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Autore: Targaryen    28/05/2015    8 recensioni
"Vi è una quiete innaturale in quei luoghi quando ogni suono tace, una quiete che spaventa e in cui riecheggia il silenzio denso che avvolge i morti lasciati a marcire sui campi di battaglia. Thranduil è sicuro che sia questa una delle ragioni per cui sul Gorgoroth nessuno cerca la solitudine."
Nel 3434 S.E. uomini ed elfi diedero vita all'Ultima Alleanza e affrontarono Sauron nella terra d'ombra, in una guerra che durò sette anni e che si concluse con la temporanea sconfitta del servo di Morgoth.
Genere: Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Amroth, Elrond, Gil-galad, Thranduil
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sussurri di foglie e di vento'
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Gorgoroth



Amroth corre.
Corre da giorni, ormai, e ha quasi l’impressione di non essersi mai fermato da quando ha memoria. Tutto ciò che ha preceduto quell’attimo sembra svanito e il presente è ora la sua unica realtà, occupa ogni suo pensiero e si fa gioco della fatica bruciando il corpo e lo spirito con la stessa ferocia di una lama rovente.
“Tuo padre è morto, lord Amroth”, ha riferito il messaggero inviato dall’Alto Re, coperto di polvere e con l’orrore negli occhi.
“Come?”, ha domandato la sua voce mossa da volontà propria.
“Sul campo di battaglia, mio signore, insieme a re Oropher.”
Le sente ancora quelle parole, ogni istante più assordanti di prima, e gli pare di non udire altro da quando ha iniziato a correre, sfinendo non ricorda quanti cavalli e la scorta con essi.
Corre, Amroth, verso la tenda delimitata dalle alte bandiere percorse da intrichi di rami argentati, e non si accorge delle guardie poste all’ingresso finché le punte delle loro lance non toccano il velluto dei suoi abiti.
Si ridesta, allora, e fa un passo indietro. Un silvano, dai sottili capelli castani e con una vistosa cicatrice sul volto, si para dinnanzi a lui.
“Devo parlare con Thranduil!”, gli intima il nuovo re, e in un primo momento non comprende come mai l’elfo si irrigidisca sul posto e non accenni a spostarsi.
Poi un barlume di memoria si fa strada in lui ed egli lotta per trattenerne i frammenti.
Ha corso troppo, forse, e prima di balzare su quel cavallo per troppo tempo ha ascoltato solo la voce degli alberi, per troppo tempo ha respirato il profumo della terra e sognato di Nimrodel negli infiniti mondi danzanti tra pareti di rugiada. Ad ogni alba le gocce cadevano e le labbra di Nimrodel restavano lontane, finché tra un’alba e un tramonto suo padre è partito. Suo padre, che Nimrodel considerava così poco; suo padre, che è morto per il bosco e Nimrodel.
Non c’è rugiada sul Gorgoroth soffocato dalla polvere nera, non ci può essere rugiada sul filo di una lama rovente. Tornerà, forse, quando i rami lo abbracceranno di nuovo e quando Nimrodel gli racconterà dell’estasi che si prova bevendo la pioggia, ma ora non ci sono rami e la pioggia non cade.
“Chiedo di poter parlare con re Thranduil”, ripete, l’urgenza questa volta trattenuta.
L’elfo lo esamina per un momento, quindi gli volge le spalle e scompare oltre i drappi che nascondono l’ingresso. Amroth attende, immobile, finché non lo vede riaffacciarsi e scostare le stoffe invitandolo ad entrare.
D’impulso varca la soglia e si ferma dopo pochi passi. Si guarda intorno e per un lungo istante viene sopraffatto dalla sensazione di aver fatto ritorno nella propria terra. Confuso segue le curve del legno e si sazia del verde che gioca con esso, respirando lentamente quasi stesse inalando l’aria che accarezza le foglie del Lórinand. Non si accorge di colui che siede in un angolo sullo scranno accanto al braciere, il volto illuminato da guizzi di fiamma e gli abiti che brillano come argento tra l’erba.
“Benvenuto, re Amroth, nonostante le circostanze.”
Amroth si gira di scatto in direzione della voce, e la realtà gli rovina addosso insieme a quel titolo associato al suo nome. Re Amroth, perché re Amdír non è più.
Subito l’illusione svanisce ed egli cerca lo sguardo del re di Boscoverde.
