Rose * ~ “Do you like Christmas Biscuits?” *
31 Dicembre, Ultimo dell'anno
{Buio}
Fa freddo.
Sono ore che cammino lungo questo marciapiede su tacchi
vertiginosamente alti, i piedi sono tutti indolenziti, fanno male, e
naso e orecchie mi bruciano dal gelo. Ma non posso tornare a casa,
per il semplice motivo che io una casa non ce l’ho
più. Sì, è
vero, ho un tetto sopra la testa e una minestra calda al giorno, ma
nulla di più. Quello in cui abito è solo un
edificio vuoto.
Stasera
ancora nessuna auto si è accostata a me, mentre, al
contrario, le
mie compagne hanno già avuto da lavorare almeno una volta,
tutte.
Devo impegnarmi di più se almeno stasera voglio evitare di
venire
picchiata. Ma a Natale non si dovrebbe essere tutti più
buoni? No.
Non nel mio caso, almeno.
Mi stringo
nel mio sottile giacchetto di jeans e soffio una nuvoletta di vapore
verso il cielo di seta vellutata; in mezzo secondo, la mia piccola
emissione di fiato si è già dissolta. Fa troppo
freddo perfino per
pensare.
Riprendo a
passeggiare avanti e indietro anche se non sento più le
gambe, mi
appoggio sensualmente ai lampioni nonostante il ferro mi ghiacci le
ossa, scopro la pancia nuda e il seno, contenuto in un corpetto rosso
e nero, costretta ad ignorare i crampi di freddo e di fame che, come
aghi di ghiaccio, mi trafiggono lo stomaco. E a ripagare tutti questi
sacrifici, ancora nessuna auto si ferma.
Mestiere
ingrato quello della puttana. Forse il più ingrato di tutti.
Che
ormai fa parte di me.
Una
famigliola da cartolina mi passa accanto, chiacchierando con
leggerezza, in mano biscotti di natale. Sono anni che non ne mangio
uno; il profumino che emanano mi fa venire l'acquolina. Sorrido
dolcemente al più piccolo dei bambini, un adorabile
angioletto
biondo di non più di sei anni, e quello mi ricambia. Tende
la manina
paffuta verso di me, ed io vengo travolta dal fortissimo istinto di
prenderlo in braccio, e baciargli le guance piene e morbide, e
carezzargli i capelli chiarissimi, lanuginosi, come se nessun altro
bambino esistesse al mondo. Ma la madre si accorge del mio sguardo e
mi scocca un'occhiata traboccante disgusto. Prima ch'io possa avere
il tempo di scorgere la confusione e lo stupore negli occhi azzurri
del piccolo, ecco che non c'è più. L'angelo e
quell'affetto
speciale che per un momento mi aveva scaldato il cuore sono scomparsi
assieme a quel dolce profumo di biscotti.
Scrollo le
spalle e mi riappoggio al lampione. Sono abituata ad insulti, minacce
e addirittura violenze ben peggiori di quello sguardo orripilato,
dopotutto non sono altro che una ragazza di strada, una sgualdrina,
qualcuno da cui stare alla larga. Una puttana. L'incarnazione della
libertà. Ed è proprio da questa
libertà che voglio fuggire. Ancora
non capisco perché il mondo mi -ci-
odia tanto; non ci occupiamo forse di diffondere piacere, anche se di
breve durata? È una colpa così grande da
meritarci il rifiuto di
qualunque società, di qualunque amico o familiare?
È giusto non
poter nemmeno più festeggiare il Natale, o il Capodanno? Che
sciocca, ho diciannove anni per niente; ancora mi chiedo se esiste
una giustizia a questo mondo, nella situazione in cui mi trovo? Che
stupida.
Questo
Ultimo dell'anno, però,nonostante tutto me l'ero immaginato
diversamente...
Sono una
ragazza senza nome. Una bambina perduta. Un gioiello smarrito, un
fiore che appassisce. Non sono niente.
