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Autore: _yulen_    29/05/2015    2 recensioni
Yekaterina Danilenko è una ragazza di origine russe, ma che prima dell'Apocalisse abitava a Fargo, un piccolo paesino in Georgia. Orfana di madre, morta dandola alla luce, è cresciuta con il padre che nonostante la mancanza della moglie, è riuscito ad educarla.
All'età di cinque anni fa la conoscenza dei fratelli Dixon e da lì nasce una profonda amicizia che l'accompagnerà per tutta l'adolescenza, ed è proprio in quel periodo che si innamora di Daryl, il minore dei due fratelli.
Quando i morti iniziano a risorgere, Kate sa che potrebbe morire da un momento all'altro, ma non vuole andarsene senza prima essere riuscita a dichiarare il suo amore.
Tra fughe da orde di vaganti e lotte per sopravvivere, Kate dovrà riuscire a trovare il coraggio di confessare al suo amico di vecchia data i suoi sentimenti e un'altro piccolo segreto che potrebbe distruggere la loro amicizia.
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daryl Dixon, Merle Dixon, Nuovo personaggio
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo25
 
 
 
 
 
 
 

Ma quanti sono?
Era questa l’unica domanda che continuava a ronzarmi in testa man mano che i morti si avvicinavano e ci sorpassavano, completamente ignari della nostra presenza.
Mi guardai attorno alla ricerca dei miei compagni e mi sentii più sollevata quando vidi Shane e Glenn nascosti sotto un camion, Lori e Carol sotto una macchina e Sophia e Carl sotto un’altra auto a pochi metri da noi. Non c’era traccia di Kim, Andrea, T-Dog o Daryl e pregai che anche loro avessero trovato un nascondiglio.
Quella mattina sentivo che c’era qualcosa che non mi piaceva, che fosse una mera sensazione o intuito femminile, qualcosa nell’aria puzzava di guai; quando il camper si fermò pensai subito che fosse quello il problema, ma non avevo ancora fatto i conti con quell’orda che avanzava lenta tra noi.
Dopo minuti di angosciante attesa passati con il cuore in gola e il sudore che colava lungo fronte e collo, un urlo acuto e disperato mi fece saltare dallo spavento, picchiando la testa contro il telaio.
Mi voltai e vidi la piccola Sophia fuggire verso il bosco inseguita da due nonmorti, guardai Rick che annuì e uscimmo dal nostro nascondiglio improvvisato per inseguirla.
Con la caviglia dolorante cercai di correre nel limite delle mie possibilità, e dopo ciò che a me parve un eternità dovetti fermarmi. Le mie gambe iniziavano a diventare dure, i polmoni sembravano essere rimasti a corto d’ossigeno e l’articolazione pulsava violentemente.
Mi posai contro un tronco piegandomi per riprendere fiato ma soprattutto per avere un appiglio al quale aggrapparmi quando sentii le gambe diventare instabili. Con una resistenza fisica pari allo zero avrei dovuto aspettarmi di fare poca strada, ma lì per lì non ho pensato a quanto avrei potuto correre prima di dovermi fermare. C’era una bambina inseguita da due zombie e dovevo agire.
Rick, davanti a me di qualche metro, mi richiamò quando vide che non ero più affianco a lui e tornò indietro. Rimase ad osservare il mio naso per alcuni secondi e quando sentii un cattivo sapore metallico finire sulle mie labbra capii cosa avesse attirato la sua attenzione.
«Non è nulla, mi accade quando fa caldo e mi sforzo» lo rassicurai pulendomi con il dorso della mano. «Tu va avanti, io rimango nei paraggi nel caso dovesse tornare indietro».
Annuì e si allontanò da me, ma non prima di essere certo che stessi bene.
L’odore di sangue fresco avrebbe richiamato i non morti, per questo controllai velocemente la zona a me circostante. Finire sul loro menù era qualcosa che non avevo pianificato quel giorno.
Maledizione!
Pensai quando non trovai la minima traccia del passaggio di Sophia. In un momento come quello, un esperto come Daryl era la mia unica possibilità di ritrovare la bambina, perciò seguii la strada fatta per arrivare fino lì per tornare sull’autostrada. Come voltai le spalle però un cespuglio alle mie spalle si mosse frusciando, molto velocemente estrassi la pistola pronta a sparare, ma quando vidi un viso pallido cosparso di lentiggini e un caschetto color rame fare capolino tra le foglie mi fermai.
«Sophia!» la chiamai.
Quando si accorse che ero io corse verso di me e mi abbracciò, lasciando che alcune lacrime scendessero libere. La strinsi un po’ per infonderle coraggio e poi la staccai appena per controllare che non avesse morsi o graffi. Sospirai sentendo la tensione allentarsi quando non trovai ferite, tuttavia quel momento si spezzò quando udii dei lamenti strozzati.
Sospettosa presi la bambina in braccio e inizia a correre, sperando di reggere tutto il viaggio fino all’autostrada e riportarla da Carol.
Dopo la perdita di Merle, quella di Amy, di Jacqui e tutti gli altri supersiti, mi promisi che avrei fatto di tutto pur di proteggere le persone rimaste, e la vita di quella piccola bambina dipendeva tutta da me.
