli » tradusse Lucas.
Con un ultimo sguardo alla donna, Charles si slegò la cappa e indossò la mantella sopra il farsetto. Gli cadeva un po’ larga sulle spalle e lunga fino alle cosce, ma cominciò subito a sentire gli effetti benefici della lana. Il sorriso della donna si fece più largo e si appoggiò una mano sul petto prima di toccare, con la stessa mano, quello di D’Artagnan. È tua ora, sembrava dire, e per questo non gli serviva una traduzione. Charles la ringraziò con un inchino e lei lasciò il fienile con il sorriso sulle labbra.
Era strano pensare a lei come un nemico davanti a tutta quella gentilezza. Se quella donna avesse reagito quando loro erano entrati in casa, o avesse fatto anche solo un movimento strano, probabilmente D’Artagnan l’avrebbe uccisa e l’avrebbe considerata un effetto collaterale della missione. Ma ora, davanti ad una zuppa calda e con una mantella di lana morbida sulle spalle, si chiedeva chi fossero, in realtà, quelle persone che il suo Re aveva definito “nemici”. Si rendeva conto che esistevano realtà come quella, in cui una donna rimasta sola aiutava un plotone di soldati “nemici” a sfamarsi e a ripararsi dal freddo senza volere nulla in cambio, solo in memoria di un figlio che forse non sarebbe tornato a casa. Un figlio che forse D’Artagnan aveva già ucciso senza saperlo.
Ma non c’era tempo per questo. Non aveva tempo per pensare ai sensi di colpa, tanti e di varia natura, che rimanevano acquattati nell’ombra alle sue spalle in attesa che abbassasse la guardia. Quella era la guerra: un posto dove era sempre meglio uccidere per primi, dove gli assassini diventavano eroi e dove i sensi di colpa erano un intralcio. Un posto dove non importava essere persone per essere soldati. Un posto dove la gentilezza di una donna sola al mondo non era qualcosa da apprezzare, ma qualcosa di cui approfittare.
Molte volte D’Artagnan si era chiesto cos’era diventato durante quei mesi al fronte. Se aveva perso la sua umanità da quando aveva indossato la cappa blu dell’Armée de Terre, così tanto da diventare irriconoscibile. Se l’amarezza, l’astio e il rimpianto non lo avessero trasformato in un burattino senz’anima e senza cuore. Se la sua convinzione di trovarsi lì per proteggere le persone a lui care non fosse solo una scusa, un tappeto sotto cui nascondere la sua codardia.
Lui come tutti i soldati francesi era un assassino che si fregiava del titolo di eroe e avrebbe dovuto vergognarsi di se stesso.
Invece si sedette di fianco a Serre e mangiò la zuppa.
 
 
Non sentiva dolore.
C’era uno squarcio sulla sua coscia, una ferita profonda che aveva imbrattato i pantaloni di sangue fino allo stinco, ma non sentiva dolore. Forse era il pericolo, l’agitazione. Aramis lo diceva sempre: il dolore arriva dopo.
La missione era andata a buon fine. Avevano recuperato più documenti possibile, intascandosi mappe e schemi e missive, ma proprio mentre stavano per battere in ritirata erano stati scoperti. Hondschoote era come la Calais dell’esercito asburgico: erano pochi i civili che ancora ci abitavano e la maggior parte delle case e delle taverne ospitava soldati nemici. Era esattamente come dare un calcio a un nido di calabroni.
Qualcuno doveva aver pregato per la loro sopravvivenza perché riuscirono, chissà per quale miracolo, ad arrivare alle stalle e a rubare quattro cavalli. Avevano dovuto lottare per sfuggire ai soldati, nascondersi e uccidere a sangue freddo chiunque capitasse a tiro, e alcuni di loro avevano pagato con il sangue quella missione suicida; Lucas aveva ancora la punta spezzata di un fioretto che gli usciva dalla spalla mentre Joubert era stato colpito alla testa dal calcio di un fucile e aveva fatto gli ultimi metri ancorato ad Armand.
Per quanto riguardava lui, Charles non si ricordava nemmeno come era arrivato in groppa al cavallo con Laroche dietro di sé. Cominciava a sentirsi debole, sicuramente per via della perdita di sangue, ed era arrivato ad un punto in cui i ricordi si confondevano con l’immaginazione. Il suo udito era ovattato e le dita delle sue mani avevano cominciato a tremare. Fortunatamente Laroche teneva le redini e, fra il rumore degli zoccoli della bestia e gli spari che li inseguivano, D’Artagnan non riusciva nemmeno a capire se stava parlando o muoveva semplicemente la bocca senza emettere suoni.
« Resistete signore! » sentì esclamare Laroche accanto al suo orecchio. « Non chiudete gli occhi, non dormite! »
Perché dovrei? Pensò D’Artagnan, ma non fece nemmeno in tempo a pronunciare quelle parole che la ferita alla gamba cominciò – finalmente – a fare male.
Fu come una marea, o un’ondata di piena. Cominciò pian piano e si irradiò in tutto l’arto fino al fianco. All’improvviso la sua gamba stava bruciando, o marcendo. Il galoppo del cavallo mandava fitte acute per tutto il muscolo e D’Artagnan afferrò forte la coscia e il tessuto lacerato dei pantaloni, convinto chissà perché che stingerla aiutasse. Ma la sua mano non fece altro che bagnarsi del proprio sangue. Alla fine non trattenne un gemito sofferente e strinse forte gli occhi, alzando il volto verso l’alto e spingendo così la testa nella spalla di Laroche.
« Lo so che fa male, lo so, lo so » gli stava dicendo il soldato, l’ansia palese nella sua voce, « appena saremo abbastanza lontani vi aiuteremo, signore, ma dovete rimanere sveglio, sveglio! »
Ma aveva perso troppo sangue, e il dolore era insopportabile, e D’Artagnan non poté fare nulla per impedire al mondo di distorcersi, poi di oscurarsi. Perse i sensi.
 
 
Fu difficile andare avanti per lui nei tre giorni che seguirono. Guillon aveva ricucito e fasciato la ferita come meglio poteva, ma era profonda e la pelle ai margini era rossa e calda. D’Artagnan provava solo dolore nei suoi momenti di veglia, dolore e nient’altro, e senza il latte di papavero per alleviarlo le prospettive che la situazione migliorasse erano misere.
E non migliorò. Al secondo giorno di viaggio la lacerazione mostrò segni di infezione e già al terzo D’Artagnan era in preda a febbre alta. Era ormai delirante quando finalmente arrivarono a Calais e fu trasportato di peso alla chiesa del paese, trasformata per l’occasione in un ospedale da campo.
Per tre giorni non fece altro che dormire, salvo svegliarsi in preda alla febbre e gridando per il dolore. Il quarto giorno la pelle sui bordi della ferita cominciò a marcire e i chirurghi furono costretti a tagliargliela via, in modo da evitare che la cancrena si espandesse e rendesse necessaria l’amputazione dell’intera gamba. Non c’era abbastanza latte di papavero per tutti i feriti così Charles dovette lottare l’infezione e l’incessante dolore con l’aiuto del laudano, che però gli faceva alzare la febbre. Nella notte fra il sesto e il settimo giorno – una notte in cui D’Artagnan si sentiva bruciare come se fosse stato scagliato fra le fiamme dell’Inferno – i medici dovettero immergerlo in un catino d’acqua gelida per contrastare il calore del suo corpo ed evitare che il suo cervello bollisse all’interno del cranio.
Era solo vagamente consapevole di chi c’era al suo fianco. Ogni volta apriva gli occhi su un volto diverso; persone che conosceva, ma per qualche strano motivo non riusciva mai a ricordare i nomi, o chi fossero. Si sentiva sempre confuso e incredibilmente debole e il dolore oscurava qualsiasi altro pensiero cosciente. Le persone parlavano con lui ma, anche se sentiva le loro parole, sembrava non capirle o capirne solo dei pezzi. A volte cercava di rispondere ma non sapeva mai se aveva parlato o si era limitato a muovere le labbra senza emettere suono. Quando ci riusciva, non sapeva cosa stava dicendo la metà del tempo. Era come avere tanti pensieri e non riuscire a metterli in fila, come essere intrappolati in un incubo senza capo né coda e senza nessuna via d’uscita.
Dopo dieci giorni senza nessun miglioramento i medici avevano perso la speranza. Sembravano restii a sprecare per lui importanti risorse che potevano essere usate per salvare altri soldati in condizioni meno gravi delle sue. Era come se la sua vita fosse immeritevole di essere salvata, come se la sua presenza fosse solo un disagio. Nessuno, dopotutto, si sarebbe sorpreso della morte di un soldato al fronte e il suo ferimento in azione sarebbe stato motivo di orgoglio per coloro che lo avrebbero pianto. Una morte onorevole, tutto sommato.
Fu, sorprendentemente, il Colonello Valette ad insistere perché i medici non lo abbandonassero. Probabilmente la morte sarebbe stata una scelta più onorevole (e forse anche la più magnanima) ma riuscì a convincerli a fare un ultimo tentativo. La loro soluzione fu di praticargli un salasso, convinti che l’infezione fosse ormai arrivata al sangue nonostante la ferita fosse stata ripulita dal tessuto necrotizzato e fosse ormai in via di guarigione.
Fu poche ore prima del salasso che Lucas si sedette accanto al suo letto. La ferita alla spalla era ormai guarita ma la lama aveva fatto più danno del previsto. Era fortunato a muovere ancora il braccio, gli avevano detto, e di sicuro non avrebbe mai più impugnato né un fioretto né un moschetto. Per l’Armée de Terre era ormai inutile, perciò sarebbe tornato a casa.
« Passerò prima per Parigi » gli aveva detto, e il nome della città aveva attirato l’attenzione di D’Artagnan quel tanto che bastava.
Aveva tenuto stretto il ciondolo d’argento di Athos per tutto il tempo. Esattamente come un amuleto, o un crocifisso, Charles traeva forza da quell’oggetto, dal ricordo che quel pendente potava con sé. Ma cominciava a pensare che non avrebbe mai più visto il giorno in cui sarebbe tornato al suo legittimo proprietario e lui non voleva morire da ladro, non voleva portare sottoterra con sé una parte così importante di Athos.
« Parigi... » riuscì a pronunciare con un filo di voce, e Lucas si avvicinò per poter sentire meglio. D’Artagnan alzò faticosamente la mano e fece cadere il pendente in quella aperta del soldato. « I Moschettieri... cerca Athos. Digli che mi dispiace... » deglutì un nodo alla gola prima di continuare, « digli che ho mantenuto la promessa ».
Non seppe mai se Lucas aveva capito la portata della sua richiesta, se aveva compreso chi era in realtà Athos per D’Artagnan. Il ragazzo chiuse la mano sulla catenina d’argento e annuì piano, gli occhi lucidi di lacrime non versate. « Lo prometto » disse.
D’Artagnan sorrise e chiuse gli occhi.
 
