-A House Is Not a Home-
Damon era stato attento.
Cauto, memore di tutte
le paure e le inquietudini che - grazie alle visioni di Stefan - avevano
contaminato mente e cuore.
E aveva esitato talvolta
a parlarne con lei.
Con l’altra grande
creatrice di manipolazioni mentali dove lui veniva
raffigurato come un miserabile essere umano, incapace di affrontare la vita coi
suoi quotidiani e normali problemi.
Lui che era sopravvissuto a tutto in 180 anni.
Loro che erano sopravvissuti a tutto.
"We'll survive this...we'll always survive"
Era questa la credibilità che dava a loro?
Al loro amore?
Alla fine però glielo
aveva fatto capire quanto desiderasse una vita -vita
di quelle col cuore che batte, il sangue che pulsa, fatta di raffreddori,
regole da rispettare- con lei.
E lei non sapeva che
teneva quel volantino che aveva mostrato a Stefan come promemoria di ciò che
non avrebbe mai voluto essere.
Un mortale corpo vuoto
incapace di vivere.
Un po’ ci aveva provato
a fare le cose diversamente; aveva aspettato che Elena finisse il college e
decidesse in quale ospedale iniziare la specializzazione per trasferirsi.
Nel mentre, aveva preso in mano alcuni vecchi
investimenti portati avanti da suo zio Zac fin quando non avesse assicurato ad
entrambi una consistenza economica tale da permettergli di spostarsi ovunque.
Stefan di certo non
aveva bisogno di denaro.
La scelta era caduta su
Seattle, perfetta.
Avevano trovato una
piccola casa in periferia, ma in zona ospedale universitario, era accogliente e
lui si era dedicato alla ristrutturazione mentre Elena iniziava l’internato.
E per ora Damon ci era
riuscito ad evitare - dopo cinque anni- di ritrovarsi sbronzo
a litigare con la donna che amava.
Tutt’altro.
Ma era come un percorso
a ostacoli quando sai dove sono posizionati e cammini
con sospetto provando a ricordare dove non sbagliare.
E il senso di frustrazione
ogni tanto lo stringeva.
Anche se dopo il primo
anno di specializzazione non era ancora riuscito a trovare il momento adatto
per chiederle di sposarlo, Damon continuava a ripetersi che non ci fossero
problemi.
“A chair is still a chair
Even when there's no one sitting there
But a chair is not a house
And a house is not a home
When there's no one there to hold you tight
And no one there you can kiss good night”
Che non fossero un problema i suoi orari, le notti in ospedale, il vedersi
poco.
Le amicizie che si era creata mentre lui in un anno aveva si e no parlato col
ragazzo delle pizze.
Che le loro litigate non
stessero aumentando perché lui senza di lei non poteva stare.
Non poteva respirare.
E si era rigirato la scatolina blu tra le mani, scatolina contente un
anello che aveva comprato -e da allora segretamente custodito- il girono in cui
aveva preso il sangue da Elena.
In cui aveva firmato la
sua decisione di mortalità per stare con lei.
La sua bellissima Elena.
Quante notti e istanti aveva immaginato i mille modi in cui farle quella proposta?
Aveva atteso così a
lungo, covando quel desiderio.
E adesso a malapena
ricordava cosa volesse dire baciarla, stringerla a se.
E si era ripromesso, Damon,
di non toccare alcool quando la paura avesse oscurato il cuore e gli occhi.
Ma sentiva di dover fare un passo, non potendo più
sostenere queste assenze, i vuoti.
Costruiva la loro casa,
ma sembrava solo per lui, vissuta da lui.
“A room is still a room
Even when there's nothing there but gloom
But a room is not a house
And a house is not a home
When the two of us are far apart
And one of us has a broken heart”
Così si era rimesso
l’anello in tasca ed era salito sul tetto, dove ormai i lavori si stavano concludendo.
Aveva salutato il vicino
di quartiere - un architetto a tratti simile a Ric
che gli aveva dato talvolta delle buone dritte e lui si era scoperto bravo nel
campo dell’edilizia, ma non l’aveva mai presa sul serio fino
infondo - e poi era successo.
Era scivolato.
Il vicino e il muratore
che era con lui avevano chiamato l’ambulanza ed era
stato portato all’ospedale dove lavorava Elena.
Probabilmente la gamba
destra non era messa bene e il taglio sanguinante sulla fronte non prometteva
nulla di buono. Sentiva pulsare tutto e un senso di stordimento gli aveva
ottenebrato i sensi.