«D’accordo, dobbiamo fermarci» dissi ansimando quando per poco non caddi a terra, sbilanciata da tutto quel peso.  «Ascoltami bene: sali sull’albero, tieni su le gambe e non farle penzolare, io li porto lontani».
Mi guardò spaurita e disorientata, scuotendo la testa come se avesse capito che cosa gli stavo chiedendo.
«Non riuscirò a correre con te in braccio. Sali e non scendere, se vedi qualcuno del nostro gruppo non urlare, fischia. Sai come si fa?».
Annuì e iniziò a tremare al pensiero che io potessi abbandonarla.
«Bene».
Aiutai Sophia a salire su un ramo, le lasciai il mio coltello e lo zaino dentro le quali avevo alcune provviste.
«Ora fai attenzione a ciò che ti dico. Se entro quindici minuti non vedi nessuno scendi ma sta attenta, segna in ordine numerico la corteccia degli alberi ogni volta che ti allontani di venti passi, se vedi uno di loro, risali. Per tornare indietro rifai la stessa strada» dissi dandole il mio orologio.
Mi assicurai che non facesse penzolare le gambe e aspettai che gli zombie uscissero allo scoperto prima di riprendere a correre più veloce che potevo. Cercai di farli dividere per poterli uccidere senza rischiare la pelle, per questo anche io mi arrampicai, presi il coltello di riserva che tenevo lo stivale, scesi saltando e conficcai la lama alla base della nuca del vagante spingendo verso l'alto per colpire il cervello. Estrassi l’arma per poter colpire anche l’altro, tuttavia non fui abbastanza veloce. Finii a terra con il suo corpo putrefatto sopra di me, la sua bocca spalancata si apriva e chiudeva a intermittenza e ogni volta che accadeva era sempre più vicina alla mia faccia, un rivolo di saliva e sangue colava dalle sue labbra per cadere sopra le mie braccia che stavano cercando di respingerlo.
Il mio coltello era finito a qualche metro di distanza ma non troppo lontano, se mi fossi sporta forse sarei riuscita a prenderlo, ma temevo che se avessi rimosso un braccio da sotto il suo collo lui avrebbe avuto la meglio. Cercai di scollarmelo di dosso perciò spostai le mani sulle sue spalle e spinsi con tutta la forza in mio possesso riuscendo a farlo allontanare abbastanza per prendere la pistola e sparare.
Il suo corpo immobile si afflosciò sopra di me e la sua puzza penetrò nelle mie narici costringendomi a voltare il capo dall'altra parte con una smorfia disgustata.
Mi rialzai spingendo il cadavere da un lato e camminai fino a tornare al punto in cui avevo lasciato Sophia per vedere che su quel dannato ramo non c’era più.
Imprecai passandomi una mano tra i capelli e pensai in fretta a come agire evitando di girare nel bosco senza una meta con il rischio di perdermi, svenire e diventare bersaglio facile per i morti. Per prima cosa decisi di controllare gli alberi per vedere se avesse seguito i miei consigli, ma non c'era nulla sui tronchi, nemmeno il segno più piccolo che lei fosse passata di lì.
Mi morsi il labbro quando capii che si era persa. Non potevo tornare da Carol e dirle che sua figlia era da qualche parte nel bosco.
«Kate?!».
Mi voltai di scatto quando una vocina acuta e tremante pronunciò il mio nome. Vidi Sophia corrermi incontro con una brutta ferita alla gamba che rallentò il suo andamento e quando si trovò a pochi centimetri dalle mie braccia si buttò in avanti, aggrappandosi alla mia maglia per non cadere.
I suoi vestiti e il suo viso era sporco di fango e solo sulle guance, dove le lacrime erano colate, si poteva vedere ancora la sua pelle rosea.
«Cosa ti è successo?» chiesi stringendola.
«S-s-sono caduta» piagnucolò. «Ho perso la mia bambola insieme al tuo orologio e al coltello, mi dispiace» si scusò.
Le asciugai le lacrime con il palmo della mano e le scostai una ciocca di capelli che le si era appiccicata sulla fronte.
«Non fa niente» la rassicurai.
«Quindi non sei arrabbiata?».
«No, l’importante è che tu stia bene. Non ti hanno morsa o graffiata?».
Scosse la testa e si strinse a me ancora una volta iniziando a piangere. Non sapendo bene cosa fare le massaggiai la schiena e misi l'altra mano alla base della nuca fino quando i suoi singhiozzi si placarono.
Guardai il cielo diventare rosso a causa del tramonto, anche gli alberi e le foglie stavano assumendo sfumature rossastre e la temperatura aveva iniziato a calare.
Presi il viso della bambina tra le mani e la guardai negli occhi.
«Dobbiamo trovare un rifugio per stasera, sta diventando buio e muoversi senza luce non è sicuro».
«Ma ho paura, voglio tornare dalla mamma» replicò lei con il labbro inferiore che riprese a tremare.
«Lo so e mi dispiace» dissi. «Ma se facciamo come ho detto io riusciremo a sopravvivere. Ci ritroveranno, c'è Daryl con loro e lui è bravo a seguire le tracce delle persone, per ora però devi fidarti di me».
