Brought
back to the light
Aveva vagato
smarrita per le terre di Aman, senza
essere mai più vista, nascondendosi agli occhi di tutti come
se dovesse celare
una vergogna che non le apparteneva; aveva trovato la sua imperitura
dimora fra
le lucenti fronde del Paese Beato, all’interno di un modesto
palazzo dopo la
partenza senza ritorno del suo consorte Fëanor e dei suoi
figli per la Terra di
Mezzo. Da allora, ogni cosa galleggiava nella sua mente, immobile,
mentre
frammenti di ricordi che le erano cari e dolci, ed altri che le
procuravano
nient’altro che astio e rancore, si accavallavano gli uni
sugli altri, unendosi
in un connubio fatto di immagini, suoni, sensazioni; da quelle
più dirompenti
alle più miti.
Niente aveva
sfiorato Nerdanel figlia di Mahtan in
quel lasso di tempo, niente che potesse turbarla. Perché il
tradimento di
Fëanor era fino a quel momento la più grande
costernazione a cui è stata
sottoposta. Fino al giorno più funesto della sua vita.
Maedhros
è morto,
gettatosi nelle fiamme della terra portando con sé parte
dell’opera di Fëanor
suo padre; e
benché l’avesse fatto per
non soccombere al bruciante potere del Silmaril nella sua mano, sua
madre non
può fare a meno di pensare che avesse compiuto violenza
contro se stesso anche
per essersi lasciato dietro una scia di sangue troppo lunga e troppo
difficile
da espiare.
Per quanto possa
cercare di comprendere le ragioni
di suo figlio Nerdanel mai riuscirà
ad
accettare la sua dipartita. Perché di tutta la sua progenie,
Maedhros era lo
specchio della sua anima, quello che le somigliava più di
chiunque altro sia
per aspetto che per temperamento. Era il primo frutto del seme di
Curufinwë
scaturito da un desiderio esplosivo sbocciato quel giorno in cui i suoi
occhi bui
e penetranti avevano trafitto i suoi in profondità. Era la
dolcezza che si fece
materia, macchiato da crimini di cui mai avrebbe voluto sporcarsi. Era
il
figlio che ogni donna desidera nel proprio grembo, e che ogni
qualsivoglia
individuo brama come fratello ed amico.
Nerdanel avrebbe
preferito vederlo spogliarsi di
tutto il suo orgoglio, avrebbe preferito vedere lacrime di pentimento
solcargli
le guance, mentre avrebbe mormorato le sue suppliche di perdono.
Perché ella
glielo avrebbe accordato senza remora alcuna, ed anche i Valar
misericordiosi.
Ora
quell’immagine però non si potrà mai
concretizzare, poiché egli non è più.
Accecata da
quella consapevolezza, Nerdanel urla per
la disperazione, il viso contratto in un’espressione che mai
prima d’ora le si
era disegnata in volto. La sua bocca arrossata nel mare bianco latte
della sua
pelle s’increspa in continue contorsioni di angoscia, mentre
il suo corpo
drappeggiato di verde si piega, schiacciato sotto il peso della morte
che
incombe su di lei come mei poteva credere avesse fatto; le ginocchia
tremanti
si schiantano al suolo, ed ella si prostra avvilita, artigliando il
pavimento
con le unghie, raschiando la superficie della sala principale del suo
palazzo
tanto grande quanto vuota.
I suoi capelli
di fuoco si spargono sulla sua
schiena contratta; mentre ode la sua stessa voce che le rimbomba nella
mente,
che la conosce molto meglio di quanto lei possa conoscere se stessa.
Pazza.
La Sapiente è pazza, in realtà. Cosa
c’è di saggio, nel soccombere al dolore?
Una eco profonda
le trafigge il cervello come una
spada, una beffarda verità che sa di orribile scherno, che
però le ridà un
minimo di lucidità.
Saggia
è stata un tempo, quando perfino l’animo
indomito del suo consorte si ammansiva di fronte alla sua pazienza. Sapiente era l’appellativo che
altri le
avevano dato perché stupiti dalla dolcezza delle sue
argomentazioni buone e
giuste, contrapposto al miele avvelenato di Fëanor principiato
dall’odio di
Morgoth.