 
Il salasso non fece altro che indebolirlo ancora di più. Ormai non riusciva più neanche a sedersi – nemmeno se aiutato – e solo ingoiare quelle poche cucchiaiate di brodo due volte al giorno era più faticoso di quanto avrebbe dovuto essere. Dormiva per la maggior parte del tempo e quando non era addormentato sembrava catatonico, lo sguardo fisso. Come se si fosse arreso e stesse solo aspettando che la Nera Mietitrice venisse a prenderlo. Non rispondeva più a nessuno stimolo e nonostante i suoi uomini venissero a trovarlo appena possibile, uno alla volta o a coppie o anche tutti insieme, D’Artagnan non provava più a rispondere alle loro domande, e molto probabilmente aveva persino smesso di ascoltarle. Qualche anima pia ancora riusciva a fargli assumere una dose di laudano ogni tanto, ma nessuno interveniva durane i picchi altissimi di febbre che seguivano la somministrazione, lasciando D’Artagnan ad agonizzare in silenzio in un bagno di sudore.
La speranza di tutti era che morisse e che quella sofferenza avesse fine. Una speranza che D’Artagnan, nei suoi brevi e sempre più sporadici momenti di lucidità, condivideva.
Era stato molte volte ad un passo dalla morte durante quel periodo ma una sera il momento sembrò particolarmente vicino, il passo più breve. L’ennesima dose di laudano lo aveva gettato di nuovo all’Inferno e questa volta sembrava proprio che non ne sarebbe più uscito.
Era pronto a lasciarsi andare. Durante quell’ultimo mese aveva avuto tempo e modo di fare pace con se stesso, di accettare gli errori e i rimpianti a cuore aperto, e aveva imparato a considerare la morte non come la fine di tutto, ma come una liberazione. Molte volte quel pensiero era dovuto al dolore, o alla paura, ma questo non lo rendeva meno concreto, non lo rendeva meno veritiero. Voleva morire e si accorse che il momento era vicino quando sentì la voce di sua madre cantare la ninna nanna di quando era piccolo, e le mani ruvide e callose di suo padre accarezzargli i capelli.
In mezzo alla febbre, al dolore e alla malattia, D’Artagnan trovò il coraggio di sorridere. I suoi genitori lo avrebbero accompagnato ovunque fosse diretto, a prescindere da cosa ci fosse dall’altra parte.
I suoi respiri si fecero più calmi, i battiti del suo cuore rallentarono.
Chiuse gli occhi.
 
 
***
 
 
L’estate era afosa e umida quell’anno. Era scesa su Parigi come il velo di una vedova e non era più andata via, rendendo l’aria pesante e trasformando la capitale in un buco nauseabondo (ancora più del solito).
Athos era seduto al tavolo della Guarnigione, intento a farsi passare i postumi di una sbornia e a osservare Porthos allenare le nuove reclute. Aramis, seduto accanto a lui, ridacchiò all’ennesimo novellino sbattuto a terra dalla brutale forza del loro fratello d’arme, che sembrava divertirsi come un matto nonostante il caldo soffocante.
Athos non aveva più allenato nessuno da un anno a quella parte. In realtà erano molte le cose che non aveva più fatto, da un anno a quella parte. Sorridere, per esempio. Parlare, confidarsi. Porthos e Aramis ci avevano provato più e più volte ma in quelle rare occasioni in cui Athos aveva pensato di aprirsi, in cui aveva persino provato a pronunciare una frase che contenesse il suo nome, le parole gli erano morte in gola e lui le aveva ingoiate insieme al vino. Quel nome, e i ricordi che esso portava con sé, erano segreti che venivano sussurrati nel buio immobile di una stanza, compagni di notti disperate in cui persino bere era inutile. Notti in cui Athos malediceva se stesso, poi malediceva D’Artagnan, poi malediceva Dio e finiva per disfarsi le nocche contro il muro nel tentativo di placare la rabbia che ruggiva dentro di lui, pallida eco dell’immenso dolore che giaceva al di sotto.
Cinque anni per imparare a vivere in un mondo senza Anne, riuscendoci a malapena dopo aver dovuto dimenticare se stesso per riscriversi da capo. Un anno era passato da quando D’Artagnan se ne era andato e ancora Athos faticava a trovare una ragione per alzarsi dal letto ogni singolo giorno di quella vita.
Porthos e Aramis erano una ragione abbastanza valida, con la loro amicizia incrollabile e la loro pazienza, la loro fedeltà nei momenti in cui Athos non parlava e loro capivano in silenzio. La loro forza, perché D’Artagnan aveva lasciato dietro di sé una voragine in cui Athos era affondato fino al collo ma che aveva risucchiato anche Aramis e Porthos in egual misura.
L’unica cosa che impediva loro di mollare, e ad Athos di annegare, era la speranza.
Una speranza che morì in quel caldo giorno d’estate.
« Sto cercando Athos! »
Farsetto e cappa blu con lo stemma del giglio d’oro francese. Stivali che avevano visto tempi migliori. Un fioretto e una pistola, la postura rigida, lo sguardo stanco. Un soldato. Giovane, ma pur sempre un soldato. Impossibile sbagliare: Aramis e Treville erano stati in guerra e c’erano momenti in cui, ancora oggi, avevano dipinto in faccia quello stesso sguardo.
La divisa, poi, non lasciava dubbi. Armée de Terre.
« Lo avete trovato » rispose Athos, alzandosi e dirigendosi verso il giovane soldato. Aramis e Porthos lo seguirono e affiancarono.
« Il mio nome è Lucas » si presentò e mentalmente Athos pensò che era troppo giovane per indossare quello sguardo. « Sono qui per mantenere una promessa fatta al mio comandante, Charles D’Artagnan » disse, e il suono di quel nome tolse ad Athos l’aria dai polmoni. Sentì solo marginalmente Aramis e Porthos farsi più vicini a lui, in segno di silenzioso supporto, perché la sua concentrazione era tutta sul giovane che aveva davanti e che sembrava essere incerto su come proseguire.
« Era il mio caposquadra, il migliore che io abbia mai avuto. Sono onorato di aver combattuto al suo fianco, fino a che mi è stato possibile ».
Perché sta parlando al passato? Fu il primo pensiero che riempì la mente del moschettiere. Poi vide Lucas affondare una mano nella tasca del farsetto e tirarne fuori qualcosa.
No, la mente di Athos gridò quando notò la catenina d’argento. Il soldato gliela porse e lui allungò la mano automaticamente, lasciando che appoggiasse il pendente sul suo palmo aperto. Era incrostato di sangue e ad Athos venne da vomitare.
« È stato ferito in battaglia » spiegò Lucas con profondo rammarico. « Eravamo lontani dall’accampamento e la ferita si è infettata in fretta. Lui... ecco... lui mi ha detto di dirle che gli dispiace e che ha mantenuto la promessa. »
Morirò amandoti o morirò con te.
Athos non vide Lucas andarsene, così come non sentì Aramis ringraziarlo e augurargli buon viaggio. Aveva gli occhi fissi sul piccolo gioiello d’argento che D’Artagnan aveva portato con sé come memento quando lui era stato troppo stupido, troppo egoista per presentarsi il giorno della sua partenza.
Non lo aveva nemmeno baciato un’ultima volta. Non gli aveva detto “ti amo” un’ultima volta. Le sue ultime parole erano state dettate dalla rabbia e ora lo aveva perso, ora non avrebbe più potuto fare ammenda. Charles, il suo Charles, non sarebbe tornato e questa volta non era un inganno, questa volta era tutto vero.
Aramis e Porthos lo sorressero in silenzio mentre il suo intero mondo crollava un’altra volta.
 
 
***
 
 
D’Artagnan riaprì gli occhi, una mattina d’autunno umida e ventosa e persino i medici che lo avevano curato faticarono a crederci.
Serre, che quel giorno era accanto alla branda in cui Charles era disteso ormai da mesi, lo guardò come se gli fosse improvvisamente spuntata una seconda testa. D’Artagnan ci mise un po’ per capire dove si trovasse e cosa stesse succedendo esattamente, ma una volta che il suo mondo si fu riassestato sorrise al Sergente e lo salutò con un filo di voce.
Ci mancò poco che Serre piangesse. Borbottò qualcosa a proposito dei miracoli e della bellezza dei discorsi coerenti e corse fuori dalla chiesa, lasciando D’Artagnan ancora più confuso di prima.
Entro l’ora tutti sapevano che si era svegliato e allo scoccare della seconda i suoi uomini erano appollaiati intorno alla sua branda, intenti a raccontargli ciò che si era perso negli ultimi mesi.
Charles seguiva ogni discorso ed ogni racconto meglio che poteva, ma la malattia lo aveva debilitato incredibilmente. Aveva perso peso e tono muscolare, si sentiva le braccia e le gambe intorpidite e pesanti e qualsiasi movimento che faceva era lento ed esasperante. Alzarsi dal letto era fuori discussione e quando aveva provato a mettersi seduto – per riuscire, finalmente, a mangiare qualcosa da solo – non era riuscito a sollevare il busto dal materasso nemmeno con l’aiuto di Laroche. Il suo corpo non seguiva più i suoi ordini e, cosa che non sopportava, sembrava stancarsi velocemente. Molte volte aveva perso stralci di conversazione appisolandosi improvvisamente e il solo muovere un braccio per afferrare un bicchiere d’acqua o per grattarsi il naso sembrava un’impresa erculea e lo lasciava sfinito.
I medici gli avevano detto che era normale, che il suo corpo era completamente drenato di energia, ma il saperlo non contribuiva a placare il senso di impotenza che affliggeva Charles.
In quel momento, era solo un ammasso di pelle e ossa su di una brandina.
 