Non ha mai incontrato il figlio di Oropher prima di adesso, poiché egli ha eletto da sempre i boschi a sua dimora mentre Thranduil ha preferito alla vita silvana la corte di un Noldor. Eppure Amroth  sa che colui che lo sta osservando non ha mai nutrito simpatia per i Noldor.
“L’erede di Boscoverde è come un seme che non può crescere all’ombra di alberi troppo invadenti”, gli disse secoli addietro Amdír, quando egli lo interrogò sul perché di quella scelta, “Ha bisogno di vedere il cielo per poter germogliare e divenire egli stesso albero.”
Al ricordo di suo padre il cuore rischia di fermarsi.
“Come è morto?”, irrompe dimenticando le formalità, “Tu eri là.”
Thranduil non risponde, ma solleva una mano ed indica il seggio posto dinanzi a lui.
“Siedi, re Amroth, e riposa un istante. Hai viaggiato a lungo e sei stanco.”
Amroth annuisce quasi senza rendersene conto ed accoglie l’invito, ma ripete la domanda. Ha corso troppo per attendere ancora e pare che Thranduil ne sia consapevole, poiché inizia a parlare non appena egli ha preso posto.
“Mio padre non ha rispettato quanto era stato stabilito, ha anticipato l’attacco e ha condotto verso la morte oltre metà del nostro esercito”, gli riferisce con voce bassa, “Re Amdír lo ha seguito, ma è rimasto indietro ed è stato spinto verso le paludi. Egli è morto insieme a quasi tutti i suoi silvani, ma se mi domandi come ciò sia accaduto non so dirtelo. Non ero al suo fianco.”
Amroth serra le palpebre e deglutisce a vuoto, cercando di resistere al dolore che all’improvviso lo sommerge come un fiume in piena e insieme al quale riprende a fluire la sua vita.
“Dov’è il suo corpo?”, riesce a domandare a fatica.
Per un tempo infinitesimo Thranduil sembra esitare.
“Nelle paludi”, dice quindi, “Lo hanno cercato, ma gli acquitrini non rendono mai ciò che hanno preso.”
Amroth si accorge di avere difficoltà a respirare e sussulta quando Thranduil si china accanto a lui e gli porge un calice pieno. Non aveva notato che si fosse alzato.
“Bevi”, lo sente sussurrare.
Improvvisamente arso dalla sete gli strappa il bicchiere di mano e lo svuota tutto d’un fiato, come se dal suo contenuto dipendesse la vita stessa. Il vino lambisce i suoi pensieri facendoli apparire più distanti, ma quando essi riacquistano consistenza si accorge che bruciano forse più di prima.
“Hai già seppellito tuo padre?”, chiede.
Thranduil prende il calice e lo appoggia sul tavolo vicino, facendosi spazio tra mappe arrotolate e fogli ricoperti da una scrittura fine e leggera.
“Altri lo hanno fatto per me”, risponde.
Amroth sa che anche Thranduil ha perso molto e che non può non soffrire almeno quanto lui, ma dalla sua voce traspare ben poco. E’ difficile riconoscere Oropher in colui che ha di fronte. La cadenza con cui parla è estranea alla lingua silvana, quel nervosismo nei gesti che distingueva il re deceduto è assente in lui ed anche dell’impulsività che era in suo padre non vi è traccia. Guardandolo egli si domanda se quell’atteggiamento faccia parte di lui o se non sia invece il frutto della vita trascorsa alla corte di Gil-galad, nei palazzi abitati da coloro che si arrogano il diritto di cambiare il mondo e dove non sempre è saggio svelare sé stessi. Amroth si lascia sfuggire un sospiro, incerto se attribuire quei pensieri al proprio sentire o a quello di Nimrodel. Li confonde spesso, ultimamente.
“Perché?”, vuole sapere.
“Io non potevo”, risponde Thranduil, e non aggiunge altro.
Questa volta la sua voce lascia trapelare una nota amara, che sorprende Amroth e che lo spinge ad osservarlo con maggiore attenzione. Lo vede sedere di nuovo, adagio, una mano appoggiata sul fianco e troppa attenzione nei movimenti perché possano essere considerati naturali, e comprende.
Comprende, e l’immagine di suo padre esanime si sovrappone senza alcuna ragione apparente a quella del re di Boscoverde.
Si alza e si precipita fuori in cerca di aria, ma quando tenta di riempire i polmoni la polvere sottile che piove dal cielo gli ferisce la gola e lo costringe a tossire violentemente. 