Era rimasto in pronto
soccorso per tipo due ore mentre veniva visitato, indeciso
se dire alla giovane specializzanda goffa che si imbarazzava solo a guardarlo
che la sua fidanzata era anche lei un dottore.
Non la voleva
disturbare.
Ma visto
che erano due giorni, tra turni massacranti e super emergenze dovute a
quale incidente, che non la vedeva poteva essere una buona occasione.
Alla fine, tuttavia, era
rimasto in silenzio ad osservare il luogo di lavoro di
Elena, le infermiere che correvano frenetiche, i vari medici, l’agitazione
collettiva.
E poteva ben capire
perché fosse sempre così stanca.
Mentre lui era stanco
dentro, stanco di non vederla, di non fare più parte
del suo mondo, di non sapere se lei se ne rendesse davvero conto.
E come poteva?
Era lui che passava le
giornate a ristrutturare casa in attesa di lei.
Era lui che sentiva
crescere il vuoto dentro e un senso profondo di inutilità.
Era rimasto in silenzio
in attesa che lo portassero a fare qualche esame e
solo allora, sdraiato sul lettino con la specializzanda agiata e un medico più
grande che lo conducevano al quarto piano, l’aveva vista.
Erano in corridoio
aspettando di entrare in sala raggi.
Completo azzurro, camice, palla di capelli e cartelle mediche alla
mano.
Il suo cuore era balzato
nel petto eppure era la stessa Elena.
Era l’amore della sua
vita, colei di cui conosceva tutto.
Ma così, immersa in quello che amava fare non l’aveva
mai vista.
Non aveva mai visto
quello sguardo attento, il sorriso compiaciuto mentre spiegava a un collega
qualcosa.
Ed è rimasto ancora in
silenzio, in attesa di lei.
Era questo che aveva
fatto per tutta la vita.
Aspettare Elena.
E un leggero sorriso gli
aveva dipinto il volto attirando l’attenzione della matricola al suo fianco.
-Mi sa che il nostro
paziente si è infatuato della dottoressa Gilbert-
Aveva voltato lo sguardo
sul medico giovane che se la rideva con le braccia incrociate e aveva alzato un
sopracciglio dolorante, divertito.
-Ho un debole per le
more-
-Oh mi creda Damon…non è
l’unico-
E lo sguardo nero, ironico
lo aveva irritato.
Cosa voleva dire?
-Immagino che abbia
tanti spasimanti-
-Neh è normale in un ospedale
si lavora tanto insieme è come una grande telenovela-
-Dottoressa Cooper…-
La ragazzina ammonita
dal medico era arrossita di colpo.
Ed era stato allora che
l’aveva vista avanzare verso di loro e quando Elena aveva intercettato il suo
sguardo, Damon ricorda di essersi sentito quasi morire dentro per l’impatto che
i suoi occhi avevano ancora - dopo tanti anni- su di lui.
“Now and then I call your name
And suddenly your face appears
But it's just a crazy game
When it ends it ends in tears”
E a passo svelto e
confuso lo aveva raggiunto allarmata dalle sue
condizioni, dal sangue rappreso sulla fronte, dalla gamba o ferita.
-Oh mio dio cosa ti è
successo?-
-Elena tu lo conosci?-
-Si dottore è il mio
fidanzato-
Sia il medico che la ragazza si erano scambiati un’occhiata stranita.
-D’accordo allora
portalo pure tu dentro per i raggi...-
Aveva annuito e
ignorando i presenti si era messa a interrogarlo con quella sua tipica
apprensione materna.
Preoccupata dalle sue
ferite e infuriata perché lui non l’aveva chiamata, ma quando cadi dal tetto il cellulare è l’ultimo pensiero.
-Ti avevo detto che è
pericoloso, di stare attento!-
Continuava ad
accarezzargli il volto mentre l’altra ragazza gli sistemava l’attrezzatura
sopra la gamba.
-Beh mi conosci...sai che farei di tutto per stare con te-
Ed era dannatamente
vero.
Anche se fosse dovuto
rimanere in silenzio, in disparte, ad osservarla
crescere e attendere che fosse stata pronta per quel passo, anche se ci fossero
voluti dieci anni.
Camminava sulla terra da
180 anni ormai, aveva visto, vissuto l’impensabile.
Aveva sofferto,
ucciso, dilaniato vite.
Aveva amato con l’intensità
e la follia di un uomo.
Cosa potevano essere dieci anni se poteva avere lei?
Gli occhi azzurri così
pieni di lei.
