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Autore: TotalEclipseOfTheHeart    23/05/2015    3 recensioni
La storia di Galbatorix, i pensieri e il passato del tiranno che soggiogò Alagaesia.
La sua infanzia, passata tra la sofferenza e i soprusi,
ma sopratutto quell'incontro che gli cambiò la vita per sempre.
Quella persona che lasciò una traccia indelebile nel suo animo: Jarnunvosk...
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Galbatorix, Nuovo Personaggio, Shruikan
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti
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GALBATORIX’S CHRONICLES-THE KING AND THE SORROW
 
I-A world in a so little creature, my love
 
Strinse i forte i denti fino a farsi male alle mascelle, concentrando ogni più piccola e infinitesimale cellula del suo corpo nel tentativo di non abbassare lo sguardo dotto di lui, altrimenti, lo sapeva, sarebbe tornato subito indietro. Era li, immobile e con i nervi tesi fino allo spasimo, aggrappato sul frontone di una delle case del popolo, nel mezzo della notte, quando in teoria si suppone che ogni bravo bambino che si rispetti se ne stia buono e zitto sotto le coperte a dormire. Sapeva che se qualcuno lo avesse sentito per lui sarebbe stata la fine, lo avrebbero consegnato alle guardie, per la sedicesima volta in un mese, e ormai sapeva che genere di persone fossero quelle.
 
Gente squallida e perfida, perennemente annoiata da quell'apatica routine quotidiana che non presentava mai nulla di nuovo, per cui, quando succedeva qualcosa anche di solo vagamente interessante, non perdevano certo l’occasione per trarne godimento. Lo avevano acciuffato già altre volte, mentre tentava di sgraffignare qualcosa da portare a casa alle sue sorelline malate, a Mary, che ormai non si alzava più dal letto dalla debolezza e lo fissava ogni volta con quegli occhi spenti e privi di vita. Quando accadeva, si divertivano sempre moltissimo a torturarlo, picchiandolo selvaggiamente fino a fargli sputare sangue, fino a quando non sentiva ogni singola molecola del suo essere bruciare di un dolore sordo e cieco, oppure si godevano a fare leva sul suo disperato bisogno di cibo, ricattandolo e costringendolo a intraprendere imprese impossibili o a umiliarsi in pubblico in cambio di un misero tozzo di pane ammuffito. In quei momenti non poteva fare a meno di chiedersi dove fossero i Cavalieri, quei miti a cavallo di bestie alate di cui tanto si parlava in giro, che stessero facendo e dove fosse la loro fantomatica giustizia se nemmeno riuscivano a difendere un bambino di dieci anni. Ma Inzilbeth era un villaggio isolato, ai margini della Du Waldenvarden, dove nessuno faceva mai sosta e dove persone come ubriachi, ciarlatani e sfruttatori potevano vivere tranquillamente senza temere di essere scoperti.
 