“E’ l’Orodruin”, sente Thranduil sussurrare alle sue spalle, “Le sue esalazioni avvelenano il cielo e la terra.”
Un lungo silenzio, durante il quale egli arriva a convincersi che se ne sia andato, ma poi la sua voce ritorna, questa volta forte e chiara.
“La tua gente ti sta aspettando. C’è una tenda pronta ad accoglierti. Riposa e decidi. Nessuno ti obbliga a restare e nessuno ti intima di andare, ma sappi che questa guerra non finirà domani.”
Quando Thranduil torna a tacere egli si volge e alza gli occhi.
“Tu resterai?”, chiede.
“Sì”, conferma questi.
Una scelta maturata da tempo, intuisce Amroth.
In un gesto dettato dall’abitudine si passa una mano tra i lunghi capelli e si sorprende nel ritrovarli dello stesso colore della cenere. Si guarda intorno e sobbalza alla vista delle lande desolate che si estendono sino all’orizzonte, quasi le scorgesse in quel momento per la prima volta. Le ha attraversate cavalcando giorno e notte, ma correva troppo veloce per riuscire a vederle davvero.
“Parlerò con l’Alto Re”, dice.
Thranduil si sofferma ad osservarlo per un istante, quindi annuisce e rientra nella tenda a passi lenti.
Immobile accanto all’ingresso, solo ora Amroth si accorge delle lacrime che gli rigano il volto, le prime da quel giorno, ma non cerca di fermarle. Piangere, a volte, è il primo passo che la guarigione richiede.

 
***
 

Ci sono molte cose che mancano sull’altopiano del Gorgoroth, e una di queste è l’acqua. Le linee di rifornimento che fanno la spola tra le terre fertili e i campi degli assedianti trasportano quella necessaria per il sostentamento degli eserciti, ma non possono sostituire né i fiumi né la pioggia. E Sauron lo sa, come sa che spegnere gli incendi usando la sabbia scura che ricopre la terra non è né facile né veloce. Per questo i suoi incursori scivolano come ombre nelle notti più nere e colpiscono laddove le sentinelle falliscono nell’individuarli. E dove questo accade il fuoco divampa e altre vite vanno perdute.
Thranduil osserva il corpo quasi interamente carbonizzato che giace ai suoi piedi. Si china accanto ad esso ed afferra il lembo di un tessuto miracolosamente sfuggito al rogo. Se non fosse per le insegne ancora intatte ai margini del campo non saprebbe dire se colui che giace privo di vita sia un elfo o un mortale. Il fuoco ne ha divorato il volto cancellandone i tratti. In silenzio lo copre e  si alza, lasciando vagare lo sguardo sui resti contorti delle tende ancora avvolte dal fumo. Le fiamme sono state spente, come ogni volta, ma come ogni volta qualcuno ha pagato quell’errore.
“Lo conoscevi?”, domanda Gil-galad accennando a chi è ormai cadavere.
“No.”
Quando le sentinelle hanno dato l’allarme si trovavano entrambi nella tenda dell’Alto Re, intenti a discutere su quale via seguire per muovere ancora più avanti la linea d’assedio. Sono usciti insieme, precipitandosi verso il bagliore che ha squarciato la notte, ed arrivando come sempre troppo tardi.
Hanno trovato Amroth, intento a ridefinire la disposizione degli osservatori per chiudere quella nuova falla, e hanno preferito rimandare a dopo le domande. Sono i suoi silvani usciti vivi dalle paludi ad essersi assunti quel compito, perché sono troppo pochi per formare un esercito e perché i loro archi sono quelli che arrivano più lontano. 
“Sono già trascorsi cinque anni”, sussurra l’Alto Re, il capo leggermente abbassato e un lampo di rabbia nello sguardo, “Questo assedio sembra non avere mai fine.”
Thranduil rinfodera la spada.
“Elrond direbbe che non è saggio per un re mostrarsi insicuro”, dice.
“Elrond direbbe che non è saggio per un re mostrarsi insicuro dinanzi al suo popolo”, lo corregge Gil-galad, e quasi sorride pur senza alcuna allegria.
A volte Thranduil ancora si sorprende di quanto la presenza del figlio di Orodreth sia divenuta per lui famigliare e di quanto sia ormai facile evitare formalità e finzioni in sua compagnia.
“Questa non è una via che può essere percorsa in entrambi i sensi”, riflette, “Si può andare soltanto avanti.”
