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Autore: lyssa    28/05/2015    2 recensioni
Non è solo un bacio, è molto di più: è il loro addio, il loro modo di ringraziarsi per tutto quello che hanno passato, quel “ti amo” che in dieci anni non ha mai lasciato le loro labbra, un po’ per orgoglio personale un po’ perché tra di loro non c’è mai stato “amore” nel senso convenzionale del termine. È l’ultimo punto dell’ultima pagina di un romanzo, è la fine di un gioco durato decenni, il termine di un rapporto che non ha uguali nel mondo ed è quella conclusione che Sherlock ha iniziato a temere il momento stesso in cui le loro strade – prima parallele e destinate a non incontrarsi mai – si sono incrociate. È la nota finale che Johann Sebastian Bach ha scritto in punto di morte.
[ sheriarty | più o meno dieci anni dopo the reichenbach fall | molto angst, perchè ogni cosa deve finire ]
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Note: I personaggi potrebbero sembrare appena diversi dal Jim e Sherlock della seconda stagione in quanto questa fic è ambientata una decina di anni dopo The Reichenbach Fall, anni in cui i due hanno una relazione. Non voglio mettere l’avviso OOC perché penso i personaggi siano IC, ma è ovvio che essendo già “fidanzati” si rapportino in maniera diversa rispetto al canon.

Infine voglio dedicare questa fanfiction a una personcina tanto carina che ruola sheriarty con me e che in generale mi supporta un sacco per quanto riguarda la scrittura.

Non mi dilungo oltre e vi auguro buona lettura! Spero vi piaccia!

 

 

 

 

 

 

 

(Un)Finished melody

 

 

“I think I might've inhaled you
I can feel you behind my eyes
You've gotten into my bloodstream
I can feel you flowing in me”

(Bloodstream – Stateless)

 

Arrivare ai quarantacinque anni è un traguardo che non si aspettava di raggiungere, non dopo una giovinezza passata a spararsi in vena qualunque tipo di sostanza in grado di placare l’incessante rumore del suo cervello.

 

Ci sono piccole rughe all’angolo degli occhi di Sherlock Holmes, adesso. Il viso una volta giovanile inizia ad accogliere increspature della pelle che giorno dopo giorno modificano lente il volto che è abituato a vedere allo specchio. I primi capelli bianchi sono comparsi, candidi fili di nuvola che risaltano sulla matassa di riccioli scuri con fare quasi accusatorio e arrogante, come se volessero rendere ulteriormente noto ed evidente lo scorrere del tempo. Contrariamente a ciò che ha fatto il suo aspetto fisico, la sua vita è rimasta pressoché invariata. Vive ancora al 221b, la signora Hudson continua a ripetergli che non è la sua governante e, nonostante il matrimonio con Mary, John non è cambiato affatto e non l’ha mai messo al secondo posto, neanche una volta.  Lestrade e Molly si sono fidanzati – prevedibile, noioso, un cliché da commedia romantica – e Mycroft con l’avanzare degli anni è diventato ancora più insostenibile ed irritante, nonostante Sherlock non lo credesse possibile. La sua vita è un susseguirsi di casi da risolvere e momenti quotidiani in compagnia delle persone a cui vuole bene – fa ancora strano ammetterlo persino a se stesso – in una routine che nonostante il suo essere prevedibile lascia un sapore dolce sulle labbra e un caldo calore nel petto che Sherlock riesce quasi ad associare alla felicità.

Quasi.

 

Ci sono momenti in cui pensa che una vita come quella non faccia per lui. Guarda tutte le persone a lui care riunite nella stessa stanza, li sente parlare di cose ordinarie e banali, raccontare battute che non fanno ridere e pensa di non appartenere a quel mondo. Osserva John e Lestrade che stanno chiacchierando ed il suo primo pensiero è che vorrebbe trovarsi ovunque meno che lì, ad ascoltare frivolezze talmente superficiali da fargli venire il mal di testa.

“Potrò essere dalla parte degli angeli, ma non pensare per un solo secondo che io sia uno di loro” aveva detto anni prima a Jim Moriarty e Sherlock non può fare a meno di pensare quanto vera la sua affermazione sia anche ora. Una vita del genere non fa per lui: non importa quanto possa sforzarsi, non riuscirà mai ad amalgamarsi a persone simili. Sono due sostanze di diversa natura che resteranno sempre separate, come olio e acqua.

