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Autore: AnasseEnne    14/05/2015    2 recensioni
Un racconto, di introspettiva follia, di mistero, fra meditazione personale e, lui.....
Genere: Drammatico, Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La macchina fotografica analogica
~

La luce lunare sfiorava candida, le foglie, simili a mani di giganti,
di querce profumate, di resina e miele. E piccoli passeri, su corone
di legnetti, in culle per uova calde, e di canti, glassavano l’aria densa
d’ombra - infelice. Ed alcune stelle, rammentavano la vista, ad occhi poco abituati.

Una leggera nebbia, colorava l’ossigeno, come fumo d’oppio, e un leggero senso
di bagnato, sul derma delle braccia – umida. Ed un venticello lieve, accarezzava
di brividi – ed i peli, si drizzarono leggermente. Un senso d’angoscia, come ansia,
ma più blanda. La mia coscienza, ugualmente, sull’attenti, ed in viso occhi svelti.

I muscoli, come elettrodi, tremaron di spasmi, pronti a scattare - se necessario.
Alcuni scoiattoli, in sfide di follia, tra diramazioni come ragni di legno secco.
Ed un attimo, di riflessi attenti, per il lor rumore, ma ben presto mi calmai.
Mi mossi, con passi ch’accarezzarono la terra, di funghi eretti su di essa – viscidi.

Orde di piccoli insetti alati, come droni, controllati da piante - d’un vivo più acceso.
E mi turbarono il viso, ad ogni passo, costringendo a coprirmi il volto – ed ecco,
un terzo passo dopo i miei, mi parve d’aver udito. Mi voltai, di rapidità scattante, ma nulla.
E’ lo stress. Mi dissi, e rammentai, che l’estraneo fosse solo, protagonista di leggende d’anziani.

In quel lasso di tempo in cui, cercai un posto per accamparmi, immagini di vita
passata, m’apparvero nella mente, come antiche macchine d’animazione,
in frammenti di emozioni varie. Mentre tirai su, la struttura della tenda,
mio padre giocava con me, nei pensieri miei, come un vecchio video di famiglia.

Un sorriso mi scappò sulle labbra, impastate, assetate d’acqua – aprii la borraccia d’alluminio.
Feci qualche breve sorso, per non esaurire l’unica fonte d’energia che possedevo – a quel
punto – accesi il fuoco, con il legno consunto trovato li, fra alberi come mostri arcani,
figure di sapienza, in quel ch’era una foresta di menzogne, ed oscurità palpabile.

Mi portai una fotocamera, analogica, di quelle antiche. Attaccai il flash,
e feci qualche scatto – in fin dei conti, ero li, intento a meditare sulla vita –
e catturai lo scenario, che mi circondava, come un abbraccio da parte d’un ombra colossale.
Poi presi le mie gambe, e andai a controllare le trappole per conigli, che piazzai in giro.

Mentre sorpassai radici, che sporgevan dal terreno come tumori – legnosi -
di grandezze tutt’altro che misere, sentii un respiro accarezzarmi il collo, come uno
sbuffo di stanchezza, ma molto leggero. Mi girai – ma nulla. Non ci feci caso, ero
stanco, le macchine di morte che avevo costruito, catturaron un coniglio grigio, di pelo medio lungo.

Tornai al fuoco e presi il coltellino multifunzione, come una piccola cassa d’attrezzi,
ne estrassi quel che mi serviva, e scuoiai l’animale, ne tolsi le viscere e lo poggiai
su una struttura di rami spezzati, che sovrastava le braci ancora purpuree di fuoco. Cucinai la carne
ch’avevo conquistato, e ne divorai la consistenza – come se non mangiassi da tempi remoti.

Mentre lo feci, pensai a dove avessi sbagliato nella vita, a quegli errori – che pur essendo
di poca importanza – amalgamandosi fra di loro, mi rovinaron la vita. E feci esami di coscienza,
come se fossi in punizione d’asino a scuola, pensai che dopo quella notte, rivedendo le foto, la
mia vita potesse cambiare, rammentando quell’esperienza di solitudine introspettiva.
~ ~ ~
Tornato a casa, nella mia umile dimora, di due stanze ed un gabinetto, un materasso
sporco poggiato a terra, e vari mozziconi di paura gettati sul manto di polvere che la
ricopriva – sopirai ossigeno. L’indomani, andai a sviluppare le foto ch’avevo scattato –
e nel tempo d’attesa – presi un caffè, nel bar li vicino, ansioso di vedere le immagini da me catturate.

Prese le foto – in una busta di carta spessa – aspettati di rientrare in dimora, per ammirarle.
Giunto finalmente, sul mio amato materasso, seduto con le ginocchia che quasi toccavan le guance,
tirai fuori dalla busta quelle rappresentazioni notturne. Ne passai uno alla volta, sorridendo,
finche’, una d’esse non m’incuriosì. Notai che la mia figura, io stesso, era li – nella foto.

Pian piano realizzai, e mi accorsi, che tutte le altre raffiguravano me stesso: alle prese con il fuoco,
con lo svisceramento del coniglio e i passi che feci in quell’ambiente lugubre. Un lungo brivido
strisciò lungo la mia schiena, il respiro si fece pesante, accompagnato dall’ansia, ed una lieve
pressione, fece peso sulla mia spalla. Mi girai, ed era li, dal volto bianco, come neve fresca,

le labbra d’un viola mortuario e di occhi privi d’iride fu in possesso. Spaventato, balzai via, lontano
da quel ignoto. Chiusi le palpebre, per sgranare gli occhi, e mi resi conto – ch’ero io quel individuo.

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{Anasse N.}






 
   
 
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