Ho cambiato
identità talmente tante volte da non ricordarle
più tutte: quando
vivi in mezzo alla gente, chiunque tu sia sarai sicuramente al posto
sbagliato nel momento sbagliato. Se non fosse stato per mia madre non
avrei mai saputo cavarmela, in questa realtà. Buffo, quasi
assurdo
che io debba qualcosa alla donna che mi ha generato quando proprio
questa mi spinse sulla strada, cinque anni fa...
Una volta
ero qualcuno, ne sono sicura. Avevo un nome, una famiglia, delle
amiche. E sogni, desideri, paure. Una vita normale, da normale
adolescente, che qualcuno avrebbe potuto considerare noiosa,
monotona, ma che per me era il massimo della felicità.
Ora invece
non ho niente, il tempo ha cancellato ogni cosa, persino la mia
identità.
Come si può
ricordare il proprio nome quando si vive in una casa in cui nessuno
lo pronuncia più? Piano a piano, il nero oblio intacca la
memoria,
la corrode e la lacera, strappando sempre più brandelli di
un'esistenza che non è più per disperderli nel
vento.
Tutte le
luci sono accese, sia negli alti palazzoni che fuori, in strada:
cercano disperatamente di ricreare un'atmosfera calda, luminosa,
accogliente...
Bugiardi.
Non sanno
che solo le stelle più alte possono brillare così
maestosamente e
incendiare la notte? Solo io -noi- possiamo. Solo noi abbiamo questo
privilegio, questa maledizione.
Mi
sorprendo a ripercorrere un momento preciso della mia “scorsa
vita”
, come mi diverto a chiamarla, sempre lo stesso. Il mio ultimo
natale.
Avevo
quindici anni, ma ricordo ancora che stavo preparando i biscotti di
natale, quelli con la farina di mandorle che piacevano tanto a mia
madre. Papà sembrava nervoso, girava per casa senza meta,
come un
animale in gabbia, senza riuscire a concentrarsi su niente. Lo
capivo, aveva appena perso il lavoro e per lui era ancora troppo
strano trovarsi a non far niente alle cinque del pomeriggio. Io, in
verità, ne ero segretamente felice perché
finalmente avrei
trascorso le feste con la mia famiglia, tutti insieme, come non
accadeva da troppo tempo. Mi mancavano quei piccoli, caldi momenti.
Per l'occasione avevo addobbato la casa senza risparmiarmi in
decorazioni e fatica: volevo fosse un natale perfetto.
Avevo
appena messo in forno il pollo con le patate quando d'un tratto avevo
sentito la porta sbattere. Mi ero affacciata in corridoio e mamma era
lì, scossa, incapace di trattenere le lacrime. Le ero corsa
incontro
ma papà mi aveva preceduta. Urlò parecchio quella
sera, lui e
mamma, urlarono tutti e due. Capii il giorno dopo che aveva perso il
lavoro, ma solo in seguito scoprii come,
quando ormai il pollo era bruciato e i biscotti divenuti cenere.
Ben presto,
la miseria si impadronì di quella casa che un tempo era
stata così
ricca e festosa; i soldi finirono velocemente, così in
fretta che in
poco tempo tutto ciò che potemmo mangiare di lì
in avanti fu cibo
in scatola. E quella sera lontana non avevamo nemmeno toccato il
pollo.
Mi ritrovai
a dover affrontare una nuova realtà che finora, durante la
mia rosea
ed innocente adolescenza, non avevo nemmeno immaginato; non solo, mi
costrinsero ad entrarci a forza, spinta dalla mia stessa famiglia per
riuscire a tirare avanti. Divenni prigioniera della mia stessa vita e
del mio stesso nome...
E così,
eccomi qua, a vendere il mio corpo per pochi soldi per continuare a
trascinarmi lungo una vita di sacrifici. Un vero sballo, giusto?
Un'auto
straniera che lentamente rallenta proprio davanti a me interrompe il
melanconico flusso dei miei pensieri. Magari è la volta
buona.