Annuì, si asciugò le lacrime e prese la mia mano prima che io potessi fare il primo passo. Camminammo seguendo la crescita di muschio sugli alberi fino quando trovammo un fiume, i suoi argini ci condussero ad una strada scavata e secca la quale, a sua volta, ci portò ad una casa abbandonata. Stava facendo buio e freddo quindi non avevamo altra scelta se non passare lì la notte e metterci in cammino la giornata successiva.
«Io vado dentro a vedere se ci sono zombie, tu resta qui e non fare rumore» dissi.
Sophia annuì di nuovo tremando leggermente, troppo stremata e infreddolita per rispondere o per contestare.
Mi tolsi il maglione che avevo e glielo diedi insieme al mio coltello in modo che fosse riparata dal freddo e potesse difendersi.
«Se vedi qualcosa fischia come ti ho detto prima, ti sentirò». La abbracciai e le diedi un leggero bacio sulla fronte prima di entrare.
Accesi la torcia che tenni sotto la pistola per fare il giro di quell’abitazione in cerca di pericoli che fortunatamente non c’erano. Nelle camere trovai dei cuscini e delle coperte che portai in cucina e sistemai nella dispensa prima di fare entrare Sophia.
Passammo la notte in quella casa e mangiammo ciò che c’era dentro il mio zaino, la piccola si addormentò poco dopo e per quanto anche io avessi voluto dormire, rimasi di guardia per tutta la notte. Non volevo farmi cogliere impreparata in caso qualche altra mandria fosse passata, la nostra sopravvivenza dipendeva tutta da me.
Era passato un po’ di tempo da quando mi ero ritrovata completamente sola e avevo iniziato ad abituarmi ad avere sempre qualcuno di supporto. C’era la bambina, è vero, ma non potevo fare molto affidamento su di lei. Era già abbastanza difficile per me sopravvivere, per lei che aveva solo dodici anni era ancora più dura. Sostanzialmente non avevo nessuno a guardarmi le spalle e sentivo già il respiro della morte sul mio collo, la mia unica speranza era riposta nel gruppo e nelle loro abilità di ricerca pur sapendo che non potevo fare affidamento solo su quello. Per essere sicure di essere ritrovate dovevamo lasciare delle tracce come quelle negli alberi che avevamo passato per raggiungere quel rifugio momentaneo, ma sapevo che non era abbastanza.
Mi serviva un piano da cui iniziare per sopravvivere, ma in quel momento la mia testa non riusciva a elaborare niente. Potevamo rimanere in quella casa per massimo un altro giorno, ma se fossimo state circondate dagli erranti per noi si sarebbe messa male, se invece ci fossimo messe in viaggio avrei dovuto stare attenta non solo per la mia incolumità ma anche per quella di Sophia ed era una responsabilità che sapevo di non poter reggere.
Quando il sole si fece alto nel cielo, la sua luce colpì le palpebre chiuse e mi accorsi di essermi appisolata per qualche ora dopo l’alba. Stropicciai gli occhi e li aprii guardando la dispensa ancora chiusa: Sophia stava ancora dormendo.
Mi allontanai dalla finestra e presi dal mio zaino una bottiglietta d’acqua insieme a un barattolo di burro di arachidi che posai sul tavolo, poi feci una perlustrazione più profonda di quella effettuata la sera prima trovando solo del disinfettante per mani e degli asciugamani in un cassetto del bagno.
Sfortunatamente non trovai nulla per medicare il piede e sperai di riuscire a tornare al mio borsone con le medicine prima che la ferita peggiorasse.
Scesi nuovamente in cucina e vidi che la bambina era ora sveglia e stava consumando la sua colazione.
Rimisi gli stivali che avevo tolto la sera precedente e allacciai le stringhe. Le mie mani tremavano per il nervoso, la preoccupazione e tutte le altre emozioni, ma non potevo lasciare che la piccola vedesse quanto spaventata fossi. Per lei ero come una guida in quel momento e farmi vedere debole l’avrebbe demoralizzata.
«Kate?» mi chiamò Sophia. «Credi che ritroveremo la mamma e tutti gli altri?».
Mi inginocchiai per raggiungere la sua altezza e le strinsi le spalle.
«Ne sono sicurissima, siamo sopravvissute ad una mandria e abbiamo trascorso una notte sole rimanendo in vita. Troveremo il gruppo e tu potrai riabbracciare la tua mamma» risposi asciugandole le lacrime. «Non perdere mai la speranza».
Come fece il giorno prima mi prese la mano e ci addentrammo un’altra volta nel bosco, seguendo le incisioni lasciate sugli alberi.
Il trucco di segnare i tronchi era uno dei tanti escamotage che mi erano stati insegnati da Merle e Daryl insieme ad altri espedienti da seguire nel caso mi fossi persa. Stare attenta a ciò che mi circondava come ad esempio qualche masso di forma strana o qualche albero particolare, era stata la mia prima lezione alla quale poi, se ne aggiunsero altre. Imparai così a tenere sempre presente dove fosse il sole, a stare attenta a dove il muschio crescesse e soprattutto a come usare le stelle per orientarmi. A parte quello però, non sapevo fare nient’altro, non ero esperta come loro e non sapevo leggere le tracce.
 
