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Autore: Minari OppaRi    12/05/2015    3 recensioni
Uno spiraglio di luce entra dalla finestra colpendo fastidiosamente gli occhi ancora chiusi di Jungkook.
Non vorrebbe aprirli, se lo facesse dovrebbe accettare il fatto che il sole è sorto, che, la notte, unico momento in cui può sentirsi al sicuro, è finita e, senza potersi ribellare, avrebbe dovuto alzarsi ed andare a scuola.
No, lui non è uno di quei ragazzi che odiano svegliarsi presto per dover passare la giornata sui libri e per sentire lezioni noiose.
No, lui è uno di quei ragazzi che odiano svegliarsi per dover andare in un luogo in cui lo considerano alla stregua della spazzatura, un ring in miniatura in cui le botte e gli insulti sono all’ordine del giorno.
Genere: Angst, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Angolo dell'autrice:
Annyong-Haseyo, sono Darkdan ^_^ Questa è la prima fanfiction che pubblico sui BTS e sono davvero nel panico, spero che vi possa piacere. Ho scritto qualcosa di tremendamente doloroso e mi odio davvero molto, sopratutto perchè è incentrato tutto sul mio bias, e sono sicura che mi odierete pure voi (specialmente chi ha come bias Rap Monster e Suga). Come già detto spero che vi possa piacere e se volete lasciare una recensione per farmi sapere cosa ne pensate o se volete consigliarmi qualcosa da cambiare ve ne sarò davvero grata. Mi affido a voi Unnie e Oppa.
Buona lettura a tutti quanti e attenti, preparate i vostri feels.
Darkdan.

 
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“Non ci sono uscite in questo ring chiamato scuola
Esatto, la scuola è una piccola società
Una giungla creata da adulti non attenti
Hanno reso i deboli, deboli
Hanno reso i forti, potenti
Poiché erano forti, hanno fatto soffrire i deboli
Gli amici sono finti.”
BTS – School Of Tears
 
Uno spiraglio di luce entra dalla finestra colpendo fastidiosamente gli occhi ancora chiusi di Jungkook.
Non vorrebbe aprirli, se lo facesse dovrebbe accettare il fatto che il sole è sorto, che, la notte, unico momento in cui può sentirsi al sicuro, è finita e, senza potersi ribellare, avrebbe dovuto alzarsi ed andare a scuola.
No, lui non è uno di quei ragazzi che odiano svegliarsi presto per dover passare la giornata sui libri e per sentire lezioni noiose.
No, lui è uno di quei ragazzi che odiano svegliarsi per dover andare in un luogo in cui lo considerano alla stregua della spazzatura, un ring in miniatura in cui le botte e gli insulti sono all’ordine del giorno.
Jungkook vive un inferno e non sa come uscirne. Ha paura. Paura di non poter scappare dal circolo vizioso che sono diventate le sue giornate da quando ha iniziato il liceo.
Sua madre, urlando, lo butta giù dal letto e gli lancia i vestiti addosso.
Lei non immagina quanto il figlio soffra e lui non può parlargliene.
“Se fai la spia sei un vigliacco. Se fai la spia non sei un uomo. Se fai la spia la pagherai.”
Quelle minacce rimbombano ogni giorno nella sua testa, lo bloccano ogni volta che vuole sfogarsi con qualcuno, gli mozzano il respiro in gola e lo fanno desistere.
E così la sofferenza continua.
E così il dolore cresce.
E così il suo cuore si spezza.
 