Sorrido
morbidamente al guidatore invisibile e mi chino verso il finestrino
oscurato, scoprendomi apposta il petto.
«Vuoi
compagnia, tesoro?»
mormoro con voce vellutata cercando di scrutare oltre il mio riflesso
distorto sul vetro. Il finestrino si abbassa lentamente.
«Quanto
vuoi, bella rossa?»
domanda leziosamente il vecchietto barbuto alla guida dell'auto
scura.
Sospiro.
L'ennesimo vecchio. Perché non attiro anche dei bei
giovanotti, di
tanto in tanto?
«Sessanta»
rispondo allungando la mano.
«Un
po' cara»
commenta quello porgendomi un paio di banconote, che prontamente
intasco.
«Facciamo
in fretta, d'accordo?»
bofonchio salendo sulla macchina odorante di menta stantia.
I restanti
venti minuti sono solo un confuso vortice di labbra, capelli, gambe,
mani. Una lacrima invisibile mi solca silenziosamente la guancia
mentre faccio scivolare a terra la gonna. Poi il solito dolore, in
mezzo alle gambe e nel petto.
Il resto
sarà solo lacrime e… buio...
{Luce}
Fa
freddo.
Fa tanto freddo. Sto tremando. Perché nessuno ha acceso il
riscaldamento?
«Bill,
l'hai acceso il riscaldamento?»
Mio
fratello, mollemente adagiato sul divano, alza lo sguardo verso di
me,
«No. Avrei
dovuto?»
«Se non
vuoi che finiamo tutti congelati come baccalà,
sì, eccome!»
Bill mi
fissa per un momento con sguardo assente, poi torna al suo portatile.
«Ci pensi
tu, per piacere?»
Mi
pietrifico. Calmo, devo stare calmo.
«Bill»
comincio a denti stretti. Non devo perdere la pazienza.
«Dimmi,
caro, cos'hai fatto di bello questo pomeriggio?»
«Be',
ho guardato un po' di tivù, ho finito quella confezione di
biscotti
che stava andando a male, ho provato a scrivere qualche verso della
nuova canzone e adesso sto girovagando su qualche forum dedicato a
noi. Perché?».
«Perché
io
ho
passato ore
a pulire, cucinare e addobbare la casa pur di renderla vagamente
decente
e
poter far la festa che tu,
con tanta leggerezza, hai proposto di organizzare da
noi, lavandotene
poi le mani e lasciando fare tutto a me!
Perciò,
se ti chiedo un minuscolo, insignificante favore, dovresti come
minimo scattare!»
esclamo sottolineando con cura le parole chiave della mia filippica,
in modo che anche quell'idiota di mio fratello possa recepire il
messaggio.
«Ma mica te l'ho chiesto io di spezzarti
la schiena, no? La casa andava bene anche così»
ribatte pacatamente
quello.
Okay, non devo perdere la pazienza, è la
fine dell'anno e ci tengo ad iniziare il nuovo con il sorriso,
non-devo-perdere-la-calma...
«Per forza non me l'hai chiesto, tu te
ne freghi di tutto! Devo essere sempre io a tenere in ordine la casa,
perfino la tua stanza devo pulire perché se fosse per te
vivresti in
una discarica! Non alzi mai un dito per fare nulla...».
Bill chiude il computer con uno scatto e
si alza in piedi.
«Ah, davvero? E secondo te chi è che
manda avanti il gruppo, eh? Chi è che si occupa di
tutto?».
«Noi,
tutti insieme,
non solo tu! Siamo-un-gruppo, e ci chiamiamo ancora Tokio Hotel, se
non sbaglio, non
“Bill e altri tre tizi a caso”!»
«Ma io sono il vocalist, e nel caso non
lo sapessi ho impegni e doveri più onerosi dei tuoi, e li
assolvo
tutti con...».
«Doveri?