 

Ha accettato la sua condizione decenni fa: era poco più di un bambino quando la verità lo ha colpito duramente in faccia, facendogli capire che il suo cervello funziona in modo profondamente diverso rispetto a quello delle persone che lo circondano. È stata dura allora. È stato difficile vivere un’infanzia fatta di solitudine e dolore, di insulti pronunciati con cattiveria alle spalle. Inizialmente ha cercato di fingere. Ha provato a nascondere la sua vera natura in modo da farsi qualche amico, ma non ha mai funzionato, perché non importa se un lupo si traveste da pecora, rimarrà sempre un lupo. C’è da dire che non è mai riuscito a fingere per troppo tempo: più cercava di nascondersi e più il bisogno di mettersi in mostra, anziché affievolirsi, aumentava esponenzialmente, rendendolo più insopportabile che mai.

 

Aveva poco più di vent’anni quando ha capito che provare a cambiare e nascondersi era inutile. A quel punto della sua vita, Sherlock ha cercato di zittire la propria mente e costringersi a rallentare il ritmo.

Ha scoperto gli effetti dell’eroina e si è lasciato cullare nel suo abbraccio. La droga era in grado di dargli tutto (o quasi) ciò di cui necessitava: un attimo prima l’ago era nel suo braccio e l’attimo dopo una sensazione di pura estasi gli inebriava le membra. Pace, leggerezza. All’epoca sembrava il paradiso.

 

Le cose sono cambiate dopo una crisi di astinenza più violenta delle altre. Vomito, dolori, sudori freddi, arti che in preda ai tremori smettono di rispondere alla sua volontà: Sherlock non ha bisogno di entrare nel suo palazzo mentale per rivivere quella che, senza alcun dubbio, è stata la notte peggiore della sua vita. Forse è da quel giorno che è diventato un maniaco del controllo. È difficile esserne sicuri.

 

Ci sono voluti anni e l’aiuto di Scotland Yard per eliminare l’eroina dalla sua vita: solo sostituendo la dose con crimini irrisolti e pericolosi assassini, Sherlock è riuscito a voltare pagina. Più di una volta le testate dei giornali lo hanno dipinto come un eroe senza macchia e senza paura che salva il prossimo per bontà d’animo, ma la verità è ben diversa. Dare giustizia a poveri innocenti è l’unica alternativa ad un ago in endovena.

Sherlock non lo ammetterà mai ad alta voce – è troppo orgoglioso per lasciarsi andare a tali sentimentalismi – ma deve a Lestrade più di quanto ammette. Non sarebbe esagerato dire che è ancora vivo solo perché, un giorno di Ottobre di tanti anni prima, il poliziotto lo ha consultato su uno dei casi più difficili che Scotland Yard si sia mai ritrovato tra le mani. Ripensandoci, Sherlock realizza di non aver mai chiesto a Moriarty se c’era lui dietro quell’omicidio. È probabile. Non riesce a pensare a nessun altro intelligente abbastanza da architettare un crimine di quelle dimensioni. Non sarebbe la prima volta che – consapevole o meno – Jim lo aiuta.

 

Jim si è impossessato di lui come una tossina. Catene e collari non riescono più a tenerlo legato, il criminale ora cammina liberamente per ogni singola stanza del suo palazzo mentale, il passo deciso e sicuro di chi possiede tutto e sulle labbra il sorriso di chi ha ogni risposta. Jim non si trova solo nel suo cervello: è nella sua anima, nelle sue vene, nel sangue che furioso pompa nel cuore e viene distribuito ad ogni capillare.

 

Quando il male di vivere lo opprime e persino respirare sembra superfluo, Jim lo contatta, gli propone un nuovo puzzle, una chiacchierata, una scopata o tutte e tre. Sa esattamente ciò che Sherlock necessita ancor prima che lui stesso ne venga a conoscenza.

 

Nei momenti in cui nulla sembra essere abbastanza ed il mondo ruota troppo lentamente, Sherlock ringrazia un Dio a cui non crede per l’esistenza di Jim Moriarty. 

*****

 

Il messaggio arriva quando sta prendendo un tè con il signore e la signora Watson.

Niente saluto, niente firma, niente piccole “x” con le quali Jim è solito concludere i messaggi a lui diretti, sono solo tre le parole che compaiono sullo schermo del cellulare. Nel leggerle il cuore di Sherlock manca un battito.

 

“You owe me.”

 

Senza neanche afferrare il cappotto o dare una spiegazione, Sherlock si alza e si chiude la porta del 221b alle spalle. La sua tazza di tè diventerà fredda.

 

*****

 

L’aria di Novembre è fredda e pungente contro il volto, sembra essere costituita da mille spilli che contemporaneamente gli bucano la pelle, ma Sherlock quasi non la sente.

Tutto quello che percepisce sono i battiti del proprio cuore – un tamburo impetuoso che pulsa a livello delle tempie – ed il suono del proprio respiro che, affannoso, accompagna le lunghe falcate. Le gambe sembrano muoversi da sole. È l’istinto che gli dice dove deve andare. La mente si arrovella intorno ad un unico pensiero.