Jungkook sente le spalle pesanti e non per via dello zaino.
Le sue gambe tremano mentre, passo dopo passo, si avvicina alla scuola; quella scuola che odia, quella scuola che dovrebbe proteggerlo ma invece lo distrugge, quella scuola dove le sue certezze sono crollate, quella scuola dove i suoi amici hanno tolto la maschera e hanno mostrato il loro vero volto.
Il suo cuore inizia ad accelerare i battiti e, la testa, inizia a girargli sempre più forte, tanto da costringerlo ad appoggiarsi contro la fredda parete di un muro.
Sta male, gli sembra di morire, ma non può tornare indietro; sa che se lo facesse l’inferno diventerebbe ancora più doloroso, gli insulti più pesanti.
Con passi pesanti, con il cuore stretto in una ferrea e velenosa morsa ed il viso ridotto ad una maschera di sofferenza, varca il cancello di quell’odioso edificio.
“Respira, respira Jeon Jungkook.” Si dice stringendo con forza lo stomaco; gli fa male ogni mattina per il nervoso.
Si ricorda di respirare, di trattenere i conati, di non mostrare tutto il suo dolore. Se lo facesse le risa di scherno aumenterebbero e, l’incubo in cui vive, lo inghiottirebbe senza pietà facendolo cedere definitivamente.
Cammina lento per i corridoi. Guarda le mura che lo circondano, gli sembrano fredde, soffocanti, quasi come quelle di una prigione e non può fare a meno di credere di trovarcisi davvero dentro. I professori, così come le guardie carcerarie, li osservano silenziosi senza mai accorgersi di quello che succede realmente; loro hanno lasciato il potere ai forti, gli hanno dato la certezza di poter fare qualsiasi cosa e restare impuniti e quella certezza li ha resi spietati, quasi inumani.
Sente qualcosa scontrarsi con la sua schiena, un calcio, che lo spinge contro il pavimento. Non ha nemmeno bisogno di voltarsi per sapere chi si trova alle sue spalle, lo sa; lo sa perché ogni mattina è la stessa storia.
“Hey tu, vermiciattolo; non ti hanno insegnato che non si ciondola per i corridoi come uno sfigato?”
La fredda e maligna voce di Kim Namjoon, bullo del secondo anno, lo trafigge come il colpo di un pugnale e lo costringe a rannicchiarsi su sé stesso mentre le lacrime iniziano a riempirgli gli occhi.
“Guardalo, neanche si degna di rispondere ai suoi Hyung. Poppante, stai già piangendo, eh? Stai piangendo come una femminuccia, eh?”
Min Yoongi, soprannominato Suga dai suoi compagni di terza, inizia a colpirgli i fianchi e la cartella con dei calci.
Jungkook non dice una parola, non emette un solo gemito ma, velocemente, si strofina gli occhi per cacciare via le lacrime: non può permettersi di piangere, non davanti a loro.
Suga lo tira per la cartella, lo costringe ad alzarsi e a guardarlo negli occhi per fargli vedere il luccichio sinistro e divertito che li illumina.
E quando Namjoon raggiunge l’amico la vittima sa fin troppo bene cosa lo aspetta.
Si guarda intorno alla ricerca di qualcuno, una persona qualunque che lo aiuti, che per una volta tanto fermi quei due bulli.
Tutti si voltano spaventati, si nascondono nelle classi, guardano il pavimento o semplicemente osservano impassibili.
Tra quegli spettatori riconosce dei volti  fin troppo familiari.
Jung Hoseok, Hyung del secondo anno e compagno del club di canto , incrocia lo sguardo con il suo ma lo distoglie subito, colpevole.
Kim Seokjin, terzo anno e suo vicino di casa, si morde le labbra con forza .
Entrambi, in quanto compagni di classe dei due bulli, si sentono in pericolo; non possono permettersi di fare un passo falso e di aiutarlo, sanno a quali ripercussioni andrebbero incontro se lo facessero.
“Sai che non posso darti una mano. Se lo faccio finisco come te.” è questo che vede scritto sul loro volto.
Tra tutti quanti però spicca un viso che lui conosce molto bene.
Il viso di quello che una volta era il suo migliore amico, quello che dopo anni di amicizia non ha esitato un secondo a tradirlo e a deriderlo.
Park Jimin, suo compagno di classe e amico d’infanzia, lo fissa con occhi pieni di rimorso.
-Se ti senti in colpa allora vieni qui ad aiutarmi, maledizione!- pensa, furioso, stringendo con forza i pugni.
Ricorda con rabbia il momento in cui Jimin, terrorizzato da quei violenti Hyung, l’ha spinto contro i suoi carnefici urlando: “Io questo non lo conosco! Sono dalla vostra parte Hyung!”
Ricorda che, una volta concluse le botte, l’aveva guardato andare insieme a loro, l’aveva visto ridere come se fossero amiconi da sempre, l’aveva sentito deriderlo come se i giorni passati insieme fino a quel momento non fossero mai esistiti.
Ricorda di essersi chiesto perché avesse fatto una cosa del genere, di essersi dato dell’idiota per aver pensato di essere un amico per lui.
Ricorda di aver pianto come mai in vita sua.
La campanella suona distogliendolo dai suoi pensieri e, come in un ring, da il via al massacro.
Ha solo il tempo di chiudere gli occhi, di stringere i denti e sperare che tutto finisca presto. Dopo di che l’unica cosa che riesce a sentire è il dolore.
 
