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Autore: xingchan    22/05/2015    4 recensioni
[Il Silmarillion]
“Incidi, scalfisci, modella, plasma il simulacro morto e freddo del tuo amato figlio. Perché non ti resterà nient’altro che quello.”
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nerdanel
Note: Missing Moments, Nonsense, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Brought back to the light

 

 

Aveva vagato smarrita per le terre di Aman, senza essere mai più vista, nascondendosi agli occhi di tutti come se dovesse celare una vergogna che non le apparteneva; aveva trovato la sua imperitura dimora fra le lucenti fronde del Paese Beato, all’interno di un modesto palazzo dopo la partenza senza ritorno del suo consorte Fëanor e dei suoi figli per la Terra di Mezzo. Da allora, ogni cosa galleggiava nella sua mente, immobile, mentre frammenti di ricordi che le erano cari e dolci, ed altri che le procuravano nient’altro che astio e rancore, si accavallavano gli uni sugli altri, unendosi in un connubio fatto di immagini, suoni, sensazioni; da quelle più dirompenti alle più miti.

Niente aveva sfiorato Nerdanel figlia di Mahtan in quel lasso di tempo, niente che potesse turbarla. Perché il tradimento di Fëanor era fino a quel momento la più grande costernazione a cui è stata sottoposta. Fino al giorno più funesto della sua vita.

Maedhros è morto, gettatosi nelle fiamme della terra portando con sé parte dell’opera di Fëanor suo padre;  e benché l’avesse fatto per non soccombere al bruciante potere del Silmaril nella sua mano, sua madre non può fare a meno di pensare che avesse compiuto violenza contro se stesso anche per essersi lasciato dietro una scia di sangue troppo lunga e troppo difficile da espiare.

Per quanto possa cercare di comprendere le ragioni di suo figlio Nerdanel mai  riuscirà ad accettare la sua dipartita. Perché di tutta la sua progenie, Maedhros era lo specchio della sua anima, quello che le somigliava più di chiunque altro sia per aspetto che per temperamento. Era il primo frutto del seme di Curufinwë scaturito da un desiderio esplosivo sbocciato quel giorno in cui i suoi occhi bui e penetranti avevano trafitto i suoi in profondità. Era la dolcezza che si fece materia, macchiato da crimini di cui mai avrebbe voluto sporcarsi. Era il figlio che ogni donna desidera nel proprio grembo, e che ogni qualsivoglia individuo brama come fratello ed amico.

Nerdanel avrebbe preferito vederlo spogliarsi di tutto il suo orgoglio, avrebbe preferito vedere lacrime di pentimento solcargli le guance, mentre avrebbe mormorato le sue suppliche di perdono. Perché ella glielo avrebbe accordato senza remora alcuna, ed anche i Valar misericordiosi.

Ora quell’immagine però non si potrà mai concretizzare, poiché egli non è più.

Accecata da quella consapevolezza, Nerdanel urla per la disperazione, il viso contratto in un’espressione che mai prima d’ora le si era disegnata in volto. La sua bocca arrossata nel mare bianco latte della sua pelle s’increspa in continue contorsioni di angoscia, mentre il suo corpo drappeggiato di verde si piega, schiacciato sotto il peso della morte che incombe su di lei come mei poteva credere avesse fatto; le ginocchia tremanti si schiantano al suolo, ed ella si prostra avvilita, artigliando il pavimento con le unghie, raschiando la superficie della sala principale del suo palazzo tanto grande quanto vuota.

I suoi capelli di fuoco si spargono sulla sua schiena contratta; mentre ode la sua stessa voce che le rimbomba nella mente, che la conosce molto meglio di quanto lei possa conoscere se stessa.

Pazza. La Sapiente è pazza, in realtà. Cosa c’è di saggio, nel soccombere al dolore?

Una eco profonda le trafigge il cervello come una spada, una beffarda verità che sa di orribile scherno, che però le ridà un minimo di lucidità.

Saggia è stata un tempo, quando perfino l’animo indomito del suo consorte si ammansiva di fronte alla sua pazienza. Sapiente era l’appellativo che altri le avevano dato perché stupiti dalla dolcezza delle sue argomentazioni buone e giuste, contrapposto al miele avvelenato di Fëanor principiato dall’odio di Morgoth.