 

“Jim, Jim, Jim.

 

*****

 

Ha il fiatone quando arriva di fronte alla porta dell’appartamento.

Si tratta di un edificio nascosto, una casa piccola e curata che nessuno marchierebbe come dimora della mente criminale più famosa dell’ultimo secolo. È un piccolo angolo di mondo in cui Sherlock Holmes e James Moriarty, arcinemici per natura, si rifugiano quando l’ambiente circostante diventa troppo da sopportare ed il bisogno di essere capiti vince su ogni cosa.

Dita che si intrecciano, corpi che si cercano alla ricerca di quell’inspiegabile “qualcosa” che non potranno trovare da nessun’altra parte, confessioni sussurrate a fior di pelle; tutto è avvenuto all’interno di quelle mura. Quella casa è l’unico luogo in cui Sherlock può essere davvero se stesso senza essere criticato, perché al suo interno non vi sono le occhiate di rimprovero da parte di John, ma esistono solo gli occhi di Jim, grandi, caldi, capaci di comprendere. Sherlock non ha alcun dubbio che in un momento di debolezza Jim si sia rifugiato lì dentro. È una mossa prevedibile forse, ma non lo biasima. Anche lui avrebbe fatto lo stesso.

 

Le mani gli tremano quando estrae la chiave che porta legata al collo – troppo pericoloso tenerla in giro per casa, troppo rischioso separarsene anche solo per qualche minuto, troppo piacevole sentire il metallo sulla pelle nuda quando la mancanza di Jim inizia a farsi sentire – e la infila nella serratura. Ci mette un po’ ad aprirla. Sherlock si dice che è a causa del freddo, ma sa di star mentendo a se stesso.

 

L’appartamento ha uno stile moderno e quasi asettico, eppure agli occhi di Sherlock appare caldo e accogliente.

Ai muri sono appese fotografie di stelle e galassie lontane, carte stellari e diagrammi raffiguranti le orbite dei pianeti del sistema solare, tutti oggetti cari a Jim che Sherlock un tempo non avrebbe degnato di una seconda occhiata. Ultimamente invece gli è capitato di fissarli affascinato per minuti interi, ripercorrendo con le dita costellazioni sulla pelle nuda di Jim, sdraiato accanto a lui sul divano.

Nella stanza principale è presente anche un piccolo tavolo quadrato sul quale entrambi si dedicano ai loro hobby. Sono capaci di passare ore nel silenzio più completo, Jim chino su un ordigno esplosivo che farà saltare in aria un paio di palazzi e Sherlock sul suo microscopio, intento ad analizzare chissà quale campione. Nonostante la mancanza di parole o di contatto fisico, Sherlock ha sempre trovato la compagnia dell’altro piacevole. C’è qualcosa di stranamente confortante nel spendere tempo con qualcuno in grado di comprendere i tuoi bisogni.

Ci sono altre stanze, altri mobili in grado di raccontare storie che non possono essere espresse con le parole – il linguaggio non si è ancora evoluto per descrivere a pieno un rapporto come il loro e probabilmente mai lo farà – ma Sherlock non ci fa caso, non ora. Il suo sguardo cerca Jim in un modo che potrebbe essere definito disperato.

Lo trova seduto per terra, la schiena appoggiata al grande divano di pelle. I suoi capelli sono arruffati, indossa un semplice paio di pantaloni della tuta e una t-shirt bianca e i suoi occhi sono quelli di una persona che ha appena passato gli ultimi minuti a piangere. Sherlock deglutisce a vuoto. Il suo sguardo scivola istintivamente sulla mano sinistra di Jim. Non impugna nessuna pistola. Nonostante tutto, non può fare a meno di tirare un sospiro di sollievo.

 

« Non ha più senso. » sussurra Jim e la sua voce è così piatta, così priva di inflessioni che Sherlock non riesce a non preoccuparsi. È paradossale provare un sentimento del genere per la persona che ha giurato di ucciderti, ma dopo tutti quegli anni Sherlock ha imparato a comprendere ed accettare la grande varietà di sentimenti che James Moriarty è in grado di fargli provare.

 

« Cosa? » domanda, abbassandosi per sedersi accanto a lui.

 

« Tutto. » Jim si volta e lo guarda negli occhi per quelli che sembrano anni. Di fronte a quelle grandi orbite scure – ora così vuote e tristi, prive di quel luccichio a metà tra la genialità e la follia di cui si è innamorato – Sherlock si sente sull’orlo di un precipizio. Per un istante solamente, teme di potervici cadere dentro. I secondi continuano a passare e Jim non batte ciglio, è solo quando ormai il minuto è superato che ricomincia a parlare.