Sospirò, lanciando con la coda dell’occhio uno sguardo sotto di se, dove un salto di oltre dieci piedi lo attendeva qualora avesse per caso perso la presa sul marmo già umido e unto a causa delle muffe che lo infestavano e dell’umidità serale: forse, dopotutto, se fosse caduto le guardie non avrebbero nemmeno potuto fargli nulla, visto che con ogni probabilità sarebbe morto sul colpo. Deglutì forte, mentre la strisciante sensazione di paura e pericolo imminente si impossessava del suo corpo, gelandogli le ginocchia già tremanti dal freddo e stringendogli lo stomaco in una morsa letale. Ricacciò indietro le lacrime a fatica e si fece forza, passo dopo passo, secondo dopo secondo, giunse infine al terrazzo sopra la bottega del salumiere dove atterrò in silenzio, guardandosi attorno cauto e avvicinandosi alla porticina in legno che dava accesso alla cantina. Estrasse da sotto gli stracci unti di terriccio e fango un fil di ferro vecchio e arrugginito, che infilò cautamente nella serratura, posò l’orecchio sulla porta, lavorando in silenzio. La notte era serena, nessuna nuvola oscurava il cielo che poteva quindi sfoggiare con tutto il suo orgoglio una miriade di sfere lucenti, che ne punteggiavano la volta come lucciole sparate nello spazio, tirava un vento leggero ma l’aria era tanto gelida che piccoli fiocchetti di brina coprivano il terreno e l’aria calda si condensava il grossi nuvoloni di fronte al nasetto arrossato del bambino, che stava praticamente gelando con addosso solo un misero straccio di lino lungo fino alle ginocchia. Finalmente, dopo minuti di duro lavoro, la serratura scattò e il piccolo Galbatorix potè entrare nel tepore caldo della cantina, dove migliaia di grossi prosciutti rosei e tondi, salami dall’odore di spezie e salsiccioni gocciolanti di grasso pendevano ordinatamente allineati dal soffitto. Gli occhi color cioccolato del bambino si illuminarono di fronte a quella vista tanto insperata, e si sarebbe certo soffermato per sempre a godersi quello spettacolo, oltre che il dolce tepore della stanza, se un improvviso latrare non lo avesse fatto sussultare. Si gettò sul primo prosciutto che gli capitò a tiro, prese un paio di salsicce e senza esitare un secondo fuggì all’aperto, mentre il profondo vocione del salumiere incitava i grossi mastini da guardia alle sue spalle, si gettò al piano di sotto, dove una balla di fieno attutì la sua caduta, per poi riprendere la corsa con il fiato pesante e puzzolente di carne ammuffita dei mastini che lo seguivano a ruota. Inciampò un paio di volte, ma si rialzò in piedi, correndo senza pensare per i vicoli del villaggio fino a quando non fu convinto di averli seminati, si fermò, tentando di riprendere fiato, poi riprese la strada verso il quartiere povero, al confine sud del villaggio. Il quartiere povero altro non era che un cumulo di baracche e casupole improvvisate fuori dei confini del villaggio, tende e insediamenti in cartone e pezzi di legno che a stento si reggevano in piedi, dove cani scheletrici e pantegane grosse quanto gatti vagavano senza meta note e giorno. La sua dimora non era altro che un tenda smunta e fredda, piena di toppe, buchi e spifferi, grande si e no dieci piedi per sette, all’interno vi erano solo giacigli fatti di stracci unti e sudici, un focolare e la tinozza per il bagno.
 
Entrò trafelato, tanto ansioso di dare la buona notizia alle sue sorelline che nemmeno si accorse in tempo del grosso ceffone che lo colpì in pieno viso, facendolo gemere appena e scagliandolo a terra. Suo padre, ubriaco e ciondolante, il viso rosso contratto dalla rabbia, con le venuzze che sporgevano pulsanti dalla tempia, iniziò a prenderlo selvaggiamente a calci, sbraitando a squarciagola: “Razza di piccolo verme! Sei andato di nuovo al villaggio, eh?! Pensavi che non me ne accorgessi, eh?! E se ti avessero preso?! Chi mi avrebbe comprato la birra, cosa credi che succederebbe se le guardie venissero a casa nostra a perquisirci e ci trovassero in possesso di questo cibo?! Razza di rifiuto!” Continuò a percuoterlo selvaggiamente sotto gli occhi attoniti e terrorizzati delle sue sorelline, che dai loro giacigli fissavano la scena con occhi pieni di terrore e paura. Dopo qualche minuto però si stancò e lo lasciò lì, a terra, piegato in due dal dolore mentre si mordeva a sangue le labbra per non urlare o supplicare perdono: no, non poteva fare una cosa simile, non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di vederlo strisciare. Si rialzò a fatica, prese il cibo caduto a terra e si avvicinò alle sue sorelline, che gli si gettarono al petto singhiozzando in silenzio, mentre quel mostro che era loro padre tornava a dormire.
 
 
La notte trascorse in silenzio.
 