L’Alto Re si concede un sospiro e con un gesto deciso pianta l’asta di Aeglos nella terra arida. Sospesa a mezz’aria la punta ondeggia nel buio della notte, quasi fosse un fuoco fatuo troppo nervoso e troppo brillante.
“Mi manca il mare”, confessa d’un tratto, e per un attimo Thranduil si convince di aver solo immaginato quelle parole.
Ma Gil-galad continua, la sua voce un po’ più alta di prima.
“Nell’Ossiriand, quando Ulmo agita le onde, si respira ovunque il sentore di sale e se lo segui arrivi sin dove il mare incontra la terra. Puoi sederti sulla sabbia, allora, e aspettare che il sole tramonti, e in quella luce che muore, tra la spuma che danza sui flutti, hai quasi la sensazione di scorgere il riflesso di Aman. Non è così, lo so, ma quella fantasia mi manca come non mai. E a te, Re Thranduil, cosa manca?”
Vi è una quiete innaturale in quei luoghi quando ogni suono tace, una quiete che spaventa e in cui riecheggia il silenzio denso che avvolge i morti lasciati a marcire sui campi di battaglia. Thranduil è sicuro che sia questa una delle ragioni per cui sul Gorgoroth nessuno cerca la solitudine.
“Solo una volta visitai Boscoverde, prima che mio padre lasciasse Amon Lanc”, ammette, “Durante le notti mi allontanavo spesso dagli insediamenti per camminare tra gli alberi. Erano alti ed antichi e coprivano il cielo con le loro fronde. L’aria era satura del canto delle stagioni e l’acqua era dolce come linfa, e talvolta tra le foglie le stelle scendevano a salutarmi. Avrei creduto che sarebbero stati gli agi della vita che condussi lontano da lui a mancarmi, e invece mi manca quel bosco con le sue stelle. Mi manca ora, e non so perché.”
Non si ritrae quando avverte la mano di Gil-galad posarsi lieve sulla sua spalla, fermarsi per il tempo di un respiro ed abbandonarla dopo averla appena sfiorata. 
“Lo rivedrai”, lo sente dire.
“E tu rivedrai il mare”, gli fa eco lui, volgendosi e abbozzando un sorriso.
Da anni, ormai, ha dimenticato come si sorride davvero e forse lo ha dimenticato anche Gil-galad.
Lo vede annuire mentre chiude le dita intorno all’asta di Aeglos, estraendola dal suolo ed allontanandosi a passo lento.
Thranduil getta un’ultima occhiata a ciò che resta del campo e lo segue.
Nessuno ama rimanere solo sul Gorgoroth.

 
***
 

I capelli bagnati adesi alla pelle, il sudore impastato con la polvere, gli occhi che bruciano per le esalazioni venefiche della montagna di fuoco e il tormento continuo della sete, che gli sembra di non riuscire mai a spegnere nonostante beva senza ritegno: è questo ciò che occupa i pensieri di Anárion, mentre inveisce contro l’ennesima roccia che ha bloccato l’avanzata della macchina d’assedio. Eppure è il sudiciume che imbratta ogni cosa a dargli più fastidio, più delle frecce che piovono dall’alto e che ormai non sono altro che uno sporadico disturbo.
Si porta le mani sui fianchi e accompagna con lo sguardo l’alta figura di Gil-galad mentre si allontana nella sua armatura dorata, non un rivolo di sudore sul volto, non un minimo accenno di disagio. Gli elfi non sentono ciò che lui sente. Li ha veduti ricoperti di sangue e di fango, eppure essi non subiscono come i mortali gli effetti di quel luogo maledetto. Nei primi nati la terra di Mordor tralascia l’apparenza e adombra lo spirito, spegnendone la luce pian piano e rendendo meno vivide le stelle che abitano le iridi dei più antichi tra loro.
Inveisce di nuovo, enfatizzando le parole con un calcio ben assestato alla ruota che non vuole saperne di muoversi. Devono fare in fretta. Il sole sta per tramontare oltre la cappa di fumo che pesa su di loro, ed entro breve non si vedrà ad un palmo dal naso.
“Togliete di mezzo questo masso, subito!”, urla rivolto a chiunque riesca ad udirlo, e si allontana ad ampie falcate.
Guidato dall’abitudine si inerpica lungo lo stretto sentiero che serpeggia tra scure lame di roccia e raggiunge il più vicino punto di osservazione.