« Sappiamo entrambi come andrà a finire se non facciamo qualcosa per cambiarlo. » Una piccola pausa. Sherlock non riesce a capire se l’angolo delle labbra di Jim si sia sollevato verso l’alto o se sia solo frutto della sua immaginazione. « Ti metterò in pericolo, tu fingerai la tua morte, io me ne andrò per qualche annetto e poi ritornerò a Londra di nascosto. Una volta superati i primi mesi inizieremo a incontrarci nuovamente ed i casi che ti lascerò saranno intervallati da notti passati insieme. Giorni interi, quando le circostanze sono favorevoli. »

 

« Non capisco quale sia il problema. »

 

Un sospiro. Jim abbassa lo sguardo per un istante, come se il fatto che Sherlock non riesca a capirlo gli faccia fisicamente male.

 

« Non ce la faccio più, Sherlock. » Jim ora sorride apertamente. Il sorriso che gli increspa le labbra non raggiunge i suoi occhi. « Volevo uccidermi cinque anni fa. »

 

Il silenzio che cade è più pesante del precedente. È un silenzio carico di sofferenza e di ricordi che fa più male di un calcio allo stomaco, è un silenzio che rende impossibile respirare e riempie la mente di immagini che ha cercato di sopprimere nello spazio più profondo della sua memoria.

Una L9A1 Browning – ironica la scelta dell’arma, se solo l’intera situazione non fosse stata tanto tragica, Sherlock avrebbe trovato la cosa quasi divertente – stretta nella mano sinistra. La canna della pistola premuta contro la tempia con una forza tale da lasciare il segno. Ci sono voluti giorni prima che il livido scomparisse del tutto. In quei giorni Sherlock ricorda di aver evitato ogni contatto con Jim.

 

« Perché stiamo continuando tutto questo? » chiede e la sua voce ora è morbida, bassa, delicata, un sussurro che Sherlock definirebbe perso e spaventato, se solo non provenisse da James Moriarty.

 

La risposta è talmente semplice da lasciare subito le sue labbra.

 

« Perché ne ho bisogno. »

 

È la pura e semplice verità. Non importa quanto possa tenere a Jim, non importa quanto abbia imparato a conoscerlo, comprenderlo e forse anche amarlo: i suoi gesti e le sue parole sono sempre dettate da un impulso egoistico che entrambi fingono di non vedere. Sa che potrebbe aiutare Jim in qualche modo. Sa che, forse, interrompere la loro relazione è la scelta più giusta per entrambi, perché nonostante siano stati felici – e lo sono stati, davvero – non potrà mai durare per sempre. Sherlock sa tutte queste cose eppure pretende di non saperle, perché valuta la propria felicità un gradino sopra a quella di Jim, perché il bisogno di avere l’altro accanto è talmente forte da offuscare qualunque cosa, perché se solo fosse possibile lo stringerebbe fino a rendere indefiniti i confini tra i loro corpi.

 

Non riesce più a sostenere lo sguardo altrui. Le iridi azzurre sono fisse sul pavimento, ora.

 

« Tutto ruota sempre intorno a te, vero? Il grande Sherlock Holmes, che ha sempre bisogno di essere al centro dell’atte– »

 

« Mi stai lasciando?» Ha gli occhi velati di lacrime quando lo interrompe. Ancora non si azzarda a sollevare lo sguardo. Sherlock si morde il labbro inferiore con una forza tale da sentire il sapore metallico del sangue. Il dolore non riesce a distrarlo.

 

La debole risata che si libera dalle labbra di Jim è il suono più triste che Sherlock abbia mai sentito in tutta la sua vita. « Dio, no. » L’incrinatura nella sua voce è una crepa sulla più bella scultura di cristallo del mondo, è una corda spezzata nel pianoforte in grado di emettere la più dolce delle melodie. Jim ride ancora. « Nessuno al mondo potrebbe mai rendermi più felice di quanto tu abbia fatto. » Per la prima volta da quando Sherlock ha varcato la soglia dell’appartamento Jim si muove. Si avvicina ulteriormente, le loro spalle si sfiorano appena – il contatto è sufficiente a causare un brivido in Sherlock – e gli appoggia le mani sul volto, costringendolo a guardarlo.

« Ti sto chiedendo di uccidermi. »

 

Se il silenzio precedente era un calcio allo stomaco, questo è una coltellata al petto. Sherlock può fisicamente sentire una lama fantasma lacerare vestiti e tessuti per poi penetrare in profondità. Non vi sono fiotti di sangue che fluiscono dalla ferita invisibile e non una singola goccia scarlatta macchia la camicia di Sherlock, eppure il dolore è reale, talmente intenso da cancellare ogni cosa.