Ella non è come lui fu, non si è mai lasciata accecare dal suo pur forte orgoglio, e non aveva mai osato di sfidare i Valar, né chiesto niente di più di quel che Essi le avevano concesso; mai aveva avuto la presunzione di pretendere qualcosa da loro senza che ve ne fosse il bisogno. Mai aveva abbracciato il suo orgoglio, cullando ira e rancore andando incontro alla disobbedienza, neanche per seguire Fëanor, e nell’eventualità sorvegliarlo.

Aveva soltanto pregato affinché nessuno dei suoi figli si perdesse nell’oblio, pur sapendo che avrebbero affrontato tutto ciò che il loro padre avesse affidato loro, e che nessuno dei loro spiriti subissero la lenta, deteriorante attesa nelle Aule di Mandos, che sarebbe durata finché Eru stesso non avesse deciso di reincarnarli, se mai l’avesse fatto prima della fine. Perché non c’era possibilità di recarvisi per prenderli e portarli via.

La sponda nord di Valinor non era poi così lontana, ma a nessuno dei vivi era permesso di avvicinarsi alla sacralità di quel luogo. Erano così vicini, eppure così lontani.

Nessuno può accedere alle Aule di Mandos, nessuno che cammini ancora sul sentiero della vita.

In quanto Elfi, i Primogeniti di Eru Ilúvatar sono immortali. Ma nonostante l’esistenza imperitura riservata loro, non c’è legge alcuna che impedisce loro di morire. Che sia per spada o per deterioramento spirituale, gli Elfi conoscono la fine in ogni caso. Nerdanel però non aveva mai fatto i conti con tutto questo; o almeno, non aveva mai conosciuto la soffocante contrizione di sapersi sola e incapace di porvi rimedio.

Nerdanel spalanca la sua bocca, pronta ad emettere un altro lacerante grido, ma non esce nulla. China avanti la testa, e come fuoco le sue ciocche saettano da una parte all’altra, prive di controllo. Paiono possedere lo stesso tormento della loro proprietaria.

Urla, disperati, muori. I tuoi figli non ritorneranno. Maitimo non ritornerà.

Le sue grida riprendono, continuando a far tremare ciò che la circonda. Sente che prima o poi le forze verranno a mancare, si accascerà al suolo, e si lascerà avvolgere dall’abbraccio della morte con una serenità sconosciuta.

Ma non succederà nulla di tutto questo, poiché ella non si lascerebbe andare lentamente alla morte provando a trovarvi la consolazione di cui necessita. Ella è forte, indomita. Ella reagisce, seppure in un modo del tutto inusuale. Ella si ribella con se stessa, e con quel marito tanto caro e tanto odiato, ignorando il semplice languore e adottando la cieca mortificazione.

Perché niente oramai ha senso, per lei, non vale più la pena di mantenere risoluta la propria condotta. La sua vita aveva avuto senso dal giorno in cui cadde nell’abbraccio dell’amore di Fëanor; dal giorno in cui diede alla luce quel figlio alto e forte dai capelli bagnati dal fuoco e dal sangue, un connubio di mansuetudine e fedeltà impossibile da disgregare; dal giorno in cui credeva che niente avrebbe mai spezzato la stabilità della sua famiglia divenuta numerosa.

D’un tratto la vede, la sua famiglia, unita e perfetta, e il ricordo di quell’integrità la rasserena. Il suo sguardo di perla vaga nella sala oscurata dalla notte, infima, aspra, eppure clemente, un solido guscio tetro e protettivo insieme.

Infine, trova quel che inconsapevolmente desiderava. Un blocco di marmo bianco come la sua pelle la sovrasta con la sua maestosità, abbandonato in attesa di un’ispirazione che non arrivava, e con rinnovato interesse ne segue le venature con le esili dita, come se volesse accarezzare ciò che, pensa, troverà oltre quella fredda prigione.

Le sue grida tacciono, le sue lacrime si fermano.

Tutto il suo essere si perde in una languida tenerezza, vedendo occhi, naso, labbra, capelli che esistettero e che ora non ancora esistono.