Dopo aver sfamato e messo a letto le due più piccole, Galbatorix si occupò di Mary, la più grande, che ormai da qualche giorno era scossa da una violenta febbre che nulla voleva saperne di abbassarsi. La assistette per tutta la notte, facendole il bagno con l’acqua piovana raccolta nella tinozza da bagno e preparandole zuppe calde a base di radici e salsiccia, lentamente, la bambina dai grandi occhi verdi da cerbiatta iniziò a riprendere colore. Le gote smunte e pallide tornarono di un roseo candore, gli occhi riconquistarono, seppure lentamente, la loro luce di vita, quegli occhi verde smeraldo, verdi come le foglie novelle a primavera, come tutti gli smeraldi di Alagaesia. Purtroppo però la febbre non accennava a diminuire, la tosse aumentava giorno dopo giorno e il bambino era sempre più preoccupato per le sorti della sorellina.
 
Fu con il cuore pesante che una sera decise di dirigersi verso la casa del medico del villaggio: avrebbe offerto i suoi servigi per tutto il tempo necessario pur di rivedere Mary tornare a correre felice. Bussò alla porta con fare esitante, incerto e col terrore che l’uomo potesse decidere di cacciarlo via a pedate o, peggio ancora, di chiamare le guardie e consegnarlo a loro. Sull’uscio si presentò un uomo magro e allampanato, dalla carnagione giallognola e allegri eppure profondi occhietti grigio cenere, dai corti e riccioluti capelli neri, lo fissò interrogativo e stava per richiudergli la porta in faccia quando, al colmo della disperazione, Galbatoix gli si gettò piangendo ai piedi, supplicandolo in ginocchio di aiutare la sua sorellina malata e promettendo in cambio qualsiasi cosa gli venisse chiesta. Il medico lo squadrò dall’alto in basso, come chiedendosi in che modo gli sarebbe potuto tornare utile un tipetto del genere: nonostante l’età il bambino era infatti robusto e ben piantato, seppure magrolino e dai corti capelli neri come l’inchiostro completamente ingestibili, la carnagione era scura e gli occhi color cioccolato parevano mandare lampi purpurei quando un’insolita scintilla impossibile da comprendere li attraversava per qualche istante. L’uomo parve convincersi e gli fece cenno di entrare, lo fece sedere in un angolo, chiedendogli con voce afona che sintomi presentasse la sua sorellina e da quanto fosse in quello stato. Man mano che proseguiva con il racconto, Galbatorix notò le sopracciglia del medico aggrottarsi, e gli occhi farsi sempre più seri, gli fece alcune domande ma finito il colloquio il bambino rimase quasi shockato nel sentire il prezzo che avrebbe chiesto per le sue cure: sei anni di servizio presso di lui. Non che il bambino volesse rifiutare, ma persino lui, che non aveva mai avuto a che fare con trattative simili, sapeva che era un prezzo a dir poco esorbitante per qualcosa che in fondo a quell’uomo non sarebbe costato che pochi minuti di lavoro. Eppure sapeva bene di non avere altra scelta, e ingoiando per l’ennesima volta il rospone accettò l’offerta senza protestare.
 
Il medico mantenne la promessa, e venne per visitare sua sorella, poco dopo Galbatorix fu costretto ad abbandonare la sua famiglia per lavorare presso quell’uomo. Lavorava tutto il giorno, teneva pulita la casa, preparava i pasti, lucidava le sue attrezzature, non vi erano pause e il cibo era a malapena sufficiente per tenerlo in piedi. Si liberava solo a tarda notte e allora passava a sgraffignare qualcosa per il villaggio prima di tornare a casa, dove le sue sorelle lo attendevano con ansia. Non accadeva di rado che dovesse assentarsi per giorni, ma poiché ormai Mary iniziava a ristabilirsi sapeva di poter contare su di lei per il mantenimento delle due più piccole.
 
L’inverno nel frattempo era alle porte e il lavoro diventava sempre più duro. Ormai Galbatorix non tornava nemmeno più a casa e passava le ore tra una commissione e l’altra, chiedendosi come stessero le sue sorelline, cosa stessero facendo e se avessero di che sfamarsi. Fu in quel periodo che una gelata improvvisa travolse il villaggio, sommergendolo nella neve e isolandolo dal resto del mondo, Galbatorix sapeva che in momenti simili le condizioni della gente del quartiere povero diventavano a dir poco impossibili e avrebbe disperatamente desiderato tornare a casa per controllare che tutto andasse bene. Ma le tormente si susseguivano incessanti ed era consapevole che uscendo con quel tempaccio con ogni probabilità sarebbe capitolato prima di raggiungere la sua meta. Dopo due settimane di tormente e nevicate continue le nubi si diradarono e i raggi del sole tornarono a colpire seppur deboli la neve che si era accumulata per le strade. Dovette supplicare in ginocchio ma alla fine il medico gli concesse di andare a controllare le condizioni delle sue sorelline, contento, Galbatorix si catapultò fuori correndo, diretto al quartiere povero.
 