Ma quali doveri? Forse intendevi dire che hai il
“dovere” di fare
il pavone davanti alle telecamere e rispondere a qualche
difficilissimo quesito sulla tua stramitica vita da star viziata,
anche se non ho ancora capito secondo quale fede...».
«Viziato?
Io
sarei viziato? Non so se ti sei guardato allo specchio, di
recente...».
«Certo
che mi sono guardato allo specchio, ma non per quattro
ore
come fai tu! Ti assicuro che cinque secondo bastano per...».
«Solo perché tu sei uno schifoso
borghese cagasotto che si veste da profugo! Il mio look ha bisogno di
ben altre attenzioni e di tempi più lunghi per essere
perfet...».
«Smettila di parlare dei vestiti, per
piacere. Stavamo discutendo della tua completa
irresponsabilità,
quindi non divaghiam...».
«Bene,
grandioso, sono pure un
irresponsabile adesso? E tu, Tom, cosa credi di essere?».
«Sicuramente più organizzato e
responsabile di una checca come te!».
«La pianti di offendere senza motivo?».
«Sto
solo rispondendo con delle accuse precise, ma tanto a te non va mai
bene niente di me, finocchio
come se...».
«Un'altra parola e ti sbatto fuori di
casa!».
«Mi spiace ma non ne hai alcun diritto!
Questa casa è anche, e soprattutto, del
sottoscritto...».
«Eccome se posso! Poi però non venire a
piangere da me quando ti ritroverai...».
«... perché praticamente l'ho comprata
io!».
«Cosa? Ma cosa stai dicendo?».
«Hai capito, e sai anche che è la
verità!».
«Ah,
sì? Be', bell'acquisto hai fatto: questo posto è
più freddo del
culo
di un pinguino!».
«Non
lo sarebbe se tu avessi acceso
il riscaldamento!».
Distogliamo lo sguardo nello stesso
momento, riprendendo fiato. Mi sono rotto i coglioni. Non posso
cominciare il nuovo anno così, non di nuovo.
Mi dirigo verso la porta nell'esatto
momento in cui il campanello trilla.
«Che tempismo» esclama acidamente Bill
mentre se ne va in cucina lisciandosi la maglia.
Non ci faccio nemmeno caso, m'infilo il
giubbotto e apro.
«È qui la festa?» urla un Georg
entusiasta, porgendomi una confezione di pasticcini.
«Non per me» mormoro, e li supero senza
aggiungere una parola.
L'aria fredda della notte mi punge il
viso mentre avanzo verso la mia macchina. Tiro su col naso, poi
faccio scattare le sicure e mi chiudo dentro al non meno freddo
abitacolo evitando di pensarci troppo: se cominciassi ad
arrovellarmici su sono sicuro che finirei per tornare dentro
scusandomi per il mo comportamento... No, no, nemmeno a pensarci
Mentre metto in moto scorgo con la coda
dell'occhio del movimento sulla soglia di casa. Georg e Gustav,
indicando allibiti la mia macchina, sembrano chiedere spiegazioni a
un altrettanto sorpreso Bill, caracollato fuori senza giacca.
«Tom!» lo sento chiamarmi correndo
verso di me. Lo ignoro, inserisco la prima e tiro fuori il
telecomando per l'apertura del cancello.
«Tom! Torna indietro, non fare così!
Per piacere, lo sai che non intendevo dire quello che ho
detto!»
implora ancora Bill, avvicinandosi.
Eccome
se lo volevi, caro il mio fratellino,
penso tra me e me accendendo il riscaldamento.
«Ti prego, torna indietro!» urla
battendo sul mio finestrino. Lo trafiggo con un'occhiata ben
più
gelida dell'ambiente interno di casa nostra.
«Non questa volta» mormoro attraverso
lo spesso finestrino. E dal suo sguardo sbarrato e lucido so con
certezza che Bill ha capito perfettamente.
Il cancello si è completamente
spalancato. Premo sull'acceleratore lasciandomi ben presto alle
spalle mio fratello e il mio senso di colpa. E come un sogno, nella
notte svanisco.