 
Mentre D’Artagnan si rimetteva in forze e riprendeva il controllo del suo corpo, la guerra mieteva vittime e peggiorava di giorno in giorno. La compagnia d’istanza a Dunkerque era allo stremo delle forze e l’esercito francese non poteva proprio permettersi di perdere la città.
Valette gli faceva spesso visita, soprattutto la sera, e dopo che D’Artagnan lo ebbe ringraziato a dovere per essersi occupato di lui venne anche a sapere che il Capitano vedeva in lui un eccellente leader e un potenziale Capitano. Ben presto si ritrovarono a discutere di strategia militare e di dislocamento di truppe e Valette dovette prendere seriamente in considerazione le sue idee, perché D’Artagnan si trovò sempre più spesso il letto circondato da ufficiali e le coperte disseminate di mappe. Fu sua la strategia che convinse il Colonnello a mandare i rinforzi a Dunkerque e a scagliare un ultimo attacco all’esercito nemico, con l’obiettivo di riconquistare l’avamposto. D’Artagnan era semplicemente soddisfatto di poter essere utile in qualche modo e ringraziò silenziosamente Dio di essere sotto l’ala protettrice di Valette, perché le occhiatacce piene d’invidia che Mercier gli riservava avrebbero fatto tremare anche il defunto Cardinale Richelieu.
 
 
Mentre l’inverno avanzava e passava D’Artagnan dovette imparare a camminare di nuovo.
Inizialmente anche alzarsi in piedi era difficile. Era stato fermo troppo a lungo e i suoi muscoli non erano più come prima, inadatti a portare il suo peso. La prima volta collassò al primo passo e dovette aspettare giorni prima di provare ancora, cominciando a fare piccoli esercizi con le gambe da steso e da seduto. I medici militari non erano come i medici di Parigi, non sapevano niente oltre le tecniche di primo soccorso, la suturazione delle ferite e l’amputazione degli arti (tutto quello che serviva sapere su un campo di battaglia) e se già le sue cure erano state basate più sulla logica che su conoscenze tangibili, la sua riabilitazione era dettata per la maggior parte dal buon senso.
Finalmente, alla caduta della prima neve, D’Artagnan riuscì ad alzarsi e a camminare. Armand commentò i suoi progressi con un ironico « alzati e cammina, Lazzaro! » che fece ridacchiare anche Valette, ormai onnipresente sulla sedia di fianco al letto. Charles aveva la sensazione che, se non si fosse ristabilito entro breve e non fosse riuscito ad andare nell’ufficio di Valette sulle sue gambe, probabilmente il Colonnello lo avrebbe fatto trasferire in pianta stabile nell’ex ufficio postale con la branda e tutto. Fortunatamente non fu quello il caso.
La ferita alla gamba aveva lesionato il muscolo e pian piano D’Artagnan si accorse che non sarebbe mai riuscito a camminare come prima. Impiegò settimane prima di riuscire a portare tutto il peso sulla gamba destra senza che gli facesse male e nonostante i suoi sforzi gli rimase una lieve zoppia. Correre si dimostrò arduo ma con una discreta dose di caparbietà riuscì a vincere anche quella battaglia.
Fu quando riprese in mano il fioretto, però, che si sentì più incapace di un ragazzino alle prime armi. La gamba lo torturava tutte le volte che si metteva in posizione e i movimenti che gli venivano così bene prima di Hondschoote ora erano rigidi e spezzati. D’Artagnan fece del suo meglio per ricordarsi le lezioni di Athos, per ricreare la danza in punta di spada che rendeva il suo amante uno dei migliori spadaccini di Parigi, ma si rese conto in fretta che la sua gamba malandata non poteva sopportare quel tipo di movimenti e il muscolo lesionato lo rendeva troppo goffo e sgraziato per aspirare a replicare quella tecnica.
Abbandonare il fioretto era fuori discussione. Sapere usare una spada in modo efficiente era essenziale per essere un Moschettiere, senza quella capacità sarebbe stato sbattuto fuori dalla guarnigione. Il solo pensiero gli faceva venire la nausea. Non poteva permetterlo.
E non lo avrebbe permesso. Non si arrese, D’Artagnan, e grazie alla testardaggine che lo contraddistingueva adattò la sua danza alla sua “nuova” gamba, favorendo la sinistra e usando la destra solo come appoggio per mantenere l’equilibrio. Serre si offrì di fargli da avversario e quando lui non era disponibile (i suoi uomini andavano e venivano da Dunkerque, seguendo una strategia di cambi frequenti che Charles stesso aveva proposto a Valette) ci pensavano Armand e Joubert a sostituirlo. Continuarono ad allenarsi finché D’Artagnan non fu in grado di sconfiggerli tutti più volte di fila e solo allora si sentì soddisfatto dei suoi progressi. Certo, il suo stile non era convenzionale, ma finché riusciva a vincere un duello la tecnica classica aveva poca importanza.
Ovviamente la sua zoppia portava a degli svantaggi. Non riusciva più a percorrere lunghi tratti a piedi perché la sua gamba cominciava a dolere e il muscolo a cedere e il suo combattimento corpo a corpo ne risentì pesantemente. Avendo Porthos come suo insegnante, ed essendo così snello, la tecnica di combattimento di D’Artagnan si basava sulla rapidità dei movimenti, cosa su cui non poteva più contare. E combattere contro Laroche era come scontrarsi di faccia contro un muro di mattoni.
Fortunatamente la sua abilità con il moschetto non ne risentì. Aramis sarebbe stato fiero della sua mira se lo avesse visto.
Pensare ai suoi fratelli d’arme, e soprattutto pensare ad Athos, diventava più facile e meno doloroso giorno dopo giorno. Ora riusciva a ricordarli con un sorriso sulle labbra, gustando piano i ricordi felici prima di addormentarsi. A volte la sua mano sfiorava inconsciamente il punto in cui il ciondolo era solito toccare la sua pelle e percorreva con le dita la sensazione fantasma della catenina d’argento.
L’inverno stava per finire e dopo mesi e mesi di sofferenza e duro lavoro sarebbe presto tornato in battaglia.
 
 
Quel momento non arrivò mai. Valette lo convocò nel suo ufficio pochi giorni prima della sua partenza per Dunkerque e gli disse che Re Luigi lo aveva convocato a Parigi. Il Re era venuto a sapere del suo contribuito strategico alla campagna di Dunkerque – sicuramente per mano dello stesso Colonnello – e lo aveva congedato con onore. Sarebbe tornato a Parigi per incontrare il Re a palazzo, dopodiché sarebbe potuto tornare alla sua vita.
D’Artagnan non sapeva se sentirsi sollevato o triste. Da una parte non voleva abbandonare i suoi uomini in una situazione così importante; certo, Dunkerque era ormai riconquistata e l’esercito nemico si stava ritirando dalla città, ma la battaglia non era ancora vinta. D’altro canto tornare a Parigi significava rivedere Athos e in cuor suo non poteva, non voleva, ritardare quell’incontro un attimo di più.
Il Tenente Charles D’Artagnan partì da Calais il primo giorno di primavera, esattamente due anni dopo aver lasciato Parigi. Lasciava dietro di sé amici e compagni di cui avrebbe sentito la mancanza ma si metteva in marcia consapevole di una cosa: stava tornando dalla sua famiglia, e questo soppiantava tutto il resto.
 
 
P A R T E     I I I
 
 
Forse si aspettava che Parigi fosse cambiata nel corso degli ultimi due anni.
Ma la capitale era sempre la stessa. Le strade piene di gente, i mercati affollati, gli odori, il caldo. Gli sembrava quasi di essere partito ieri. I muri delle case avevano gli stessi colori e le strade portavano sempre negli stessi posti.
Anche il palazzo non era cambiato. Con i suoi giardini ben curati e gli arbusti in fiore, l’erba verde e gli alberi rigogliosi. Alcune dame con abiti gonfi in tenui colori pastello conversavano amabilmente davanti a un calice di vino, godendosi il caldo sole della primavera. Una realtà così lontana da quella che lui aveva vissuto negli ultimi due anni e che lo fece sentire enormemente fuori posto. Persino la guardia che lo accolse ai cancelli e lo guidò all’interno del palazzo aveva la divisa impeccabile e la pettorina tirata a lucido, cosa che non si poteva dire del farsetto e della cappa indossati da D’Artagnan. Quegli abiti avevano visto pioggia e fango, neve e vento, sangue e polvere da sparo e lame di fioretto. Erano stati strappati e ricuciti un numero infinito di volte e, nonostante facessero ancora il loro dovere, avevano pagato il pegno del tempo. A Calais era motivo di orgoglio avere una divisa rattoppata e sgualcita, segno tangibile delle battaglie affrontate. Ma a palazzo, in mezzo a tutto quello splendore e quell’eleganza, lo stato dei suoi abiti lo metteva a disagio. Così come le occhiate che i cortigiani e i servi di palazzo gli lanciavano mentre passava.
Arrivarono in silenzio davanti alle porte dello studio del Re e la guardia lo fece aspettare in corridoio. Sparì dietro le porte dell’anticamera, probabilmente per andare ad annunciarlo. Charles sospirò e si appoggiò con la schiena al muro, già stanco di tutto quello sfarzo.
« D’Artagnan! »
Alzò gli occhi dal pavimento e non poté fare a meno di sorridere quando vide Constance correre verso di lui, impacciata nel suo abito azzurro cielo. Lo abbracciò stretto e D’Artagnan ricambiò il gesto. La sentì tremare sotto le sue mani ma Charles non disse nulla a proposito delle sue lacrime.
« Sei vivo... » sussurrò lei sulla sua spalla, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. « Sei vivo. Avevano detto che... Aramis aveva detto che... » balbettò, posandogli le mani sulle guance e guardandolo con gli occhi rossi e lucidi.
Aramis. Questo voleva dire che Lucas era effettivamente arrivato a Parigi e che Athos lo credeva morto.
Avrebbe dovuto spiegare tante, tante cose.
« Ci sono andato vicino » disse a Constance. Prese fiato per spiegare, per aggiungere qualcosa, ma tutto ciò che gli uscì di bocca fu un « molto vicino ».
« Perché non hai mai scritto? » domandò lei e D’Artagnan scosse piano il capo.
« I messaggeri erano molto sporadici. Non sono mai riuscito a inviare le mie lettere e... beh, verso la fine non ero nemmeno in condizione di scriverne una » spiegò.
Constance fece una smorfia triste e gli posò un bacio gentile sulla guancia. Avevano molto di cui parlare, e D’Artagnan aveva molte domande da farle, ma il tempo a loro disposizione era scaduto: la Guardia Rossa che lo accompagnava uscì dalla porta e la tenne aperta per lui.
« Il Re è pronto per riceverla, Tenente ».
D’Artagnan annuì, tornando a guardare Constance. Bastò loro un’occhiata per decidere che si sarebbero rivisti e, con un altro bacio sulla guancia, la donna lo lasciò andare.
 