Ella non
è come lui fu, non si è mai lasciata
accecare dal suo pur forte orgoglio, e non aveva mai osato di sfidare i
Valar,
né chiesto niente di più di quel che Essi le
avevano concesso; mai aveva avuto
la presunzione di pretendere qualcosa da loro senza che ve ne fosse il
bisogno.
Mai aveva abbracciato il suo orgoglio, cullando ira e rancore andando
incontro
alla disobbedienza, neanche per seguire Fëanor, e
nell’eventualità
sorvegliarlo.
Aveva soltanto
pregato affinché nessuno dei suoi
figli si perdesse nell’oblio, pur sapendo che avrebbero
affrontato tutto ciò
che il loro padre avesse affidato loro, e che nessuno dei loro spiriti
subissero la lenta, deteriorante attesa nelle Aule di Mandos, che
sarebbe
durata finché Eru stesso non avesse deciso di reincarnarli,
se mai l’avesse
fatto prima della fine. Perché non c’era
possibilità di recarvisi per prenderli
e portarli via.
La sponda nord
di Valinor non era poi così lontana,
ma a nessuno dei vivi era permesso di avvicinarsi alla
sacralità di quel luogo.
Erano così vicini, eppure così lontani.
Nessuno
può accedere alle Aule di Mandos, nessuno che cammini ancora
sul sentiero della
vita.
In quanto Elfi,
i Primogeniti di Eru Ilúvatar sono
immortali. Ma nonostante l’esistenza imperitura riservata
loro, non c’è legge
alcuna che impedisce loro di morire. Che sia per spada o per
deterioramento
spirituale, gli Elfi conoscono la fine in ogni caso. Nerdanel
però non aveva
mai fatto i conti con tutto questo; o almeno, non aveva mai conosciuto
la
soffocante contrizione di sapersi sola e incapace di porvi rimedio.
Nerdanel
spalanca la sua bocca, pronta ad emettere
un altro lacerante grido, ma non esce nulla. China avanti la testa, e
come
fuoco le sue ciocche saettano da una parte all’altra, prive
di controllo.
Paiono possedere lo stesso tormento della loro proprietaria.
Urla,
disperati, muori. I tuoi figli non ritorneranno. Maitimo non
ritornerà.
Le sue grida
riprendono, continuando a far tremare
ciò che la circonda. Sente che prima o poi le forze verranno
a mancare, si
accascerà al suolo, e si lascerà avvolgere
dall’abbraccio della morte con una
serenità sconosciuta.
Ma non
succederà nulla di tutto questo, poiché ella
non si lascerebbe andare lentamente alla morte provando a trovarvi la
consolazione di cui necessita. Ella è forte, indomita. Ella
reagisce, seppure
in un modo del tutto inusuale. Ella si ribella con se stessa, e con
quel marito
tanto caro e tanto odiato, ignorando il semplice languore e adottando
la cieca
mortificazione.
Perché
niente oramai ha senso, per lei, non vale più
la pena di mantenere risoluta la propria condotta. La sua vita aveva
avuto
senso dal giorno in cui cadde nell’abbraccio
dell’amore di Fëanor; dal giorno
in cui diede alla luce quel figlio alto e forte dai capelli bagnati dal
fuoco e
dal sangue, un connubio di mansuetudine e fedeltà
impossibile da disgregare;
dal giorno in cui credeva che niente avrebbe mai spezzato la
stabilità della
sua famiglia divenuta numerosa.
D’un
tratto la vede, la sua famiglia, unita e
perfetta, e il ricordo di quell’integrità la
rasserena. Il suo sguardo di perla
vaga nella sala oscurata dalla notte, infima, aspra, eppure clemente,
un solido
guscio tetro e protettivo insieme.
Infine, trova
quel che inconsapevolmente desiderava.
Un blocco di marmo bianco come la sua pelle la sovrasta con la sua
maestosità,
abbandonato in attesa di un’ispirazione che non arrivava, e
con rinnovato
interesse ne segue le venature con le esili dita, come se volesse
accarezzare
ciò che, pensa, troverà oltre quella fredda
prigione.
Le sue grida
tacciono, le sue lacrime si fermano.
Tutto il suo
essere si perde in una languida
tenerezza, vedendo occhi, naso, labbra, capelli che esistettero e che
ora non ancora
esistono.
