[5/5]
Junsu
Untitled thougths part. 1
- tomorrow -
Junsu non aveva mai
pensato che una risata potesse fare così male, eppure mentre guarda un vecchio
reality nella grande villa di Jeju, una stretta al cuore gli fa tremare le
labbra e inumidire gli occhi; il sorriso che vede stampato sul viso del vecchio
se stesso lo sorprende, lo spiazza, e quasi non si riconosce in quelle guance
paffute e in quella voce calorosa che ora strega il pubblico.
Passano diversi secondi,
poi una voce si unisce alla propria, e un’altra ancora, fino a quando si crea
una perfetta armonia che gli dà la forza di toccare le note più alte, quelle
speciali, con cui riesce a liberarsi delle grida trattenute, e insieme
incantano lo studio, ipnotizzando ogni spettatore, che a canzone finita si
alza, agitando le mani, ringraziandoli e applaudendo così forte da far quasi
tremare le pareti.
Una strana sensazione si
muove dentro al petto, fremendo, e Junsu non ha più le forze di mentire: è
nostalgia.
L’ha sempre sentita, sin
da quando hanno mosso i primi passi oltre la soglia di quella casa che aveva
promesso loro fedeltà, ma che li aveva trattati come schiavi, servi, e li aveva
abbindolati con futili bugie; all’inizio era convinto fosse solo qualcosa di
passeggero, qualcosa che il tempo avrebbe curato, ricucendo la pelle là dove si
era strappata, eppure il tempo non ha fatto il suo dovere, le ferite sono
ancora aperte e fanno male, dannatamente male.
All’inizio credeva fosse colpa delle novità, dell’improvvisa realtà in cui si
era trovato immerso, così diversa, così strana da sembrargli incompatibile;
adesso però si è reso conto di cosa sia, di quella mancanza che ha fatto finta
di non vedere, per proteggersi, che ha fatto finta di non sentire, ma il vuoto
che ora sente è inconfondibile e nemmeno le dolci parole di Jaejoong
riuscirebbero a colmarlo.
Jaejoong, anche lui mente.
Lo fa di notte, quando
pensa che i suoi lamenti siano coperti dall’oscurità, come se il buio potesse
velare tutto, persino i suoni; forse lo pensa davvero, ma la sicurezza che sfoggia
non è altro che una maschera e prima o poi sarà costretto a toglierla.
E pure Yoochun, mente.
Lo fa di giorno, quando
pensa che lo sguardo della gente sia meno attento, meno inquisitorio; forse lo
pensa davvero, ma le sue mani sono sempre insicure e le sue palpebre tremano
prima di cantare.
Junsu mentiva, ma
probabilmente era quello che lo faceva meno di tutti perché in fondo sapeva che
i ricordi sarebbero sempre rimasti li, a fissarlo, ad osservarlo, ad aspettarlo.
E Junsu, ora, non sa più a
chi credere, in che illusione cadere; non sa più nemmeno se convenga continuare
a mentire o guardare finalmente in faccia quel dolore che hanno sempre
nascosto, in qualche modo conservato, perché era l’unica prova di quello che
erano stati e che avrebbero voluto continuare ad essere.
Un miagolio lo distrae da
i suoi pensieri e solo adesso si rende conto di aver trattenuto il respiro:
contrae i polmoni e inspira l’aria fresca di quel pomeriggio, rilassandosi sul
divano di pelle. Prende il piccolo gatto tigrato e se lo porta sulle gambe,
accarezzandolo, mentre due occhi scuri lo scrutano oltre i piccoli baffi,
sembrano quasi dirgli di smettere, che non ha senso trattenersi: sfogati, gli gridano, piangi, gli sussurrano.
Chiudere il passato e
aprire il futuro.
Perché Junsu lo sa: l’avvenire,
ora, promette un cielo sereno.