 
Jungkook non sa con precisione quanto tempo sia passato, capisce solamente di non trovarsi più nel corridoio. Sposta lo sguardo da una parte all’altra realizzando di essere stato trascinato nel bagno.
Namjoon e Yoongi stanno rovistando nel suo zaino, forse alla ricerca di soldi per il pranzo.
“Allora, hai trovato qualcosa?”
“Solo diecimila Won.”
“Per oggi facciamoceli bastare. Dai, muoviamoci ad andare in classe.”
I due lo guardano ridendo e gli lanciano la cartella sullo stomaco.
“Domani porta più soldi, ok perdente?”  Suga gli tira i capelli costringendolo ad alzare il viso. Non può far altro che annuire, spaventato.
“Guarda come è spaventato.” E, rivolgendosi a Jungkook, sentenzia “Tu ti consideri un uomo? Sei solo un fifone.”
Lo deridono di nuovo prima di andarsene e lasciarlo solo.
Cerca di alzarsi, dolorante, ma finisce solo per scivolare a terra. Si sente patetico e umiliato perché sa che hanno ragione. Non risponde mai a tono, non cerca di ribellarsi o di scappare; ha troppa paura di quello che potrebbe succedere se lo facesse.
Vorrebbe chiudere gli occhi e riposare ma non può farlo, deve andare a lezione; non può permettersi di saltarla, darebbe una cattiva impressione e, sua madre lo rimproverebbe.
-Per andare in una buona università, giusto?-
Sente dei passi e alza lo sguardo verso la porta vedendo Kim Taehyung, suo compagno di classe, che lo osserva dispiaciuto.
“S-scusa, io…io non…”
“Non importa.”
Di tanto in tanto qualcuno lo aiuta ad alzarsi, forse per non sentirsi del tutto un verme, e lo accompagna fino alla classe.
Lui però non si sente in debito con quelle persone: a volte sono le stesse che pochi attimi prima hanno assistito senza muovere un dito.
Taehyung è uno di quelli, si ricorda di averlo visto accanto a Jimin.
Sa che non deve accettare la mano che il ragazzo gli sta porgendo perché sa cosa farebbe; farebbe come tutti gli altri, alla vista di quei due Hyung crudeli scapperebbe abbandonandolo.
Stringe i denti e, trattenendo i gemiti, si alza e guarda la sua immagine riflessa nello specchio.
Dei gonfi segni violacei marchiano il suo occhio e la sua guancia. Sospira sapendo che dovrà inventarsi una scusa credibile per giustificarli.
Si rimette lo zaino in spalla e, affiancato da Taehyung, si dirige verso la loro aula.
Quest’ultimo continua a guardarsi intorno, intimorito.
-Se hai così tanta paura che quei due spuntino fuori allora smetti di fare l’ipocrita e lasciami stare.- pensa, infastidito.
Appena apre la porta della classe sente gli occhi di tutti puntarsi su di lui e questo lo fa sentire quasi come un fenomeno da baraccone.
“Jeon Jungkook, Kim Taehyung, siete in ritardo. Oh, Jeon cos’è successo alla tua faccia?”
“Sono caduto signore.”
E Jungkook spera con tutto il cuore che il professore capisca che sta mentendo, che si ricordi che già qualche giorno prima aveva dei lividi simili, che veda il suo sguardo pieno di terrore e comprenda che c’è qualcosa che non va.
“Oh beh, non importa. Sedetevi e lasciatemi continuare.”
Ancora una volta l’adulto che dovrebbe aiutarlo non capisce. Ancora una volta l’adulto non attento non lo salva dalle fauci dei leoni.
Il ragazzo si siede, deluso, e inizia a guardare i suoi compagni, gli stessi che poco prima gli hanno voltato le spalle fingendo di non conoscerlo oppure sono rimasti immobili ad osservare, come spettatori davanti ad un film.
-Questa classe è una società formata da spettatori. Voi che guardate senza intervenire non siete poi tanto diversi dai colpevoli.- pensa iniziando a scarabocchiare sul quaderno.
Scrive la sua rabbia sotto forma di testi musicali, parla delle sue paure e dei suoi desideri. Creare musica lo aiuta a sfogarsi, a non pensare a quanto la sua vita stia andando a pezzi.
La musica lo aiuta a dimenticare di essere imprigionato in un incubo
 