«Se ti dovessi trovare da sola non puoi permetterti di piangere, devi stringere i denti e trovare la via tra alberi, fango e sassi».
 
È una frase che mi disse Daryl uno dei tanti giorni in cui ero nel bosco con lui. Avevo poco più che ventuno anni e mi stava insegnando come non perdermi, ma soprattutto come fare a ritrovare la via se eventualmente fosse successo.
Quello fu anche il giorno in cui ebbe il coraggio di lasciarmi in prossimità di una caverna e allontanarsi con la scusa che doveva fare pipì.
 
 
 
Era passata ormai la mezz’ora da quando se n’era andato dicendo che sarebbe tornato subito, ma di lui non si era vista nemmeno l'ombra.
La prima cosa che pensai di fare fu quella di nascondermi nella grotta per attendere il suo ritorno, ma non sapevo quanto altro tempo sarebbe trascorso e io volevo tornare a casa.
Mi strinsi nelle mie braccia e cercai di ricordarmi il percorso fatto per giungere fino lì.
Durante il viaggio di andata, Daryl, aveva così tanto insistito affinché imprimessi nella memoria tutti i suoni e tutta la vegetazione circostante che nella mia mente si era formata una sorta di cartina che usai per orientarmi e arrivare a un albero dal tronco ricurvo, già passato per arrivare fino alla caverna. Capendo che stavo proseguendo nella direzione giusta, continuai a camminare fino quando arrivai prima alla cascata – che passai con non poche difficoltà – e poi alla radura. Da lì non dovetti fare più molta fatica per trovare il sentiero giusto, ormai erano cinque anni che quel posto era diventato il nostro rifugio e nella mia testa si erano memorizzate scorciatoie e strade principali.
Quando tornai sulla strada, trovai Daryl seduto nel letto del suo furgone con il sorriso di chi si credeva furbo e la sua balestra in grembo.
Lo odiai così tanto in un primo momento che giurai non gli avrei più parlato per il resto dei miei giorni.
Ecco allora quale era il suo piano, lo stronzo!
Fumante di rabbia mi avvicinai a lui, iniziando a chiamarlo quando ero ancora al delimitare della foresta.
«Ti sei divertito?» gli chiesi. «Mi spieghi che bisogno c’era di lasciarmi lì?».
Posò la freccia al suo fianco e incrociò le braccia al petto guardandomi.
«Non ci sarò sempre io a salvarti e quando accadrà dovrai essere in grado di tirarti fuori dai guai con le tue sole forze. Se ti dovessi trovare da sola non puoi permetterti di piangere, devi stringere i denti e trovare la via tra alberi, fango e sassi» rispose mortalmente serio.
«Avresti potuto dirmi che tornavi al furgone e che avrei dovuto trovare la strada da sola, e se non ce l’avessi fatta?».
«Le disgrazie non aspettano che tu sia preparata per affrontarle, per questo non ti ho avvisata» disse. «E comunque non ti avrei lasciata là se non fossi stata pronta».
Schiusi le labbra per controbattere, ma la mia bocca rimase aperta a forma di “O” per lo stupore.
Quindi si trattava di un test, una prova per verificare se tutti i suoi insegnamenti erano serviti davvero o se aveva solo perso tempo. Voleva essere sicuro che se lui non ci fosse più stato, io avrei comunque saputo cavarmela in un modo o nell’altro.
«Tu mi spingi oltre i limiti, non sorprenderti se un giorno di questi avveleno le tue birre» dissi.
Sul suo volto si formò un sorriso che cercò di nascondere voltandosi velocemente e anche io mi trovai a ridere a mia volta.
Era vero che mi irritava, che mi esasperava e che a volte faceva ciò che faceva solo per urtarmi, ma era anche per quel motivo che gli volevo bene e nel bene o nel male non lo avrei cambiato per nulla al mondo.
 