 
Lo studio del Re non era meno sfarzoso della sala del trono, o di tutto il resto del palazzo. Tutto urlava ricchezza e potere: dalle tende di velluto ocra e seta bianchissima agli arazzi appesi alle pareti, dal pavimento in costosissimo marmo italiano ai mobili in mogano e ciliegio. Era talmente grande da contenere la stanza condivisa con Serre a Calais almeno quattro volte, e i soffitti talmente alti che D’Artagnan si chiedeva come riuscissero i domestici a togliere le ragnatele dagli angoli.
Il Re era seduto alla scrivania al centro della stanza, intento a firmare alcuni documenti che Rochefort, in piedi accanto a lui, gli passava metodicamente. La Regina Anne era invece alla finestra, intenta a mostrare qualcosa al Dauphin che teneva fra le braccia. D’Artagnan si soffermò un attimo a pensare a quanto fosse cresciuto l’erede al trono di Francia dall’ultima volta che lo aveva visto. Forse quello era il primo segno visibile di quanto lunghi fossero stati quei due anni.
Si avvicinò alla scrivania, facendo del suo meglio per non zoppicare troppo visibilmente, e si inchinò con reverenza a Re Luigi.
«Vostra Maestà, mia Regina » salutò, per poi aggiungere causticamente: « Comte de Rochefort » come se pronunciare quel nome lasciasse automaticamente un sapore aspro sulla sua lingua. Rochefort non diede segno di essersene accorto.
« D’Artagnan! » esclamò il Re, alzandosi e facendo il giro della scrivania. Gli posò una mano sulla spalla come se fossero vecchi amici e gli sorrise, sinceramente felice di rivederlo. « Temevo che non vi avrei visto mai più per colpa del vostro coraggio » ironizzò. D’Artagnan chinò il capo come ringraziamento per la premura.
« Ho condiviso la stessa paura, Vostra Maestà » rispose cordialmente.
« Non fatico a crederlo. Non ricevo molti rapporti da Calais, è Rochefort ad occuparsi della maggior parte dei documenti, ma le ultime notizie sulle vostre condizioni non potevano lasciarmi indifferente. Valette ha giurato che siete stato un elemento di notevole spessore nonostante i lunghi mesi di convalescenza, e sono venuto a sapere che anche prima dell’incidente avete attirato la sua attenzione » disse, tornando a sedersi alla scrivania. La Regina si avvicinò al marito e gli sorrise gentilmente, lieta di vederlo.
« Ho semplicemente cercato di non deludere le aspettative del Colonnello » rispose D’Artagnan, la menzogna uscì con facilità dalle sue labbra. Tutto ciò che aveva fatto era a scopo di sopravvivere un altro giorno e tornare a casa.
« E sono sicuro che non lo avete fatto » rispose il Re. « Per questo ho deciso di richiamarvi a Parigi. Siete stato un elemento esemplare e, come ricompensa per i vostri sforzi, potete chiedermi ciò che volete. Un titolo nobiliare? Magari una bella tenuta da qualche parte fuori Parigi? » propose, parlandone come se fossero piccoli oggetti che poteva estrarre dal cassetto e regalare a chi voleva.
« Vostra maestà, forse non è appropriato... » cominciò Rochefort, improvvisamente preoccupato, ma il Re lo interruppe con un gesto della mano.
Avrebbe potuto chiedere ciò che voleva e Re Luigi glielo avrebbe dato. Il titolo di Conte magari, così che Rochefort non si sarebbe più potuto permettere di minacciare lui, Athos, i suoi fratelli d’arme e il suo Capitano. Diventare nobile, anche se per editto regale e non per nascita, portava comunque ad una sorta di immunità.
Ma D’Artagnan non poteva giocare questo gioco. Era un contadino, un moschettiere, un soldato. Di certo non un Conte, o un Marchese, o un Barone che dir si voglia. Dio, sapeva a malapena leggere e scrivere, figuriamoci gestire una magione con servi annessi.
E poi, aveva trovato un altro modo per assicurarsi l’immunità che tanto bramava.
« Con tutto il rispetto, Vostra Maestà » cominciò dunque, chinando il capo rispettosamente, « la vostra offerta è generosa e ne sono onorato, ma non posso accettare. Non sono la persona adatta ad un titolo nobiliare. Tutto ciò che voglio essere è un Moschettiere, dunque il mio reintegro nella guarnigione sotto il comando del Capitano Treville è tutto ciò che chiedo. »
Re Luigi gonfiò le guance come un bambino scontento, pronto a lamentarsi della richiesta appena ricevuta, ma la Regina intervenne per prima. « Questo vi fa onore, D’Artagnan » commentò graziosamente. Charles chinò il capo in segno di rispetto e gratitudine.
« E sia » disse dunque il Re, « verrete reintegrato nei Moschettieri e manterrete il vostro grado attuale. Mi occuperò personalmente di avvertire Treville. »
« Grazie, Vostra Maestà » ringraziò D’Artagnan con un inchino. Approfittò poi del dialogo per fare un’altra richiesta. « Se non è troppo invadente da parte mia, potrei parlare qualche istante con il Conte? »
Rochefort aggrottò le sopracciglia, il viso distorto in un’espressione non proprio compiaciuta dalla piega degli eventi.
« Sarà un piacere, sempre che il Re non necessiti della mia presenza » disse l’uomo, e forse sperava che fosse così.
Ma Luigi lo congedò con un gesto distratto della mano. « Andate pure Rochefort. »
Il Conte salutò il Re con un breve inchino. « Da questa parte, Tenente » disse poi rivolto a D’Artagnan, calcando l’ultima parola come se lo infastidisse pronunciarla.
Lo condusse verso la porta e poi lungo il corridoio da cui era arrivato, proseguendo fino alla fine. Svoltò poi a destra in un altro corridoio fino ad arrivare alla porta del vecchio studio di Richelieu, ora ad uso di Rochefort. Una scrivania e scaffali di libri e pergamene li accolsero in silenzio mentre il Conte indicava a D’Artagnan una sedia di fronte alla sua scrivania, dietro la quale lui si sedette.
« Cosa posso fare per voi, Tenente? » domandò il nobile. D’Artagnan decise che avrebbe saltato i convenevoli per il bene di entrambi i presenti.
« La domanda giusta sarebbe cosa voi potete fare per me » disse, sedendosi comodo e allungando la gamba ferita in avanti per far riposare il muscolo leso.
Rochefort sogghignò amaramente. « Immagino vorrete sapere se i termini del nostro “accordo” sono ancora validi » sputò il nobile, « beh, D’Artagnan, devo ammettere che non mi aspettavo certo di vedervi tornare vivo. »
D’Artagnan lo lasciò parlare, guardandosi distrattamente le unghie. La considerazione che le sue mani fossero più rovinate di prima gli attraversò la mente per un istante ma la abbandonò subito, desideroso di non perdere il filo del discorso. Aveva aspettato quel momento dalla sera in cui Armand aveva confessato di essere un falsario e ne aveva dato prova replicando la sua calligrafia disordinata proprio sotto ai suoi occhi.
« Oh, no, non mi interessa sentire di nuovo le minacce con cui mi avete convinto a lasciare Parigi, » disse D’Artagnan con tono fintamente distratto, continuando a guardarsi le unghie con fare noncurante.
Rochefort cominciava ad irritarsi ma non commentò, lasciando silenziosamente la parola a Charles.
« Sapete, due anni in guerra possono cambiare un uomo. Quando non cerchi di farti uccidere per obbedire agli ordini sei steso su una branda a morire, e quelle sono cose che ti fanno pensare. Ma la guerra si è dimostrata comprensiva con me, diciamo, e mi ha dato occasione di mettere mano su alcuni documenti segreti dei nemici. Documenti in cui il vostro nome, Comte de Rochefort, compare ripetutamente » disse.
Non c’era una parola di verità nel suo discorso. Stava giocando con il fuoco in quella stanza ed era come cercare di sparare ad una mela posata sulla testa di un uomo, ubriaco e con gli occhi bendati. Ma tutti hanno degli scheletri nascosti nell’armadio e D’Artagnan sperava ardentemente che quella sua piccola messinscena suicida andasse a sbirciare in quello di Rochefort.
Capì di esserci riuscito quando vide il nobile impallidire.
« Dubito delle vostre parole, » ebbe il coraggio di rispondere, « e anche se fosse, non avete prove. »
« Oh, non mi servono prove, » rispose subito D’Artagnan, come se aspettasse si sentire proprio quelle esatte parole. « Non credo che, in una posizione come la vostra, possiate permettervi un’accusa di spionaggio. Non importa la fonte, per la sicurezza del Re voi sareste allontanato da corte fino a prova contraria. Ed è comunque un’onta che tende a macchiare la reputazione di un uomo. Dunque no, Conte, non mi servono delle prove, tutto sommato » disse, sorridendo maliziosamente nel terminare la frase: « solo ragionevoli dubbi. »
Rochefort parve scosso dalle parole e dall’atteggiamento di D’Artagnan e prese fiato per replicare, ma il moschettiere lo interruppe prima che potesse pronunciare anche solo la prima sillaba. Estrasse dalla tasca interna del farsetto una lettera piegata e chiusa da un sigillo in ceralacca.
« In questo caso, però, ho anche le prove » disse, mostrando la busta e il sigillo a Rochefort senza però permettergli di afferrarla.
« Cos’è? » domandò il Conte.
« Una lettera scritta dall’ufficiale comandante che ha ricevuto e tradotto i documenti. Giura di testimoniare nel caso la questione sia portata all’attenzione del Re » disse Charles. « Ora, Conte, è alla luce di questi eventi che i termini del nostro “accordo” dovrebbero essere rivisti ».
Rochefort era sul punto di esplodere. Sembrava quasi che volesse aggredire fisicamente D’Artagnan ma per qualche miracolo si trattenne. « Vi ascolto » disse fra i denti.
« La situazione è semplice: voi sapete cose su di me e Athos che non devono arrivare alle orecchie del Re, o della Gendarmeria. Io so una cosa su di voi che è meglio che il Re non sappia, nel vostro interesse. Entrambi possiamo usare queste informazioni per discreditare l’altro agli occhi di Re Luigi, a seconda di chi fa la prima mossa » spiegò efficientemente. I mesi passati in compagnia di Valette lo avevano trasformato nell’abbozzo di uno stratega. « Io non ho interesse a minacciarvi, Comte de Rochefort, se voi non minacciate me » concluse.
Il nobile sogghignò ironicamente alle sue parole. « Parlate chiaro Tenente, non amo i giri di parole. »
« Lasciateci in pace e io mi dimenticherò che questa esiste » replicò D’Artagnan, sventolando la lettera.
« Credete davvero di potermi minacciare, D’Artagnan? » domandò il Conte cercando di essere malizioso ma non poté trattenere un accenno di preoccupazione, che gli incrinò la voce.
Il moschettiere fece spallucce. « L’ho appena fatto ».
Rochefort perse completamente il sorriso. Appoggiò le mani sulla scrivania e abbassò la testa, contemplando il problema seduto davanti a lui. Batté un pugno sul legno quando non trovò soluzione e, con i denti serrati dalla rabbia, si rivolse a D’Artagnan e annuì.
Ma Charles non era soddisfatto. Uno penserebbe che gli ultimi due anni gli avessero insegnato a non stuzzicare gli uomini potenti, soprattutto gli uomini potenti che era già riuscito con successo a fare imbestialire, ma l’unica cosa che il moschettiere aveva imparato nelle ultime otto stagioni era come gratificare il suo smisurato orgoglio guascone.
« Voglio sentirvelo dire, Comte de Rochefort. »
Se le occhiate potessero uccidere, D’Artagnan sarebbe morto. « Accetto i nuovi termini dell’accordo » sputò il nobile, velenifero. « Ora fuori di qui ».
D’Artagnan non se lo fece ripetere. Ripose la lettera nella tasca del farsetto e se ne andò senza salutare, zoppicando lievemente fino alla porta dello studio e poi oltre, uscendo da palazzo.
Una volta fuori, guardò il cielo. Improvvisamente l’aria era diventata più fresca e il calore del sole aveva smesso di essere soffocante. Per la prima volta dall’inizio di quell’assurda storia poteva vedere un futuro che non finiva con la morte delle persone che amava.
« Armand è davvero un bravo falsario » mormorò distrattamente, sorridendo al ricordo della notte in cui lui e i suoi uomini avevano inventato il testo altisonante e pomposo della lettera che era ora nella sua tasca e che Armand stesso aveva scritto, copiando di nascosto la calligrafia di Mercier. Un documento finto quanto l’oro degli stolti.2
Prendendo un profondo respiro, si incamminò lentamente in direzione della città. Doveva incontrare delle altre persone – una in particolare – e dopo un’attesa di due anni non voleva assolutamente ritardare ancora.
 