Entrò nella tenda trafelato, ma guardandosi intorno non trovò le sue sorelle da nessuna parte, in un angolo, suo padre beveva in silenzio da un boccale di birra pieno di crepe. L’omone lo fissò con sguardo vuoto: “Vattene, non hai nulla da fare qui!” brontolò ciondolando appena. Galbatorix non capiva, col freddo che c’era, perché le due più piccole non erano in casa? Un improvviso odore di carne in putrefazione gli colpì le narici quando notò dei fagottini ammucchiati ai lati della tenda. Terrorizzato, con gli occhi che già si riempivano di lacrime, si avvicinò tremante, scostò un lenzuolo e quasi cadde a terra nel riconoscere il volto dimagrito e smunto di Mary, al fianco dei visini pallidi e infossati di Anya ed Enya.
 
“Mary ha continuato a tossire anche dopo le cure del medico, non lo dava a vedere ma era evidente che quel rammollito del villaggio non l’aveva affatto curata, il gelo se l’è portata via e poco dopo le gemelle l’hanno seguita” la voce di suo padre era priva di emozioni, eppure quando si voltò lo trovò in lacrime, mentre affogava il dolore nell’alcool. Non provò pena per lui, non c'era mai stato per loro e quindi non glie ne poteva fregare di meno di come si sentisse in quel momento.
 
Si precipitò fuori di se verso la casa del medico.
 
Aveva promesso che l’avrebbe guarita, era quello l’accordo.
 
Invece Mary era morta, e con lei anche le sue sorelline.
 
Se fosse rimasto con loro, senza cercare aiuto dall’esterno, forse in quel momento sarebbero state ancora vive.
 
L’uomo stava uscendo quando si vide venire addosso il bambino, le gote rigate dal pianto e i pugni pronti a colpirlo, iniziò a lanciargli calci e morsi, gridando a squarciagola che lui gli aveva fatto una promessa, che gli accordi erano che sua sorella sarebbe guarita. Presto le mani delle guardie lo acciuffarono, non prima però che lui riuscisse a lasciare un profondo segno di denti sul braccio dell’uomo, che era a terra sanguinante. I soldati lo gettarono a terra, pronti a percuoterlo a sangue, eppure ormai a lui non glie ne importava più nulla, sarebbe potuto anche morire, visto che ormai la sua vita era stata distrutta.
 
“Fermi!” una voce imperiosa li sorprese dall’alto, mentre un'ombra scura calava sul villaggio.
 
Il Cavaliere li osservava severo dalla groppa del suo drago, un magnifico esemplare femmina alto almeno dieci piedi e dalle lucenti squame color ghiaccio, che si schiarivano fino a tendere al bianco sul petto mentre sul dorso e sulle ali sfumavano in un leggero blu lapislazzuli. L’uomo aveva l’aspetto di un giovane elfo, eppure i tratti decisi del viso, oltre che il fisico sodo e massiccio, indicavano chiaramente le sue origini umane, così come i folti capelli rosso fiamma e i grandi occhi neri come la pece.
 
“Che state facendo?!” chiese, smontando agile dalla sua cavalcatura. La dragonessa osservò in silenzio il bambino, e Galbatorix si sentì perforare da quello sguardo glaciale, gli pareva quasi che quella strana creatura potesse leggergli nell’animo.
 
Spaventato e confuso, si accorse solo in ritardo che grosse lacrime salate aveva iniziato a scendergli dagli occhi. Il Cavaliere lo fece alzare, sorridendogli gentile: “Tutto bene?”
 
Galbatorix annuì appena, troppo impressionato dall’aura di potere di quello sconosciuto per poter anche solo tentare di spiccare parola.
 