 

« Non posso farlo. »

 

La sola idea è sufficiente a fargli venire la nausea. Ricorda quando una notte si è svegliato con il respiro  pesante ed il volto bagnato di lacrime, ricorda come la prima cosa che abbia fatto sia stata controllare le proprie mani, ricorda il sospiro di sollievo che ha tirato nel notare che il sangue di Jim non le macchiava.

Non può rendere il suo più grande incubo realtà.

 

« Me lo devi, Sherlock. » Jim è stranamente calmo. La sua voce è ferma e decisa, ma non dura.

 

« No. »

 

« Sì. » Le labbra si sollevano in un piccolo sorriso mentre si avvicina ulteriormente, il volto di Sherlock ancora ben stretto tra le mani. Il sorriso è più delicato, più caldo, più genuino e umano, completamente agli antipodi rispetto alla freddezza precedente. Fa venire a Sherlock voglia di piangere e ridere allo stesso tempo. « Ho sempre desiderato morire per mano tua. » Sussurra e le sue parole suonano così vere e così tristi che per un istante solamente Sherlock prende in considerazione l’idea di dargli quello che vuole. Il pensiero dura meno di un battito di ciglia.

 

« Rimandiamo ancora per qualche anno. » La voce di Sherlock lascia le labbra più lamentosa di quanto si sarebbe aspettato.

Nel momento stesso in cui pronuncia quelle parole, si rende conto dell’assurdità ed impossibilità delle stesse: se Jim è arrivato a tanto vuol dire che è davvero al limite, che la depressione – perché tale è – che lo perseguita da decenni interi è arrivata al suo picco massimo e la situazione non può migliorare. Sa che il suo non è altro che un appello disperato e vagamente patetico.

 

« Mi odi così tanto da voler farmi soffrire ancora? »

 

Sherlock digrigna i denti. La linea della mascella si fa dura. « Non cercare di manipolarmi. » ringhia quasi, fissando Jim dritto negli occhi.  « Non adesso. »

 

« Scusa. »

 

Nelle grandi e profonde iridi scure Sherlock ora non vede più il proprio riflesso, bensì il turbinio di emozioni provate da Jim. Tristezza, disperazione, il bisogno più totale ed assoluto. Per un momento riesce quasi a sentirli sulla pelle: attraversano tutti gli strati dell’epidermide per poi penetrare nell’anima, offuscandola. Riesce a comprendere nella sua interezza ciò che l’altro sta passando. È come se lui e Jim non siano più due persone separate, ma bensì un’unica entità che condivide lo stesso cervello e lo stesso cuore, come se ciò che si sono detti anni prima – quel “io sono te” che ancora risuona nella mente di Sherlock – sia diventato realtà. Sente tutto il dolore di Jim, il peso che continua a portare sulle spalle.

 

Ha fatto la sua scelta. Sa che se ne pentirà.

 

Jim gli prende le mani nelle sue, spostandole in modo che queste vengano a trovarsi intorno al suo collo. Sotto i polpastrelli Sherlock riesce a sentire il battito cardiaco dell’altro, un quieto e costante pulsare che come le lancette di un orologio sembra scandire il poco tempo che gli è rimasto insieme.

 

« Tutto quello che voglio tu faccia è stringere con abbastanza forza da uccidermi. Non è la prima volta che togli la vita a qual– »

 

« Non è la stessa cosa. » Una lacrima, la prima di tante, gli riga la guancia, facendosi strada sulla pelle nivea. Jim si sposta un poco e si avvicina per catturarla con la bocca. Il contatto con le morbide labbra altrui lo fa tremare.

 

« No, non lo è. »

 

« Posso almeno farlo in un altro modo? »

 

Sarebbe più semplice sparargli in mezzo agli occhi o pugnalarlo al cuore. Sarebbe più facile ucciderlo in modo veloce e immediato. Sherlock potrebbe bollarlo come un errore dovuto all’intensità della situazione, un rapido cambio di decisione compiuto quando non era realmente in sé; forse, eliminando la significatività del gesto, riuscirebbe a rendere l’uccisione dell’unica persona al mondo in grado di capirlo un peso più facile da sostenere. Forse.

 

« No. » Jim stringe le sue mani con forza. « Me lo devi. » Aggiunge e Sherlock trattiene a stento un singhiozzo, perché Jim ha perfettamente ragione, perché dopo tutto quello che hanno condiviso si merita una fine degna di questo nome, perché se Jim vuole morire allora troverà comunque un altro modo per farlo, quindi tanto vale che sia lui a dargli ciò che realmente desidera, se questo può renderlo felice. « Voglio che sia personale. Niente pistole, coltelli o pasticche, voglio sentire le tue mani sulla mia pelle fino all’ultimo secondo. Per favore. »

 

È impossibile trattenere le lacrime che ora scorrono silenziose sul suo viso.