Esita in quell’onda di nostalgia, e pian piano agguanta con mani incerte un martello ed uno scalpello, e con passo accorto e stanco si aggira intorno al blocco, una grave piuma macchiata di rosso che oscilla intorno alla candidezza del marmo.

Alza le mani, pronta ad imprimere per sempre l’immagine di quel suo figlio prediletto, mentre le slittano nella mente ricordi della sua nascita e la felicità provata nello stringere quel piccolo dai radi ciuffi rossi afferra e dilania il dolore cocente della perdita.

Ma è solo per un altro, impietoso istante. Scaraventata sul selciato della realtà infima, intrappolata nella crudezza dell’effettività degli eventi, si rialza, e alza gli occhi verso la dura pietra. Non c’è altro che quella, fredda e priva di vita, ma con un disperato, ultimo singhiozzo, ella comincia a scalfirla. Dapprima lentamente, poi sempre più velocemente.

Incidi, scalfisci, modella, plasma il simulacro morto e freddo del tuo amato figlio. Perché non ti resterà nient’altro che quello.

La consapevolezza di questo la sprona a continuare il suo lavoro con crescente solerzia, obliando ogni cosa: le luci, i suoni, perfino se stessa. Sibila il nome di Fëanor chiamandolo maledetto, e sussurra il nome di Maedhros istillandovi il più dolce amore di una madre; prova una malsana compassione per se stessa, ma niente è più importante per lei di rivedere suo figlio, seppur sotto un sembiante di marmo. La disperazione si fa materia e le corrode le ossa come un veleno; e le sue mani lavorano febbrilmente, ansiose di toccare quel profilo, l’unico che per lei ora conta davvero.

“Ritorna, Maitimo, ritorna...”

Ode la sua voce implorare alla scultura ciò che il vero Maedhros non potrà fare, non adesso, e forse mai.

Aveva sempre provato una sconfinata soddisfazione quando per opera sua dal nulla affioravano lineamenti dei soggetti a cui si dedicava. Adesso no.

I Noldor sono i grandi custodi di tutte le arti, istruiti dal Vala Aulë in persona. Legno, metalli, città intere: la loro maestria si estende su tutto ciò che la terra ha da offrire. Nerdanel in particolare, è così abile che le sue sculture paiono dotate di vita propria. Sembra quasi di vederle muovere, perfino di sentirne le voci.

Ed è una voce, quella eco remota che ora sente nella sua testa. Le mani lasciano andare gli strumenti da lavoro, la scultura ancora incompiuta, ma non le importa. Il volto di suo figlio è lì che le sorride, come tornato in vita, e se non fosse per le braccia ancora imprigionate l’avrebbe stretta contro di sé senza indugio.

Riprende a lavorare, non paga, e il tempo passa senza aver nessuna importanza; finché la scultura viene completata. Maedhros sorride, le sue braccia protese verso di lei in un dolce invito consolatorio.

Nerdanel affonda il viso nelle sue mani e piange di commozione, e del dolore rimane una traccia che per quanto piccola è insostenibile.

Pensi che sia sufficiente? Pensi che ti basti, quel che hai fatto?

No, non le basta. Non potrà mai bastarle. Ma cos’altro può fare?

Si lascia andare in quel freddo e solido abbraccio. Non ha nulla di quello caldo e morbido dell’originale. Lei però non demorde. Si aggrappa ancora più tenacemente alla statua, infondendo il suo calore personale, in modo che potrà fingere che sia quello di suo figlio.

Va bene così. Deve andar bene così. Altrimenti, della pace perduta che tanto cercava, non troverà mai memoria.

 

 

 

 

 

 

NDA

 

Di Nerdanel non si sa più nulla da quando si rifiutò di seguire suo marito ed i suoi figli nella Terra di Mezzo, ed effettivamente non si potrebbe dire più nulla di lei se non che rimase ad Aman, e che si presuppone “ci sia ancora”.

Ma mi sono concessa tantissime libertà sul suo conto e su quello di Maedhros affinché questa idea che avevo in mente prendesse corpo.

Baci! :*

   
 
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