Una delle guardie si fece subito avanti, prostrandosi umilmente a terra. “Questo piccolo teppista ha aggredito il nostro compaesano sire, noi stavamo solo compiendo il nostro dovere” gli occhi untuosi e carichi di rammarico della guardia si spostarono verso il bambino, come a sfidarlo silenziosamente di contraddirlo.
 
Il Cavaliere osservò in silenzio il soldato, poi, con una smorfia di disgusto sul viso, si rivolse a Galbatorix: “Dice la verità?”
 
Il piccolo divenne livido di rabbia, ripensando ai mesi di lavoro, alla malattia e poi alla morte delle sue tre sorelline: “Quel medico mi aveva promesso che avrebbe guarito mia sorella! Gli accordi erano che, se io lo avessi servito per sei anni…”
 
Il Cavaliere lo bloccò, shockato, poi si rivolse all’uomo, che nel frattempo si era fasciato il braccio ferito: “Sei anni? Per delle medicine?”
 
Il medico sbiancò di botto, poi si riprese e disse: “Non gli crediate, sire, questo moccioso sta mentendo. Credete davvero che potrei sfruttare così un poveretto senza casa?”
 
Galbatorix, che già ne aveva le tasche piene degli inganni e delle menzogne di quel truffatore, fece per gettarglisi nuovamente addosso, ma fu gentilmente preso per la collottola dalla dragonessa che scambiandosi uno sguardo d’intesa con il compagno spiccò il volo, allontanandolo da quella situazione incomoda.
 
“Mettimi giù!” gridava dimenandosi il bambino “Quel mostro ha ucciso le mie sorelle!”
 
La dragonessa alzò gli occhi al cielo, poi atterrò e lo depositò delicatamente a terra. L’ho fatto per il tuo bene, lascia che se ne occupo Jaul…ha capito che quelle persone stanno mentendo, quindi non temere, prenderà provvedimenti.
 
Galbatorix fissava ammaliato quella magnifica creatura. Non avrebbe mai immaginato di poter vedere un drago in carne e ossa, non da così vicino almeno. Aveva sempre percepito l’esistenza dei Cavalieri come qualcosa di lontano e irraggiungibile, un mito sfocato e confuso di cui nemmeno lui riusciva a capire il senso. Eppure sapeva che esistevano, li aveva visti, ogni tanto, sorvolare il villaggio diretti al regno degli elfi, nonostante ciò, non poteva assolutamente perdonarli. Se il loro compito era difendere i deboli, perché erano intervenuti solo allora per aiutarlo? Perché prima non c’erano mai stati? Quanta povera gente del quartiere povero era continuamente costretta a sopportare soprusi e rappresaglie senza che loro intervenissero? L’astio lo travolse con forza improvvisa, tanto che si gettò contro il petto della dragonessa, picchiandolo con tutta la forza dei suoi minuscoli pugnettini. “E’ tutta colpa vostra! Sei un drago, no? Perché voi e i Cavalieri non ci siete mai per la gente come noi? Che c’è di così importante da tenervi sempre occupati? Dove sarebbe la vostra tanto elogiata giustizia? Vi importa così poco di noi del popolo?”
 
La dragonessa fissava sorpresa quella creaturina minuscola, che con tanto coraggio gli si era gettata addosso, quando nemmeno in battaglia i nemici osavano affrontarla frontalmente. Sorrise appena e lo scostò con dolcezza.
 
Io e il mio compagno siamo venuti qui per la schiusa delle nuove uova…abbiamo sentito che ci sono nel villaggio alcuni bambini che potrebbero diventare Cavalieri. Dimmi, ti piacerebbe?
 
Gli occhi gelidi del drago si immersero in quelli caldi e ardenti del bambino, il quale aggrottò le piccole sopracciglia, prese fiato, gonfiò il petto e le sparò contro il “No!” più deciso che riuscì a elaborare. Poi si voltò e si sedette a terra, braccia e gambe incrociate, con un broncio che di certo non sarebbe scomparso facilmente.
 