Esita in
quell’onda di nostalgia, e pian piano
agguanta con mani incerte un martello ed uno scalpello, e con passo
accorto e
stanco si aggira intorno al blocco, una grave piuma macchiata di rosso
che
oscilla intorno alla candidezza del marmo.
Alza le mani,
pronta ad imprimere per sempre
l’immagine di quel suo figlio prediletto, mentre le slittano
nella mente
ricordi della sua nascita e la felicità provata nello
stringere quel piccolo
dai radi ciuffi rossi afferra e dilania il dolore cocente della
perdita.
Ma è
solo per un altro, impietoso istante. Scaraventata
sul selciato della realtà infima, intrappolata nella
crudezza dell’effettività
degli eventi, si rialza, e alza gli occhi verso la dura pietra. Non
c’è altro
che quella, fredda e priva di vita, ma con un disperato, ultimo
singhiozzo,
ella comincia a scalfirla. Dapprima lentamente, poi sempre
più velocemente.
Incidi,
scalfisci,
modella, plasma il simulacro morto e freddo del tuo amato figlio.
Perché non ti
resterà nient’altro che quello.
La
consapevolezza di questo la sprona a continuare
il suo lavoro con crescente solerzia, obliando ogni cosa: le luci, i
suoni,
perfino se stessa. Sibila il nome di Fëanor chiamandolo
maledetto, e sussurra
il nome di Maedhros istillandovi il più dolce amore di una
madre; prova una
malsana compassione per se stessa, ma niente è
più importante per lei di
rivedere suo figlio, seppur sotto un sembiante di marmo. La
disperazione si fa
materia e le corrode le ossa come un veleno; e le sue mani lavorano
febbrilmente, ansiose di toccare quel profilo, l’unico che
per lei ora conta
davvero.
“Ritorna,
Maitimo, ritorna...”
Ode la sua voce
implorare alla scultura ciò che il
vero Maedhros non potrà fare, non adesso, e forse mai.
Aveva sempre
provato una sconfinata soddisfazione
quando per opera sua dal nulla affioravano lineamenti dei soggetti a
cui si
dedicava. Adesso no.
I Noldor sono i
grandi custodi di tutte le arti,
istruiti dal Vala Aulë in persona. Legno, metalli,
città intere: la loro
maestria si estende su tutto ciò che la terra ha da offrire.
Nerdanel in
particolare, è così abile che le sue sculture
paiono dotate di vita propria.
Sembra quasi di vederle muovere, perfino di sentirne le voci.
Ed è
una voce, quella eco remota che ora sente nella
sua testa. Le mani lasciano andare gli strumenti da lavoro, la scultura
ancora
incompiuta, ma non le importa. Il volto di suo figlio è
lì che le sorride, come
tornato in vita, e se non fosse per le braccia ancora imprigionate
l’avrebbe
stretta contro di sé senza indugio.
Riprende a
lavorare, non paga, e il tempo passa senza aver
nessuna importanza; finché la scultura viene completata.
Maedhros sorride, le
sue braccia protese verso di lei in un dolce invito consolatorio.
Nerdanel affonda
il viso nelle sue mani e piange di
commozione, e del dolore rimane una traccia che per quanto piccola
è
insostenibile.
Pensi
che sia sufficiente? Pensi che ti basti, quel che hai fatto?
No, non le
basta. Non potrà mai bastarle. Ma
cos’altro può fare?
Si lascia andare
in quel freddo e solido abbraccio.
Non ha nulla di quello caldo e morbido dell’originale. Lei
però non demorde. Si
aggrappa ancora più tenacemente alla statua, infondendo il
suo calore personale,
in modo che potrà fingere che sia quello di suo figlio.
Va bene
così. Deve
andar bene così. Altrimenti, della pace perduta che tanto
cercava, non troverà mai
memoria.
NDA
Di Nerdanel non
si sa più nulla da quando si rifiutò
di seguire suo marito ed i suoi figli nella Terra di Mezzo, ed
effettivamente
non si potrebbe dire più nulla di lei se non che rimase ad
Aman, e che si
presuppone “ci sia ancora”.
Ma mi sono
concessa tantissime libertà sul suo conto
e su quello di Maedhros affinché questa idea che avevo in
mente prendesse
corpo.
Baci! :*