 
Non poté fare a meno di sorridere quando entrò al quartier generale della Guarnigione, in quell’ambiente famigliare che aveva imparato a riconoscere come casa.
Niente era cambiato. Il colore chiaro del legno lo aveva accolto con gentilezza e l’odore di paglia e crine di cavallo era per lui così famigliare da risultare tranquillizzante.
Essendo pieno pomeriggio il posto era semi-vuoto – gli altri moschettieri erano probabilmente a fare la ronda in giro per la città – ma gli addetti alla pulizia delle stalle erano ancora al lavoro e dalle cucine arrivava un odore di stufato di carne che gli fece venire l’acquolina in bocca. Si ripromise di andare a salutare Serge il prima possibile.
Alcuni moschettieri erano seduti ai tavoli, intenti a giocare a carte o a pulire le proprie armi, ma D’Artagnan si accorse che i suoi amici non erano fra loro. Ne rimase deluso ma forse era meglio così. Stava morendo dalla voglia di rivederli ma non si fidava del proprio autocontrollo, in quel momento, e di certo non voleva avere un crollo emotivo davanti a tutta la guarnigione. Fece un cenno con il capo a quei moschettieri che avevano l’aria di averlo riconosciuto – se l’espressione sorpresa con cui lo guardavano era indicativa di qualcosa – e si diresse verso l’ufficio di Treville, salendo piano le scale. Dovette aggrapparsi con forza al corrimano per evitare di sforzare troppo la sua gamba, ma con la dovuta calma riuscì ad arrivare in cima. A quel punto tutti i suoi compagni si erano affacciati per vedere se era davvero lui ma Charles non indugiò in saluti. Per quelli avrebbe avuto tempo, ora doveva chiedere a Treville dove poteva trovare Aramis e Porthos, ma soprattutto Athos.
Deglutendo un moto di nervosismo, bussò. Non ci volle molto perché la voce del Capitano gli accordasse il permesso di entrare e così D’Artagnan aprì la porta.
Treville lo guardò come se avesse appena visto un fantasma, e molto probabilmente il paragone era quello giusto. Lo aveva interrotto mentre stava revisionando e firmando alcuni documenti, a giudicare dalla posizione china e dal quantitativo massiccio di pergamene spiegate sulla scrivania, e la piuma che giaceva dimentica fra le sue dita aveva preso a gocciolare inchiostro.
« D’Artagnan...? » domandò il Capitano stupito e, davvero, Charles non poteva certo biasimarlo.
Sorrise, in un certo senso imbarazzato, e annuì. « In carne e ossa. »
Era raro vedere Treville colto alla sprovvista, ma probabilmente incontrare una persona che doveva essere morta era uno di quei momenti che non lasciava spazio a nient’altro che sorpresa. Si riprese dopo qualche istante e si alzò dalla scrivania, avvicinandoglisi.
« Non so davvero cosa dire oltre che sono incredibilmente felice di vederti » disse, stringendogli la mano e abbracciandolo brevemente. D’Artagnan ricambiò il gesto.
« Vieni, siediti e bevi qualcosa. Raccontami qualcosa degli ultimi due anni. »
Treville recuperò una sedia per D’Artagnan e lo fece accomodare di fianco a lui, recuperando poi una bottiglia di armagnac e due bicchieri che appoggiò sulla scrivania.
« L’occasione è troppo importante per bere vino » scherzò il comandante dei Moschettieri, riempiendo i bicchieri. Brindarono in silenzio e Charles bevve tutto d’un sorso, stringendo gli occhi quando gli bruciò la gola. Treville fece lo stesso.
« Comincia a parlare » disse allora il Capitano e D’Artagnan si riscoprì ansioso di raccontare a qualcuno la sua storia. Non si era reso conto di avere quella necessità finché non si era seduto su quella sedia e all’improvviso sapeva che se c’era qualcuno che poteva davvero capire cosa aveva passato negli ultimi due anni quello era Treville. E forse era proprio per questa sua comprensione che per prima cosa, prima delle domande e dei convenevoli, il comandante gli aveva detto di parlare.
E così D’Artagnan fece.
Fu una storia lunga. Cominciò dal principio, dal suo arrivo a Calais e dalla sua immediata promozione a Sottotenente. Parlò a lungo della sua squadra, di Mercier e di Valette, delle missioni e di Dunkerque. Parlò delle notti al freddo e della pioggia, dei giorni in cui dovevano rimanere accampati al buio perché non potevano rischiare di accendere un fuoco e l’oscurità sembrava inghiottirli, del terreno che era o duro e ghiacciato o pieno di fango senza vie di mezzo. Gli raccontò della missione a Hondshoote e di come era stato ferito. Fece del suo meglio per richiamare alla memoria tutti i mesi passati a marcire su di una branda a un passo dalla morte, convinto che non sarebbe sopravvissuto.
Treville ascoltò in silenzio ma il suo sguardo esprimeva comprensione. A volte le sue labbra si piegavano in sorrisetti amari e Charles era convinto che fosse a causa di un ricordo, di una reminiscenza della guerra che aveva combattuto lui a suo tempo. Quando il racconto terminò e la voce di D’Artagnan sfumò nel silenzio, Treville riempì di nuovo i loro bicchieri e alzò il suo in un brindisi silenzioso.
D’Artagnan non seppe mai a cosa brindò Treville. Lui, dal canto suo, brindò a casa.
« Dunque tornerai a fare parte del reggimento. Ne sono felice » disse il Capitano una volta svuotato il suo secondo bicchiere di armagnac.
« Il Re ha esaudito la mia richiesta, sì » commentò D’Artagnan.
« Peccato, avresti potuto chiedere una tenuta da qualche parte e un sacco di soldi per vivere in pace il resto della tua vita » ironizzò l’uomo.
D’Artagnan sbuffò, divertito. « Mi annoierei e basta. »
Treville sorrise e annuì. « Non mi stupirebbe affatto. Un vero figlio della Guascogna. »
Bevvero un altro bicchiere. L’armagnac aveva un sapore strano sulla lingua di D’Artagnan, ma forse erano le domande che voleva porre e che non aveva ancora trovato il coraggio di formulare. Il silenzio si allungò in modo strano mentre Charles cercava il coraggio di aprire il vaso di Pandora e Treville, paziente, aspettava che lo facesse.
« Capitano... » cominciò infine il giovane, « come sta Athos? »
Era una domanda vaga, di questo D’Artagnan era a conoscenza. Ma non aveva il coraggio di fare domande più specifiche, di avanzare richieste su come avesse vissuto quei due anni senza di lui e se aveva mai pensato a lui. Erano cose private, intime, e quelle risposte poteva dargliele solo una persona.
Treville prese la domanda per quello che era, afferrando comunque le varie sfumature che D’Artagnan taceva per rispetto. Come loro comandante Treville sapeva. Lui e Athos avevano deciso insieme di non nascondersi davanti al loro Capitano, di non mentirgli, e come sempre lui aveva ripagato pienamente la loro fiducia e aveva dimostrato di meritare il loro rispetto. Forse fu proprio per questo che rispose alla domanda il più sinceramente possibile, facendo sì che Charles capisse la profondità dell’abisso che Athos aveva toccato in quegli ultimi anni, nell’eco della sua assenza.
« All’inizio, mi sembrava di avere a che fare con l’uomo senza speranza che reclutai anni fa » cominciò Treville osservando il bicchiere vuoto. « Perso nella confusione delle bettole più malfamate di Parigi, in preda ai postumi della sbornia al mattino e ubriaco non appena calato il sole. Era furioso e si vedeva ma al di sotto di tutta quell’ira c’era l’autocommiserazione. Tu te ne sei andato e lui, prevedibilmente, è crollato » disse schietto.
D’Artagnan strinse i denti e abbassò lo sguardo. « Non ho intenzione di scusarmi. »
« Non credo dovresti, » rispose Treville. « Athos può negarlo a se stesso e agli altri quante volte desidera, ma tu gli hai salvato la vita e questo lui l’ha capito. Questo lui lo rispetta. È la propria inutilità che non riesce a perdonare » gli rispose Treville. Charles non disse nulla così l’uomo continuò il suo racconto.
« Pian piano Aramis e Porthos riuscirono a rimetterlo in sesto. Certo, non era lo stesso Athos degli ultimi mesi, non era lo stesso uomo che tu hai imparato a conoscere. Sembrava davvero di essere in presenza del vecchio, decaduto Comte de la Fère; dell’uomo disperato e integerrimo che era quando ricevette la sua commissione a moschettiere. Più soldato che essere umano ma questo era comprensibile, era una reazione che mi aspettavo da lui, e alla fine convenimmo che era meglio avere il combattente che il derelitto. Poi arrivò la notizia della tua morte. »
Lucas, pensò D’Artagnan. Il giovane soldato che aveva mantenuto la sua promessa e aveva portato a Parigi notizie, suo malgrado, false. Nessuno era da incolpare, perché Charles era stato davvero a un passo dalla morte e ciò che aveva chiesto a Lucas di fare – le parole che gli aveva chiesto di riferire – erano e rimanevano un’azione giusta e dovuta. Tuttavia quelle parole avevano avuto delle conseguenze e D’Artagnan era pronto ad ascoltare.
« Sparì per un po’. Non disse a nessuno dove andava e io ero restio a permettere ad Aramis e Porthos di andare a cercarlo. Ognuno ha il suo modo per affrontare il lutto e quello doveva essere il suo. Ma era instabile, pericoloso per se stesso se non per gli altri, ed ero combattuto fra il desiderio di lasciarlo in pace e il bisogno di tenerlo sotto controllo. Dopo una settimana lasciai partire Porthos e Aramis, » sospirò profondamente, facendo una breve pausa. « Probabilmente stavo facendo del male a tutti e tre. Athos può affrontare la solitudine ma Porthos e Aramis avevano bisogno di lui per essere forti, per restare in piedi. Si sostenevano a vicenda, sì, ma non era sufficiente. Per quanto strano, il dolore sordo di Athos dava motivo ad Aramis e Porthos di non abbandonarsi alle proprie sofferenze. »
Il Capitano si alzò e si affacciò alla finestra che dava sul cortile. Era una giornata tranquilla e solo il lontano brusio di Parigi, unito a qualche parola dei moschettieri presenti alla guarnigione, riempiva il silenzio.