Jungkook, a fine giornata, non corre fuori da  scuola come fanno tutti i suoi compagni.
Silenzioso, cercando di non farsi vedere da nessuno, cammina fino all’aula di danza, il suo nascondiglio.
In quella stanza riesce a rilassarsi, a sfogarsi. Sa che lì nessuno verrà a disturbarlo.
Si siede a terra e, emettendo qualche gemito di dolore, appoggia la schiena contro il muro.
Respira profondamente e, stringendo i pugni, lascia che le lacrime fino a quel momento trattenute gli righino le guance. Urla tutto il suo dolore sapendo che nessuno potrà deriderlo.
Si chiede perché tutto questo succeda a lui, perché nessuno capisca quanto andare avanti, vivere giorno dopo giorno, stia diventando sempre più difficile. Prende a pugni il pavimento maledicendo tutti: i due bulli che si divertono a tormentarlo soltanto perché aveva cercato di fare amicizia con loro; i suoi falsi amici che nel momento del bisogno sono scappati; la sua famiglia interessata più ai voti che gli permetteranno di frequentare una prestigiosa università che ai suoi sentimenti.
Si sente solo, prigioniero di una vita in cui non può decidere nulla.
 
Quando si calma, smettendo di piangere, si alza ed esce da quella classe in cui è sicuro tornerà di nuovo il giorno dopo.
Si scontra con il freddo della sera e, con passi lenti, quasi a voler tardare il ritorno a casa, cammina per le vie silenziose della città.
Quella tranquillità lo aiuta a rilassarsi, a prepararsi psicologicamente all’interrogatorio che lo attenderà una volta davanti ai suoi genitori.
“Sopporta. Per ora sopporta.” mormora sapendo che fino a quando abiterà sotto il loro tetto dovrà sottostare al loro volere, ai loro desideri, dovrà essere all’altezza delle loro aspettative.
Il suo cuore, di nuovo, si riempie di tristezza.
 
Una volta davanti alla porta di casa respira profondamente e lascia che sul suo viso compaia un sorriso. Un falso sorriso.
“Sono a casa.” dice entrando.
“Bentornato. Jungkook ma che hai fatto alla faccia? Uff, sei caduto di nuovo, vero? Che disastro che sei. Il compito invece come è andato? Hai preso dei buoni voti, giusto? Spero che tu non abbia creato problemi in classe.”
Tira fuori dallo zaino i compiti ricevuti quel giorno e glieli porge senza smettere mai di sorridere.
“Ho ottenuto il massimo dei voti mamma. No, non ho creato problemi a nessuno. Si, sono caduto.”
La sua voce è meccanica, spenta, quasi come se a dire quelle cose non fosse lui. Si aspetta che sua madre lo elogi, che indaghi sui quei lividi fin troppo sospetti ma nel profondo sa che non succederà. Però gli piace illudersi che per una volta tanto le cose cambino.
“Hai fatto il tuo dovere. Ora forza, a tavola.”
Sospira e si siede al tavolo dove suo padre, tenendo gli occhi puntati sul giornale, mormora un disinteressato: “Come è andata oggi?”
-Male. Va sempre male ma voi non lo capite e io non posso dirvelo. Tutto questo mi fa schifo, sono stanco ma a voi non interessa. A nessuno interessa.-
“Bene.”
Mente chiedendosi quando gli adulti capiranno che quel sorriso è solo una maschera, una copertura per fingere che vada tutto bene. Spera che un giorno smetterà di essere circondato da adulti non attenti.
 
Jungkook si rifugia nella sua camera, al sicuro. Si stende sul letto perdendosi a fissare il soffitto e lì le immagini della giornata iniziano a scorrergli davanti agli occhi, come un film, e le lacrime, come pioggia, cominciano di nuovo a scendere. Mentre cerca di trattenere i singhiozzi, per non farsi sentire dai genitori, la sua mente inizia a pensare al passato, a quando le giornate non erano un inferno. Non ricorda più quando è stata l’ultima volta in cui ha sorriso davvero.
Al presente, a quanto tutto quello che sta vivendo lo stia distruggendo sia fisicamente che psicologicamente. Non ricorda più un solo momento in cui non si sia sentito a pezzi.
Il futuro però non riesce a pensarlo; si immagina solo scenari orribili, scenari in cui la felicità per lui non esiste. Non ricorda più l’ultima volta che ha sognato un domani che lo rendesse felice.
Scuote la testa e respira profondamente, è il momento di staccare la spina e riposare.
Namjoon e Yoongi, Jimin e gli altri compagni, i suoi genitori; durante la notte nessuno di loro esiste e può fargli del male.
Prima di chiudere gli occhi e smettere di pensare si domanda, tristemente, se il giorno dopo riuscirà a sopravvivere a quella scuola di lacrime.

 
  
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