 
 
Sophia mi tirò leggermente la mano per farmi ridestare dai miei ricordi, abbassai il capo e le sorrisi.
«Sono stanca, possiamo fermarci?» chiese. Sembrava davvero affaticata, la cena e la colazione non erano state delle migliori e la notte di sonno era stata agitata.
Guardai tra gli alberi per ogni possibile pericolo e in lontananza scorsi una chiesetta dentro la quale avrebbe potuto riposare.
«Ma solo per poco» acconsentii.
Quando entrammo, trovammo i cadaveri di tre vaganti; il sangue ancora colava dalle ferite, perciò dovevano essere stati uccisi di recente.
Chiusi il portone alle mie spalle, mi sedetti su una delle panche e guardai la croce. Nonostante non fossi credente, in quel momento pregai. Non per me e per la mia salvezza, ma per quella di Sophia.
Non era giusto che dovesse passare quelle pene, era una bambina e come tale avrebbe dovuto ridere e giocare con i bambini della sua età, essere stretta nelle braccia rassicuranti della propria madre e addormentarsi con la certezza di essere al sicuro.
Fu in quel momento di pace e speranza che sentii il rumore di uno sparo in lontananza.
Con uno scatto fulmineo mi alzai in piedi posando tutto il mio peso sulla caviglia sana e presi Sophia per un braccio, nascondendola dietro la cattedra. Mi avvicinai ad una delle finestre per spiare, ma al di là del vetro non vidi nulla di lontanamente dannoso. Non fidandomi delle apparenze, puntellai il portone con alcune panche che spostai a fatica. Non volevo rischiare che qualcosa di poco gradito entrasse o che a far partire quel colpo fossero stati altri umani non proprio amichevoli.
Attesi fino al primo pomeriggio prima di ripartire, volevo essere sicura che qualsiasi pericolo fosse lontano da noi, ma come vidi Sophia rannicchiata in un angolino in posizione fetale, sorrisi e decisi di lasciarla riposare per un po', cosa che si rivelò fruttuosa anche per me.
Le precedenti ore di cammino avevano sforzato la caviglia ed ora si era gonfiata così tanto che la pelle dello stivale la comprimeva con forza fino a far aumentare il dolore. Cercai di sfilare la calzatura per liberare il piede, ma il tessuto sfregava contro la pelle irritata e alla fine dovetti tagliare via il gambale.
Dopo che tolsi anche la fasciatura vidi come il danno si fosse fatto più serio. La zona contusa era gonfia, la pelle calda e c'era anche un ematoma nel collo del piede, area che sentivo pulsare.
Mi distesi su una delle panche e appoggiai l'articolazione sopra uno dei braccioli per tenerla sollevata.
Sperai di riuscire a camminare senza problemi il giorno successivo, se fossimo finite nei guai non sarei riuscita a correre o proteggere Sophia, e quella al momento era la mia unica missione.










 
*angolo autrice*
ecco qui come promesso il venticinquesimo capitolo.
Ultimamente mi sento ispirata e spero di riuscire a tenere il ritmo di due capitoli al mese, il ventiseiesimo è praticamente pronto,
c'è giusto qualcosa da ritoccare quà e là, ma almeno un capitolo sono sicura di pubblicarlo il mese prossimo.
Io chiudo qui, vi saluto e ringrazio tutti quelli che leggono e alla prossima,

yulen c:
   
 
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