« Alla fine riuscirono a trovarlo e a riportarlo indietro. Athos era determinato a rassegnare le dimissioni ed andarsene, molte volte si ubriacava e urlava di voler partire per venire a cercarti. Ormai era più ubriaco che sobrio per la maggior parte del tempo e la mia unica scelta fu quella di sospenderlo dal servizio fino a nuovo ordine. »
D’Artagnan strinse i denti. Non riusciva ad immaginarsi Athos senza la cappa e il fleur de lis. Se essere un Moschettiere era per D’Artagnan una vocazione, per Athos era sopravvivenza.
« Forse fu quello che riuscì a fare davvero breccia. Quello, e i pugni di Porthos. »
Charles non riuscì a trattenere una risatina amara. Non si aspettava niente di meno dal suo fratello d’arme. « Ora come sta? » domandò poi.
Treville aspettò un momento prima di rispondere. « Ha trovato altri modi per farsi del male. Non è più la bestia fuori controllo di quei primi mesi. È ancora un moschettiere e svolge il suo lavoro con dedizione ma sembra che per lui esista solo quello. Lavora fino allo sfinimento, fino a crollare per la stanchezza, e se non è Parigi a presentare una sfida, se le va a cercare da solo. Oppure si allena. Aramis e Porthos seguono ogni suo passo. È un equilibrio strano. Non è l’ideale, non è nemmeno auspicabile, ma considerando com’era un anno fa ho scelto il male minore, » disse. Si voltò poi verso Charles, sorridendo. « La mia speranza è che il tuo ritorno rimetta le cose a posto. Non so come hai fatto a diventare parte del loro mondo così in fretta, ragazzo, ma senza di te loro non sono in grado di tornare ad essere quel meccanismo bene oliato che erano prima del tuo arrivo alla guarnigione. Soprattutto Athos. »
Malgrado la situazione D’Artagnan non poté fare a meno di sorridere. Sapere di essere così importante per i suoi fratelli gli riempiva il cuore di un calore gentile, una sensazione che aveva dimenticato nel corso degli ultimi due anni. Bramava di riprendere il suo posto al loro fianco, quarto figurante di quel quartetto che faticava a tornare un trio.
Un silenzio gentile si insinuò fra loro finché un rumore di zoccoli non interruppe il momento. Treville si affacciò alla finestra e sorrise soddisfatto, riservando a D’Artagnan un’occhiata divertita. « Sono tornati. »
Charles pregò che la sua gabbia toracica fosse in grado di contenere il suo cuore, perché all’improvviso lo sentì martellare violentemente, come se avesse tutta l’intenzione di saltargli fuori dal petto. Il Capitano uscì dall’ufficio per andare incontro ai suoi soldati e, dietro di lui, D’Artagnan fece lo stesso, fermandosi alla ringhiera di legno affacciata sul cortile.
Sembravano le stesse persone che si era lasciato alle spalle due anni prima. Gli stessi volti, gli stessi sorrisi, le stesse smorfie. Charles sentiva sulle spalle la pesantezza dei suoi due anni in guerra, si sentiva vecchio e stanco e saggio, ma vedere finalmente i suoi fratelli d’arme e l’uomo che amava dopo averlo desiderato per tutto il tempo così tanto era una sensazione magnifica, come una coperta posata sulle spalle quando si ha freddo o una cucchiaiata di zuppa calda dopo una giornata di duro lavoro. Le loro voci erano come carezze gentili e l’agitazione che aveva provato pochi istanti prima sparì in fretta, rimpiazzata dall’impazienza.
Athos era sceso da cavallo per primo e stava parlando con Treville. Porthos e Aramis invece stavano discutendo animatamente riguardo a qualcosa e sorridevano furbescamente l’uno all’altro, come a complimentarsi a vicenda di un’idea particolarmente brillante che non prometteva niente di buono.
Resistette all’impulso di chiamarli e palesare la sua presenza. Era improvvisamente curioso di vedere le loro espressioni quando, alzando lo sguardo, si sarebbero accorti di lui. O quando Treville avrebbe finalmente detto loro chi stava aspettando nel suo ufficio.
Non fu necessario. Il primo che notò la sua presenza fu proprio Athos. Gli bastò alzare un istante gli occhi, distrarsi dalle parole del Capitano quel tanto che bastava per guardarsi attorno ed ecco: i loro occhi si incontrarono.
Athos impallidì e smise di respirare. Treville non si offese per la distrazione del moschettiere e, anzi, sorrise indulgente quando capì cosa lo aveva distratto dalla loro conversazione. Aramis e Porthos, accorgendosi probabilmente dell’improvviso silenzio dell’amico, guardarono prima Athos e poi ne seguirono lo sguardo in direzione della balconata.
Aramis rimase letteralmente a bocca spalancata, se a metà di un respiro o di una parola non era dato saperlo. Porthos invece scattò in avanti e salì le scale facendo i gradini due a due, stringendo D’Artagnan in un abbraccio che gli tolse per un attimo l’aria dai polmoni. Restituì il gesto e ridacchiò quando udì Porthos tirare su con il naso, esalando un respiro tremante.
« Non ridere, maledizione a te » disse il moschettiere, « dovrei pestarti fino a che non mi implorerai di smettere. »
Charles sorrise, davvero felice per la prima volta in due anni. « Mi sei mancato anche tu, Porthos. »
Il moschettiere rise. « È bello riaverti qui, ragazzino. Quale che sia il miracolo che ti ha riportato da noi. »
D’Artagnan stava per rispondere ma fu interrotto dalla voce di Aramis, che li aveva raggiunti sulla balconata. « Porthos, spostati! » esclamò, strattonando la spalla del fratello d’arme finché (con uno sbuffo e un’imprecazione stretta fra i denti) le braccia di Porthos non furono rimpiazzate da quelle più esili ma comunque forti di Aramis.
« Ho pregato per questo giorno, » sussurrò l’uomo sulla sua spalla, « sapevo che era impossibile, che le mie preghiere invocavano solo fantasmi, ma ho pregato comunque Dio di riportarti da noi. »
Charles sorrise e accarezzò piano la schiena di Aramis, come per rassicurarlo. « Allora forse è te che devo ringraziare. Forse sono le tue preghiere che mi hanno salvato la vita » disse.
Aramis si sciolse dall’abbraccio e strinse le spalle di D’Artagnan, guardandolo negli occhi. Charles fece finta di non vedere le lacrime in quelli di Aramis. « Sono comunque felice che tu sia tornato. Tanto, tanto felice, D’Artagnan. »
« Anche io sono felice di rivederti » rispose lui sinceramente.
Alcuni passi interruppero quel momento e quando Aramis lasciò finalmente andare le sue spalle, lo sguardo di D’Artagnan si fermò sulla persona che più di tutte le altre aveva il desiderio di rivedere, di riabbracciare. La voce che aveva accompagnato le sue notti, il ricordo più prezioso quando chiudeva gli occhi.
Athos si avvicinò a lui camminando piano, come se avesse paura che il rumore dei suoi stivali sul legno della balconata potesse farlo scappare, o farlo sparire. Come se Charles fosse solo una visione, un’illusione, un riflesso strano di luce.
D’Artagnan non si mosse, la mente piena di pensieri simili. Aveva nel petto un’irrazionale paura di dire o di fare la cosa sbagliata, la sensazione che se si fosse mostrato dubitante o indeciso Athos avrebbe smesso di avvicinarsi e si sarebbe rifiutato di toccarlo, di abbracciarlo come già Porthos e Aramis avevano fatto, e lui ne aveva bisogno, ne aveva bisogno com’era necessario avere aria nei polmoni e occhi per vedere e orecchie per udire. Troppo a lungo aveva dovuto sopportare la sua mancanza ma ora aveva paura di porre fine a quella lunga e terribile attesa.
Athos si fermò a meno di un passo da lui e non distolse mai gli occhi dai suoi. Sta leggendo la mia anima, pensò scioccamente Charles, è come se stesse cercando qualcosa che non è sicuro di trovare. Nonostante ciò D’Artagnan non abbassò mai lo sguardo, non interruppe mai il contatto fra i loro occhi; lasciò il suo spirito in balia di Athos, aperto e indifeso perché lui potesse fare di esso ciò che voleva.
Poi Athos alzò la mano, la spogliò del guanto di pelle usurata dal tempo, e con una lentezza esasperante dettata dall’indecisione fece per appoggiarla sulla sua guancia, fermandosi a pochi centimetri da essa. Improvvisamente timido, stranamente dubbioso. Come se avesse paura, come se pensasse che non fosse più un suo diritto, come se ancora non credesse nella sua presenza lì davanti a lui, in carne e ossa, vivo.
Charles ebbe pietà del cuore di entrambi. Inclinò il capo ad incontrare la mano di Athos, che si posò calda sulla sua guancia, benvenuta e quasi agognata.
Solo allora Athos lasciò andare il respiro che aveva inconsapevolmente trattenuto, ritrovando un filo di voce roca. « Non so se prenderti a schiaffi o baciarti. »
D’Artagnan si lasciò sfuggire una risatina tremante e non poté impedire ai suoi occhi di riempirsi di lacrime. « Puoi fare entrambi ma ti prego, non smettere di toccarmi » implorò senza vergogna.
Finalmente Athos lo attirò a sé e Charles si dimenticò del disagio, della gamba che cominciava a fare male, di Aramis e Porthos e Treville. C’era solo Athos, le sue braccia, quell’odore particolare di vino e fieno e pelle lavorata. Le sue mani, che aveva bramato a lungo e profondamente, fa le quali poteva morire e rinascere e trasformarsi in argilla, in cera, in cartapesta; qualcosa che Athos potesse modellare a suo piacimento. Gliel’avrebbe lasciato fare, D’Artagnan, e sarebbe diventato ciò che Athos voleva, immagine e somiglianza di ciò che amava di più. Perché lui apparteneva ad Athos così come apparteneva a se stesso, con anima e corpo e fede.
L’amore era anche quello, si rese conto mentre ascoltava le parole sconnesse che Athos stava sussurrando nel suo orecchio come preghiere. Amore era essere disposti ad annullare se stessi per la persona amata, affidandosi completamente al suo volere e alla sua misericordia, diventando ciò che la sua voce avrebbe ordinato, ciò che le sue parole avrebbero descritto, ciò che le sue dita avrebbero costruito e modellato.
Spaventoso era l’amore, quell’amore, il loro amore; viscerale e totalitario, che ammette dubbi ed errori ma per il quale non si può chiedere perdono.
Un amore che per D’Artagnan si trovava ovunque c’era Athos.
 