 

Senza rassicurarlo o aggiungere altro, Jim appoggia le labbra sulle sue. È un contatto leggero e delicato, un morbido sfiorarsi che Sherlock decide di trasformare in qualcosa di più intenso. Schiude le labbra e lo bacia in modo più deciso: quello che prima era un gesto casto è ora divenuto passionale e disperato. Le lingue si cercano con foga, i denti si stringono intorno a qualunque cosa gli capiti a tiro e i brevi istanti in cui le loro bocche si separano sono riempiti da singhiozzi e mugolii in ugual misura.

Non è solo un bacio, è molto di più: è il loro addio, il loro modo di ringraziarsi per tutto quello che hanno passato, quel “ti amo” che in dieci anni non ha mai lasciato le loro labbra, un po’ per orgoglio personale un po’ perché tra di loro non c’è mai stato “amore” nel senso convenzionale del termine. È l’ultimo punto dell’ultima pagina di un romanzo, è la fine di un gioco durato decenni, il termine di un rapporto che non ha uguali nel mondo ed è quella conclusione che Sherlock ha iniziato a temere il momento stesso in cui le loro strade – prima parallele e destinate a non incontrarsi mai – si sono incrociate.

È la nota finale che Johann Sebastian Bach ha scritto in punto di morte. 

 

Le mani di Sherlock, strette intorno al collo niveo, esercitano una pressione sempre maggiore.

Il bacio viene interrotto e, quando si separano, Jim sta sorridendo. Il sorriso che gli increspa le labbra è piccolo e sincero, è un barlume di luce in tutta l’oscurità che lo circonda, è uno spiraglio di gioia e contentezza che crea un contrasto ossimorico con il modo in cui sta annaspando alla ricerca di ossigeno. Jim sta morendo – le dita di Sherlock iniziano a tremare al solo pensiero – eppure sembra in pace come non lo era da mesi.

 

Le sue labbra si muovono per l’ultima volta.

 

« Ci vediamo all’inferno, Sherlock. »

 

*****

 

Se non fosse per il corpo gelido e per i segni violacei che gli marchiano la pelle, Sherlock penserebbe che Jim stia dormendo. Sono poche le volte in cui l’ha visto così tranquillo, libero dai demoni che lo facevano svegliare nel cuore della notte, dalle catene e dai pesi invisibili che lo soffocavano, dall’oscurità che, soprattutto negli ultimi tempi, prendeva possesso delle sue iridi scure, rendendolo insolitamente distante, isolato persino dall’unica persona sempre in grado di comprenderlo.

 

Sherlock non riesce a staccargli gli occhi di dosso. Lo osserva con attenzione, lo sguardo che scivola lentamente sul volto dell’uomo che non si aspettava di amare.

Guarda le palpebre calate – è stato lui a socchiuderle con mani tremanti non appena il suo corpo si è irrigidito – e soffermandosi sulle lunghe ciglia scure non riesce a non pensare a tutte le volte che Jim lo ha guardato dal basso verso l’alto prima di inginocchiarsi tra le sue gambe, l’eccitazione ed il desiderio chiaramente visibili nelle pupille dilatate.

Scende lentamente verso le guance e questa volta ricorda il primo e ultimo giorno in cui le ha viste imporporarsi di un puerile imbarazzo che non pensava Jim fosse in grado di provare. È stato quando ha confessato la natura dei suoi sentimenti, pensa distrattamente, l’angolo delle labbra che si solleva senza che ne sia realmente consapevole. Ricorda di essere andato in giro con un ghigno soddisfatto sul volto per almeno una settimana, perché far arrossire James Moriarty, la mente criminale più pericolosa al mondo, non è certo cosa da tutti.

Gli osserva le labbra adesso e l’intensità dei pensieri è tale da fare fisicamente male. Ricorda tutte le cattiverie e le minacce sibilate quando le cose tra di loro incominciavano a prendere la piega sbagliata, i denti che si stringevano con forza intorno alla pelle con l’intento di portare piacere e dolore al tempo stesso, ricorda le confessioni sussurrate a fior di labbra, i baci piccoli e delicati che parlavano in modo che loro non dovessero farlo. Ricorda le risate genuine ed i sorrisi veri, tanto diversi dal ghigno di scherno che spesso increpava le sue labbra e talmente luminosi da diventare piccoli soli nel loro microcosmo, talmente rari e preziosi da far venire voglia a Sherlock di rinchiuderli per sempre in un posto invisibile agli occhi del mondo.