-Ti sei guadagnato l’assistenza
medica personale-
Era rimasto in ospedale
fino a sera quando Elena smontava il turno e lo avrebbe portato a casa.
Solo allora l’infermiera
gli aveva reso il sacchetto con gli effetti personali recuperati dai vestiti.
Ed era riapparsa lei, la
scatolina blu, che quella mattina rigirandosela tra le mani aveva
distrattamente infilato nella tasca dei jeans.
Se n’era completamente
scordato.
E l’aveva aperta
osservando quell’anello semplice, ma perfetto per lei.
Stava per rimetterlo via
quando, alzando gli occhi, si era trovato davanti Elena con la borsa in spalla
e vestiti cambiati.
Ma l’unica cosa che percepiva ora era l’oblio profondo e
sorpreso degli occhi di Elena.
-Ecco..-
Lei si era avvicinata
lentamente con una faccia indecifrabile passando lo sguardo da lui all’anello
in vista rimanendo in silenzio e col cuore scalpitante.
-Non…beh non era decisamente questo il luogo o il momento in cui pensavo di
chiederti la cosa più spaventosa di sempre-
E continuava ad avanzare
fino a porsi in piedi accanto a lui.
E aveva paura Damon,
come poche volte in vita sua.
Perché i dubbi e le
paure lo avevano così tanto a lungo divorato, come un
parassita silenzioso che se lo era lavorato dal di dentro fino a renderlo quasi
l’ombra di se stesso al solo pensiero che lei potesse non volere quanto lui una
vita insieme.
Sentiva le pozze chiare
tremare liquide e un po’ terrorizzate da quello che avrebbe potuto leggere in
quelle profonde e nere di lei.
-E onestamente ancora,
dopo cinque anni non ero riuscito a trovare il momento adatto-
-Cinque anni?-
-Si te l’avevo preso per
dartelo la sera stessa in cui sono diventato umano, ma…non so-
Ed Elena gli aveva preso
una mano portandosela in volto e baciandogli il palmo graffiato nella caduta.
-Damon, in questo lavoro
ogni giorno c’è una nuova sfida, una lotta, qualcosa di eccitante
o di estremamente triste-
-Lo capisco-
-Ma niente, niente mi
rende viva come l’amore che cresce, che cambia, che si definisce…per te-
Le iridi azzurre si
erano accese infiammate dall’amore morbido e silenzioso della ragazza davanti a
lui.
Perché questo erano loro
due: due cuori che battevano, crescevano e si plasmavano sull’altro, ma senza
il bisogno soffocante di affermarlo o mostrarlo.
Era sempre stato così,
ma lui aveva bisogno di ricordare come questo amore avesse
un’inconfondibile impronta di eternità, una promessa taciuta di un per sempre
bisbigliato nelle notti di solitudine, tra le lenzuola sfatte.
Nelle ore di assenze e
paure.
Nei silenzi, nelle
incertezze.
Perché niente veniva perso tra Damon ed Elena, non c’erano davvero spazi
vuoti colmati dall’altro senza nemmeno accorgersi di essere già al punto in cui
l’altro aspettava.
E infondo, era così che
si erano innamorati – con sorpresa, attesa, fervore, paura- sfidando
costantemente il limite dell’altro, fino a scavare nelle profondità più oscure
del proprio cuore e assumere infine i tratti, disegnati lentamente dal loro
amore.
La sua casa era lei, non
una struttura fatta di legno e abbellita dal suo lavoro.
E nel momento in cui
Elena si era lasciata infilare al dito quell’anello custodito teneramente nel
silenzio – come il loro amore- Damon sapeva di essere a casa.
“Darling,
have a heart
Don't
let one mistake keep us apart
I'm
not meant to live alone
Turn
this house into a home
When
I climb the stair and turn the key
Oh,
please be there still in love with me”
Dionne Warwick- A House is
not a Home
Mah perdonatemi, non so
da dove sia uscito questo delirio.
Cioè si lo so, dalle visione indotte da Stefan –comprensibili- sulle quali
ho fantasticato in attesa del finale; avevo pensato anche a una long che poteva
partire da loro due in crisi nera ma poi mi sono detta che Damon le avrebbe
prese come promemoria di chi non voleva diventare e così mi sono messa a
scrivere di getto cosa sarebbero potuti essere.
E che forse saranno un
giorno, quando Bonnie tirerà –finalmente- le cuoia (scusate il cinismo).
Spero che abbiate
gradito, io gradirò sicuramente i vostri commenti!!!
Baci
Eli