 
Passò il resto della giornata con i suoi fratelli d’arme e gli altri moschettieri, raccontando più e più volte la storia di come aveva ingannato la morte. Serge gli aveva servito una porzione di stufato fuori dall’orario dei pasti e lui se l’era gustata piano, rispondendo alle domande e ascoltando gli aneddoti di un gruppo sempre maggiore di persone.
Aramis e Porthos non si erano mai allontanati dal tavolo in cui era seduto e Athos non aveva mai lasciato il suo fianco e la sua mano. Non aveva detto una sola parola per tutto il tempo ma D’Artagnan era consapevole della sua impazienza, mostrata tramite la fronte aggrottata e il movimento ritmico del piede contro il pavimento. L’Athos che conosceva avrebbe trovato una scusa per defilarsi e aspettare il suo ritorno in un luogo più tranquillo, e forse lo avrebbe fatto se non fossero stati lontani per così tanto tempo; se un estraneo non fosse arrivato un giorno per dirgli che la persona che amava di più al mondo era morta in una battaglia a cui non avrebbe preso parte, se non fosse stato per salvare ciò che di buono avevano creato insieme. Charles provò a mettersi nei panni di Athos per un istante ma il solo pensare di ricevere personalmente una notizia del genere era insopportabile.
Quando il sole cominciò a tramontare trovò una scusa per alzarsi. Disse che il viaggio di ritorno era stato lungo e che non vedeva l’ora di appoggiare il sedere su di un letto comodo. I Moschettieri risero alla battuta e gli augurarono un buon riposo ma Aramis e Porthos non abboccarono all’amo. Erano più esperti di lui nel leggere Athos, un talento che avevano affinato negli anni passati insieme, e quando Athos si alzò dal tavolo con tutta l’intenzione di seguire D’Artagnan i due augurarono loro la buona notte con un sorrisetto consapevole. Avrebbero tenuto lontano orecchie ed occhi indiscreti dalla stanza di D’Artagnan, quella notte.
Il tragitto dal cortile a sua stanza fu breve e venne fatto in silenzio. Athos era sempre un passo dietro di lui e Charles sentiva una strana tensione nelle spalle, una sensazione somigliante all’impazienza unita ad una punta di diffidenza. Un’alchimia strana che mai aveva provato in presenza dell’uomo.
D’Artagnan aprì la porta e lasciò entrare Athos per primo, per poi chiuderla a chiave dietro di sé. Non fece in tempo a girarsi e a togliersi la cappa che si ritrovò con le spalle al muro e Athos contro di lui, le sue labbra a pochi centimetri dalle proprie. Stava aspettando il suo permesso nonostante i suoi occhi sembrassero famelici e impazienti, le pupille dilatate dal desiderio.
Lo stesso desiderio che correva dentro D’Artagnan. Avrebbero potuto parlare dopo, giurandosi di nuovo reciprocamente l’amore che aveva dato origine a tutta quella sofferenza, ma prima dovevano sedare i loro istinti, lasciare che le mani toccassero e le bocche assaggiassero, assicurandosi che erano ancora entrambi lì, vivi e reali e con un cuore battente nel petto. Charles acconsentì alla muta domanda baciandolo per primo e Athos non se lo fece ripetere due volte.
Aveva vissuto due anni cercando di ricordarsi cosa voleva dire sentire le mani di Athos scivolare sotto la camicia, calde sulla pelle, e nonostante tutto ciò che ricordava non si avvicinava nemmeno alla realtà. Eppure non era nemmeno come se lo ricordava; non c’era traccia della dolcezza, dell’infinito rispetto con cui Athos lo aveva sempre toccato. Il suo tocco era disperato e scoordinato, ansioso, come se stesse cercando con tutto se stesso di convincersi che lui era vivo, che era reale e realmente lì.
D’Artagnan non poteva biasimarlo. Lui stesso stava letteralmente strappando i vestiti di Athos, cercando di avere accesso a più pelle possibile. E mordeva, lasciava segno di sé ovunque le sue labbra potessero posarsi, godendo quando Athos tratteneva il respiro o gemeva fra i denti. Non sapeva dire se Athos era arrabbiato con lui o solo disperato, non gli importava: in quel momento voleva solo sentire l’umo che amava sotto la sua pelle, unirsi a lui finché le loro stesse anime non si fossero fuse diventando una sola; una sola vita e un solo battito di cuore.
Non si erano nemmeno svestiti del tutto quando Athos passò a slacciargli i pantaloni. D’Artagnan inarcò la schiena e, distrattamente, mosse la gamba ferita ad un’angolazione strana. Si ricordò di doverle portare il dovuto rispetto solo quando una fitta di dolore gli attraversò l’arto e lui non riuscì a trattenere il lamento che gli attraversò le labbra.
Athos si fermò immediatamente. « Sono stato io? » domandò, la voce roca e profonda.
« No. Continua, » quasi ordinò D’Artagnan.
Ma Athos lo guardò intentamente, aspettando la spiegazione che credeva essergli dovuta.
Charles grugnì, scontento. « Non è niente, giuro che non è niente. Ti prego... » continua. Ne ho bisogno.
Ma Athos sembrava irremovibile. « Dove? »
« Athos! »
« Charles, » disse l’uomo e oh, quanto odiava quando usava così il suo nome. « Dove? » ripeté.
D’Artagnan sospirò, arrendendosi all’evidenza che non c’era speranza di rimandare tutto al mattino. « La gamba. Non posso più permettermi certe... posizioni » spiegò.
Il volto dell’uomo assunse un’espressione strana. Un misto di emozioni che D’Artagnan non fu in grado di capire del tutto. Il senso di colpa faceva da padrone ma c’era qualcosa di più profondo in quegli occhi, di più... malinconico.
« Fammi vedere, » disse Athos, e anche se non lo sembrava era più una domanda che un ordine.
D’Artagnan sospirò profondamente, seccato dall’interruzione, ma lo accontentò. Terminò di slacciarsi i pantaloni e li abbassò completamente, rimanendo completamente nudo di fronte ad Athos, girandosi quanto bastava per mostrargli la lunga cicatrice sulla coscia.
L’uomo la osservò attentamente per qualche istante, passandogli sopra le dita in una carezza riverente. Ne aveva viste di ferite in vita sua e Charles era abbastanza sicuro che potesse capire l’estensione del danno solo vedendo la forma della ferita.
« Un fioretto? » domandò infatti.
« Non lo so. Forse. Ero in una brutta situazione, me ne sono accorto solo quando mi hanno caricato di peso su di un cavallo e ha cominciato a fare male. »
Fu allora che gli occhi di Athos assunsero di nuovo quella sfumatura malinconica e ferita. Uno sguardo che non si addiceva all’uomo che aveva davanti, al moschettiere fedele e all’amante gentile che conosceva.
Sollevò una mano e la posò gentilmente sul suo collo, accarezzando con il pollice la linea della mascella e sentendo sotto le dita la famigliare sensazione della sua barba corta. « Parlami, » disse quando ebbe la sua attenzione, una sola parola per implorarlo di non isolarsi nel silenzio.
Athos chiuse gli occhi e strinse i denti. Deglutì. « È stato come perdere di nuovo Anne. No, no... è stato peggio, » confessò, mormorando.
Solo allora D’Artagnan si rese conto della catenina d’argento. Era abituato a vedergliela al collo, le volte in cui l’aveva tolta si potevano contare sulle dita di una mano, dunque non aveva fatto caso alle macchine scure che ne avevano incrostato la superficie argentea, macchiando anche il piccolo pendente. Sembrava ruggine.
« Vorrei prenderti a pugni. Farti del male. Obbligarti a chiedere scusa e poi chiuderti in una stanza in cui solo io posso entrare e da cui non potresti scappare. »
No, non era ruggine. Era sangue. Il suo sangue.
Il sangue di cui erano sporche le sue mani quel giorno di mesi prima, quando strinse il gioiello per farsi coraggio, per darsi forza. Il proprio sangue, che aveva incrostato il pendente e lì era rimasto. Athos non lo aveva pulito.
« Quando ci penso vorrei distruggere tutto. Urlare e bere e dimenticarmi finalmente di quanto fa male amare qualcuno, » continuò. « Sapevi che non potevo sopportarlo. Sapevi che mi avrebbe distrutto. Per Anne avevo una scusa, potevo pretendere di aver fatto la cosa giusta. Ma per te... cosa avevo per te? Tu sei morto e mi hai lasciato senza niente! » esclamò, sbattendo il pugno sulla parete di fianco alla sua testa, abbastanza forte che D’Artagnan ne sentì le vibrazioni.
« Io non sono morto, Athos » ribatté D’Artagnan, calmo e composto nonostante la rabbia dell’uomo.
« Bugiardo! Per me lo eri! È come se avessi passato una vita senza di te! » ringhiò l’uomo.
« Ma io non sono morto, Athos! » ripeté Charles. « So che vorresti sentirmi dire che mi dispiace ma non ho intenzione di chiedere scusa. Per te farei questo e altro ed è arrivato il momento che tu ti renda conto che non devi essere tu il martire, fra noi due, non devi essere sempre tu il protettore e il salvatore. Io ti amo, Olivier, ma a volte il tuo autolesionismo mi fa imbestialire! »
Non si accorse nemmeno di avere usato il suo nome di battesimo. Non lo usava spesso, non consciamente, ma quando perdeva la pazienza scivolava fuori dalle sue labbra con una facilità sorprendente.
« Autolesionista, io? » domandò Athos con sincera sorpresa. « Posso ricordarti che sei andato in guerra da volontario, Charles? »
« Per un’ottima ragione che tu hai convenientemente deciso di ignorare. E tu non poi permetterti di rinfacciarmelo. Almeno io non sono fuggito! »
« Decido io cosa posso permettermi di dirti o meno! Non volevo vedere la persona che amavo andarsene per non tornare mai più, è così sbagliato? » La voce dell’uomo si trasformò in qualcosa di simile ad un ringhio, ma D’Artagnan non ne era minimamente impressionato. Athos non era un cane che abbaiava e non mordeva, anzi, tutto l’opposto. Le sue minacce erano molto spesso avvertimenti da prendere sul serio. Ma Charles aveva rischiato di perdere tutto per tornare a casa, per tornare da lui, e avrebbe chiarito quella faccenda in un modo o nell’altro, urlando come un incivile o sputando sangue sul pavimento.
« Non posso dirti se è giusto o sbagliato, Athos, ma voglio chiederti una cosa. Ne sei soddisfatto? » chiese D’Artagnan. La sua gola pungeva a causa delle urla. « Quando hai saputo che ero morto, te ne sei pentito? » domandò.
Athos stava ansimando a pochi centimetri da lui, gli occhi persi ma decisi al tempo stesso. Sapeva la risposta, D’Artagnan lo vedeva in quegli stessi occhi, e finalmente riuscì a fare breccia in quel muro d’orgoglio dietro cui Athos si proteggeva in ogni istante della sua vita.
« Sì, » ammise l’uomo. « Sì, me ne sono pentito. »
E dannazione se non sembrava il punto di svolta di quella discussione tremenda.
D’Artagnan prese un respiro profondo, ritrovando la calma. La gamba lo stava uccidendo. « Devo sedermi, » disse, e Athos lo aiutò a raggiungere il letto, sul quale si sedettero entrambi. Charles finalmente allungò la gamba e sospirò di sollievo quando il muscolo lesionato smise pian piano di dolere.
Fra loro cadde il silenzio e lì rimase. Il sole tramontò, la stanza fu presto immersa nel buio. Solo le sagome erano distinguibili nella fioca luce della luna. D’Artagnan sapeva che Athos era ancora seduto accanto a lui solo perché lo sentiva respirare. Probabilmente, se non fosse appena tornato dal regno dei morti, sarebbe già stato solo. Athos se ne sarebbe andato ore prima.
Lentamente, come se all’improvviso temesse una reazione dura da parte dell’altro, fece scivolare la mano sul materasso fino ad incontrare quella di Athos. Trattenne il respiro, in attesa.
Dopo quella che sembrò una vita, il moschettiere ricambiò la stretta.
« Non sono le tue scuse che voglio, Charles » mormorò finalmente Athos, « ho capito perché lo hai fatto. Se fosse stato l’unico modo per salvarti, avrei fatto la stessa cosa, » ammise.
D’Artagnan chiuse gli occhi e sospirò. Quelle parole erano come il perdono che non sapeva nemmeno di stare cercando.
« Però... » continuò Athos, « ...da te voglio una promessa. Se esaudirai questa mia richiesta, ti farò una promessa a mia volta. »
« Ti ascolto. »
« Promettimi che la prossima volta non farai tutto da solo. Promettimi che non mi lascerai indietro. Non importa quanto il pericolo sia imminente. Se ci sarà da combattere per le nostre vite, lo faremo insieme. »
D’Artagnan non poté fare a meno di sorridere. « Va bene, lo prometto » disse. « Qual è la tua promessa? » domandò poi.
« Che morirò amandoti, » rispose Athos, « o morirò con te. »
Le lacrime furono improvvise quanto inaspettate. D’Artagnan le asciugò subito, sperando che Athos non se ne accorgesse, ma quando l’uomo lo strinse a sé si accorse che era troppo tardi. Si lasciò andare e pianse in silenzio, circondato dalle braccia dell’uomo a cui aveva donato il resto della sua vita, e che in cambio gli aveva donato il resto della propria.
 