Lo sguardo scende ancora e adesso gli occhi secchi e gonfi di Sherlock sono costretti ad affrontare i lividi scuri che marcano il collo altrimenti niveo. È una visione che gli mozza il fiato e accartoccia il suo cuore come una pallina di carta fatta con il Times del giorno prima. I segni hanno la forma delle sue dita e portano la sua firma, sono l’inconfutabile prova che la morte di James Moriarty è solamente colpa sua e si imprimono a fuoco nel suo cervello. L’immagine lo perseguiterà per tutta la sua vita.

Sherlock non riesce a trattenere un singhiozzo. Non sa se, avendo la possibilità di tornare indietro, compierebbe la stessa scelta. Non sa se lascerebbe Jim soffrire pur di averlo accanto ancora per un po’.

 

Senza spostare lo sguardo da Jim – è fisicamente impossibile non guardarlo, gli occhi chiari sono attirati dal cadavere come un pianeta che non può fare a meno di ruotare intorno alla sua stella – afferra il cellulare di Jim appoggiato sul piccolo tavolino da fumo e digita a memoria il numero.

Mycroft risponde dopo un solo squillo.

 

« Ho bisogno del tuo aiuto. » Sussurra, la voce che si incrina verso le ultime sillabe.

 

Aveva sette anni l’ultima volta che si è mostrato tanto vulnerabile al fratello maggiore.

 

*****

 

Ci sono momenti in cui Sherlock quasi si dimentica che Jim sia morto. Sono giorni in cui è talmente preso da un caso o dalla compagnia di John da illudersi che presto il suo telefono squillerà, perché Jim è semplicemente fuori città per lavoro ed è solo questione di tempo prima che possa di nuovo incrociare il suo sguardo e sentire la sua pelle morbida sotto le dita. Sono attimi che non durano mai abbastanza: basta davvero poco – una parola di troppo da parte di John, un odore che gli ricorda Jim – perché la realtà lo colpisca duramente in faccia e bruci le sue speranze.

 

Ci sono altri giorni in cui è difficile persino respirare. Le lancette dell’orologio sembrano non muoversi mai: tutto gli appare fermo e statico; non vi è nulla di abbastanza interessante da catturare il suo interesse. In quei momenti è impossibile non pensare a Jim e al vuoto che ha lasciato nella sua vita, è impossibile non voler almeno tentare di riempire quello spazio con l’eroina. Sono numerose le volte in cui, avvolgendosi nel suo cappotto come se volesse sparirci dentro e soffocare così la vergogna che un simile desiderio gli provoca, ha contattato uno spacciatore, alla ricerca della dose che per qualche ora avrebbe potuto rendere tutto più sopportabile.

Non è mai riuscito a comprare nulla. Non è difficile capire di chi sia la colpa.

Il pensiero di James Moriarty che minaccia ogni spacciatore della città non riesce a lasciare la sua mente. Lo fa sentire amato e arrabbiato al tempo stesso.

 

Ci sono le notti e quelle sono le ore peggiori. Se le passa insonne non riesce a smettere di pensare a tutto ciò che ha perso, se dorme quel poco che basta per non impazzire è ancora peggio, perché nei sogni Sherlock non può controllare se stesso e ciò che lo circonda, non importa quanto ci provi. È costretto a rivivere ogni volta la stessa scena ed ogni volta il cadavere di Jim è più pesante tra le sue braccia.

Quando si sveglia sudato in un letto che improvvisamente è troppo grande, ringrazia e maledice di non avere una pistola a portata di mano. È talmente disperato che potrebbe spararsi in mezzo agli occhi solo per sperare di poter vedere Jim di nuovo.

 

Ci sono i giorni in cui visita il cimitero e quelli sono i giorni più strani di tutti. Sherlock non è sicuro di apprezzarli davvero, ma non riesce ad eliminarli ed ogni settimana si ritrova seduto sul prato a parlare da solo. È stupido ed insensato, ma in qualche modo lo fa sentire meglio. Almeno per un po’.

 

*****

 

Non ci sono fiori sulla tomba di James Moriarty.

La lapide è spoglia e nuda, una fredda pietra nera nella quale Sherlock riesce ad osservare il proprio riflesso. È strano vedersi in quel modo, con le difese completamente abbassate e gli occhi lucidi di lacrime che non riesce mai a trattenere del tutto, è strano vedersi con i capelli fuori posto e le labbra quasi tremanti, è strano riuscire a vedere e toccare con mano il vuoto che Jim ha lasciato.