Una risata squillante li sorprese alle spalle, mentre Jaul si avvicinava deciso. “Non siamo noi a scegliere il nostro destino, e poi, chissà, ora che sei solo un drago potrebbe anche fare al caso tuo”
 
Grossi lacrimoni riempirono gli occhi color cioccolato del bambino, che si voltò incerto: “Tu dici? E se poi non sono il tipo giusto?”
 
Il Cavaliere sorrise: “Tanto vale tentare no?”
 
Estrasse dalle bisacce assicurate sulla groppa della dragonessa un piccolo scrigno. Galbatorix, affascinato, lo osservò attentamente. Il bauletto era fatto di uno strano legno scuro, con intarsi in oro e bassorilievi estremamente dettagliati raffiguranti Eragon e il primo drago, Bid’Daum, grosse gemme di mille colori differenti ne tempestavano i lati, rendolo un oggetto indubbiamente unico. Jaul tese la mano, mormorando parole in una lingua sconosciuta, eppure un brivido attraversò la spina dorsale del giovane, che capì subito, per istinto, che quella era La Lingua. La serratura scattò, esponendo ai raggi caldi del mattino tre grosse uova perfettamente ovali, che brillarono come di vita propria.
 
Il primo uovo, più piccolo degli altri, pareva come ricoperto di brina mentre sotto la superficie dai riflessi color ghiaccio una timida luce brillava gelida eppure piena di forza.
 
Il secondo era molto grosso, seghettato e pieno di increspature, rosso come il magma bollente e pervaso da un fortissimo odore di zolfo e fumo.
 
Il terzo fu quello che lo colpì di più. Un ovale perfetto, dalla lucida superficie color smeraldo, con insolite striature che ricordavano la forma delle foglie di quercia, sotto i raggi del sole acquisiva tutti i colori della primavera: il verde allegro dell’erba appena nata, quello scuro del muschio, quello un po’ smorto delle foglie più vecchie. Emanava una dolce fragranza di menta e aghi di pino.
 
Galbatorix tese la mano, come attirato da una forza sconosciuta, fino a quando un debole ticchettio non scosse la superficie perfetta di quella meraviglia della natura. Si avvicinò, prendendo l’uovo e posandoselo delicatamente in grembo, quello si fermò di colpo, come percependo la sua presenza. Poi iniziò a tremare visibilmente, mentre la creaturina che vi si annidava tentava disperatamente di uscire, tutta curiosa e fremente all’idea di conoscere il suo nuovo compagno. Infine comparve una crepa, e poi un’altra, e un’altra ancora, fino a quando un piccolo frammento di guscio non cadde a terra: dall’interno, una curiosa iride uguale alla sua lo studiò con attenzione. Poi l’uovo esplose, cogliendolo di sorpresa e facendolo ruzzolare indietro, mentre la piccola dragonessa gli saltava tutta contenta sul petto, la fissò a bocca aperta. Le squame, dello stesso colore dell’uovo, parevano brillare di vita propria, mentre la piccola, ancora ricoperta da un viscido liquido trasparente, si puliva diligentemente le zampina.
 
Galbatorix tese la mano. Fu un fulmine, in un secondo percepì tutta la coscienza di quella minuscola bestiolina fluirgli dentro, rimarginando con la sua sola presenza le ferite degli anni passati tra sofferenze e soprusi, facendolo rinascere e donandogli una nuova ragione per vivere. Sentì i pensieri di lei, gli anni di attesa, alla disperata ricerca della Persona Giusta, l’unico, in tutto il mondo, che potesse divenire il suo compagno di vita per l’eternità, sentì la sua gioia quando aveva sfiorato il suo guscio e capì che mai sarebbe stato più solo. Una scarica di energia gelida gli percorse il petto, come travolto da una cascata ghiacciata, sentì poi ogni sua più piccola cellula bollire e ardere, folgorata, di fronte a quel legame nuovo e prima sconosciuto. Rimase a terra, ansante, mentre tentava di riprendersi da quell’esperienza tanto unica e irripetibile, si guardò la mano, sulla quale un lucido ovale cosparso di luce smeraldina brillava deciso.
 
I suoi occhi si immersero in quelli di lei, tuffandosi in quel mare color cioccolato pieno di amore e tenerezza. Il suo nome: Jarnunvosk.
   
 
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