 
E P I L O G O
 
 
« Un brindisi al ritorno dal regno dei morti del nostro fratellino preferito, al suo reintegro nei Moschettieri del Re con il grado di Tenente– »
« Non mi ci abituerò mai. »
Aramis si schiarì la voce con decisione all’interruzione di Porthos, che alzò le mani come per chiedere scusa.
Dopo una dovuta occhiataccia, il moschettiere riprese il discorso. « E ai bei giorni futuri in cui non dovremmo più essere le balie di Athos, o i martiri delle sue missioni suicide. A votre santé! »
Porthos annuì con convinzione alle parole dell’amico, alzando subito il boccale di birra. D’Artagnan si limitò a ridacchiare nel sollevare il suo mentre Athos roteò gli occhi con fare seccato, una mano a tenere sollevato il boccale e l’altro braccio fermamente ancorato alle spalle di D’Artagnan. Charles non era da meno, tuttavia, dato che la propria mano libera era appoggiata sul ginocchio di Athos.
Bevvero qualche sorso – nel caso di Porthos tutto il boccale – e tornarono alle loro solite chiacchiere da taverna.
« Ho ancora un dubbio » se ne uscì poi Aramis, pulendosi i baffi dai residui di schiuma. « Mi sembra strano che Rochefort non si sia fatto vivo da quando sei tornato. Mi sarei aspettato un contrattacco immediato da uno come lui, volere del Re o meno. »
Ah. Si era dimenticato di condividere quella parte della storia.
« Beh, diciamo che per il momento abbiamo trovato un... accordo » disse, rimanendo sul vago.
Athos inarcò un sopracciglio e lo guardò di sbieco. « Che tipo di accordo? »
D’Artagnan deglutì, nervoso. « Beh, potrei essermi presentato da lui forte dell’approvazione del Re e averlo... minacciato. Solo un po’. Ricattandolo con dei documenti non esattamente veri. Falsi. Molto falsi, » confessò.
Athos e Aramis erano sul punto di cominciare una paternale lunga giorni ma la risata sguaiata di Porthos li interruppe. « Il cucciolo si è dato alla criminalità! » esclamò ridendo.
« Non vedo cosa ci sia da ridere! » ribatté a tono Aramis, ma questo fece ridere Porthos ancora di più.
D’Artagnan fece spallucce. « Nell’Armée de Terre sono quasi tutti criminali. Ho imparato un paio di cose utili. »
Athos lasciò perdere, prendendo un altro sorso di birra (rimpiangendo che non fosse vino). Non voleva nemmeno cominciare a pensare a quanto fosse pericolosa la sua messa in scena ai danni di Rochefort, o di come le cose si sarebbero potute mettere male se il Re lo fosse venuto a sapere. Dopo tutti quei mesi di disperazione ora era disposto ad accettare qualsiasi tipo di pace, non gli importava quanto fragile e precaria.
Era convinto che se il mondo si fosse rivoltato nuovamente sottosopra, questa volta lui e D’Artagnan lo avrebbero affrontato insieme.
Si lasciò circondare dalla risata di Porthos, dalle preoccupazioni di Aramis e dal calore di D’Artagnan, e per la prima volta da tanto tempo riuscì finalmente a scorgere davanti a sé giorni migliori.
 
 
 
 
 
Fine.
 
 
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1 - "Heureux comme un poisson sur la paille" ovvero "gioioso come un pesce sulla paglia". Fa parte dello slang dell'esercito francese ed è un modo simpatico per dire che una persona è depressa.
 
2 - L'oro degli stolti era, in passato, il nome che veniva dato alla pirite, un minerale composto da disolfuro di ferro molto simile all'oro (e quindi per esso scambiato da chi non sapeva distinguerli). Se percosso emette scintille e posto su di una fiamma emette il classico odore di uova marce tipico dei composti contenenti zolfo.
   
 
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