Sherlock sospira, abbassa lo sguardo per sfuggire agli occhi del se stesso che lo guarda dalla superficie di pietra e, cercando di non pensare a quanto vorrebbe scambiare posto con il suo riflesso, si siede per terra. Il suo cappotto si macchierà, pensa distrattamente.

  

« Ieri sono andato in piscina. » Fa una piccola pausa, si guarda velocemente intorno e, non vedendo nessuno, fa scivolare una sigaretta fuori dalla tasca. La accende, inspira profondamente ed è solo quando il fumo gli ha riempito completamente i polmoni che solleva lo sguardo, incontrando il nome inciso a lettere dorate. « Non so perché l’abbia fatto: un minuto prima stavo camminando senza meta e quello dopo mi sono ritrovato all’interno di un edificio abbandonato che puzza di cloro. » Uno sbuffo bianco lascia le sue labbra. Inspira nuovamente.

« Mi sono seduto sul bordo della vasca, ma questa volta non c’era nessuno a spingermi in acqua. Nessuno ha riso, nessuno mi ha minacciato di cavarmi gli occhi con un cucchiaino perché “non ti azzardare Sherlock, questo completo costa più di tutto il tuo guardaroba messo insieme”. » Erano tempi semplici, quelli. Giorni in cui la risata di Jim era più pura e cristallina dell’acqua stessa, un campanello d’argento dal sapore di quell’innocenza che Moriarty non ha mai posseduto. Il nome inciso sulla lapide diventa improvvisamente sfocato e bagnato. Sherlock si strofina gli occhi.

« Ho fatto un giro per gli spogliatoi. È stato strano visitarli con tutti i vestiti addosso. » Nel pronunciare le ultime parole, le labbra si sollevano istantaneamente verso l’alto, il sorriso che nasce nel ricordare in modo in cui Jim lo aveva spinto con foga contro gli armadietti, cancellando ogni cosa.

Fa un paio di tiri in silenzio. Il sorriso diventa forzato e quando abbandona del tutto il suo volto, i suoi occhi sono di nuovo umidi. Sherlock se li strofina nuovamente con il dorso della mano.

 

« Non c’è minuto in cui non desideri tornare indietro e cambiare idea. » Sposta lo sguardo sulla punta luminosa della sigaretta, osservando distrattamente il fumo che aleggia nell’aria di una giornata senza vento. « Ti lascerei vivere. Ti farei soffrire con la speranza di farti il male che sto sentendo adesso. » Sussurra e nel pronunciare le ultime parole la voce si spezza e le lacrime iniziano a bagnargli le guance, perché in tutta la sua vita non ha mai desiderato far del male a qualcuno quanto ne vuole fare a Jim in quel momento, perché si rende conto che preferirebbe vedere gli occhi di Jim spenti e distanti piuttosto che non vederli affatto, perché è meglio essere una persona meschina che sentirsi incompleti.

« So che potrei uccidermi e far sparire tutto, ma… » Scuote appena la testa e riporta lo sguardo sulla tomba, il fantasma di una risata amara sulle labbra. « … non penso di volerlo. »

« Non so se è perché ho comunque qualcosa per cui vivere o perché spero che tu riesca a tornare da me, nonostante abbia sentito il tuo cuore spegnersi tra le mie braccia. »

 

Le visite alla tomba di Jim hanno la durata di una sigaretta. Dopo di essa, Sherlock se ne va senza guardarsi indietro neanche una volta, perché non gli piace piangersi addosso e cadere nell’autocommiserazione in cui sprofonda dopo pochi minuti che si abbandona ai ricordi, perché non vuole mostrarsi tanto patetico di fronte a Jim Moriarty, perché anche in una situazione disperata il suo subconscio vuole mantenere un’illusione di dignità e compostezza.

La sigaretta è quasi terminata, ma le cose da dire sono ancora tante. Vorrebbe dirgli che si sente solo, che sente la sua mancanza più di quanto gli mancasse l’eroina durante la crisi di astinenza. Vorrebbe dirgli che non ce la fa più a continuare in quel modo e che desidererebbe avere qualcuno a cui chiedere di ucciderlo, perché forse in quel modo riuscirebbe ad abbracciare la morte. Vorrebbe dirgli che alla fine è riuscito a bruciargli il cuore, anche se forse non nel modo che aveva programmato. Vorrebbe dirgli che lo ha amato e che lo ama ancora adesso anche se vorrebbe farlo soffrire ancora e che gli dispiace non averglielo mai sussurrato mentre era ancora in vita.

Vorrebbe dirgli tante cose, ma mentre osserva le tremolanti lettere dorate incise sulla pietra nera a formare il nome ‘SHERLOCK HOLMES’ è solo una la cosa che riesce a dire.

 

« Ti odio. »

   
 
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