Appena sotto di lui i soldati della guarnigione stanno già lavorando con pali e picconi nel tentativo di rimuovere il masso nel più breve tempo possibile. Anárion è spesso rude con loro, ma dopo sei anni di guerra al loro fianco li conosce ormai tutti per nome e ha sentito qualcosa rompersi dentro di sé ad ogni uomo perduto. E di guerre,  Anárion, ne ha combattute molte, forse troppe.
Giunto in prossimità del punto più alto si ferma e segue con lo sguardo i contorni neri delle mura di Barad-dûr, che incombe immensa su di loro. Sembra irridere i loro sforzi la torre oscura, ma ogni giorno che passa le maglie dell’assedio si stringono sempre di più e gli orchi sono costretti a divorare i cadaveri perché niente le attraversa.
Cadrà presto, Anárion lo sente. Presto Sauron farà l’ultima, disperata mossa e le sorti della Terra di Mezzo verranno decise. E lui sarà là, e farà tutto ciò che può per nutrire la propria spada con le sue carni e con le sue ossa. Lo deve alla sua terra, lo deve ai suoi uomini morti, lo deve a sé stesso e a ciò che ha sacrificato a causa sua. Lo deve a sua moglie e ai suoi figli.
Si passa una mano sul viso, cercando di dare sollievo agli occhi stanchi e arrossati.
“Dobbiamo completare il nuovo fronte prima di sera”, gli ricorda Elendil, seduto sul costone a pochi passi da lui, Narsil distesa al suo fianco e tra le mani due ciotole di cibo.
“Ce la faremo.”
Il re non aggiunge altro, ma offre al figlio la ciotola non ancora toccata e lo invita con un cenno a prendere posto accanto a lui.
In silenzio Anárion si toglie l’elmo ed affianca il padre.
Sta per portarsi alle labbra l’ultimo boccone quando le voci concitate che giungono dal basso lo costringono a rinunciare. Si rimette in piedi con un sospiro e si allontana, ed Elendil quasi sorride quando lo vede indossare nuovamente l’elmo in un gesto rassegnato.
Non avrebbe voluto che i suoi figli fossero stati costretti ad affrontare gli orrori di Mordor, così come non avrebbe voluto tante altre cose, ma raramente è dato scegliere in tempi come quelli.
Raggiunta la catapulta Anárion vede il capitano venirgli incontro. E’ un uomo basso e tarchiato, con più cicatrici in volto che capelli in testa, ma al quale affiderebbe la propria vita senza pensarci due volte.
“Cosa succede?”, domanda.
“Non è un masso, signore, ma un affioramento roccioso che scende in profondità. Dobbiamo aggirarlo.”
Anárion scuote il capo. Fortunatamente le postazioni di difesa nemiche sembrano poco attive e quello è l’unico inconveniente che hanno incontrato quel giorno. Tutte le altre macchine sono già state riposizionate e, in fin dei conti, quella è stata una giornata fortunata.
“D’accordo”, concede, “Iniziate ad arretrare.”
L’uomo non se lo fa ripetere, si allontana a passo svelto e non si accorge di nulla. Non se ne accorge lui, non se ne accorgono coloro che ancora imprecano intorno all’ostacolo e non se ne accorge Anárion. Se ne accorge Elendil, invece, ma il suo grido di avvertimento arriva insieme al proiettile che piomba dall’alto e che non cade dove dovrebbe.
Il masso manca l’obiettivo che avrebbe voluto mandare in pezzi e colpisce il terreno lievemente inclinato, scivolando senza che nulla lo trattenga sino ad Anárion e impattando poi contro la vicina parete.
Quando Elendil arriva alla fine del sentiero solo il silenzio lo accoglie. Il silenzio, e l’orrore stampato sui volti dei presenti.
Si ferma, il corpo spezzato che era una volta suo figlio mescolato con la terra e col sangue e la corona di Minas Arnor aperta in due. Si ferma, e la sua vita si ferma con lui.

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Note alla seconda parte:
La storia d’amore che vede protagonisti Amroth e Nimrodel si conclude tragicamente nell’anno 1981 della Terza Era. Nimrodel viveva nel Lórinand sin da prima dell’arrivo di Amdír. In questo racconto ho supposto che l’incontro con Amroth sia avvenuto poco prima dell’inizio della guerra tra Sauron e gli eserciti dell’Ultima Alleanza.

 
 
  
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