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Autore: acid rain    31/05/2015    2 recensioni
Le persone vedevano solo due fratelli particolarmente legati, che si divertivano a prendersi gioco degli altri, a farli cadere nelle loro trappole, a renderli vittime dei loro giochetti, spesso sadici e malefici, marionette nelle loro mani. Eppure Phobos e Deimos erano legati da qualcosa di più profondo, un attaccamento morboso e feroce, che si scatenava in tutta la sua furia nei confronti di coloro che minacciavano la loro unità, coloro che tentavano di attaccarli.
[...]
Affetto, forse? Difficile dare un nome a quel sentimento, così estraneo a entrambi, che si ritenevano incapaci di provare qualsiasi emozione. Si trattava di dipendenza, semplice e pura dipendenza, dipendenza malata. Mai autodistruttiva, ma certamente forza distruttiva che investiva ciò che circondava i due fratelli, facendo quasi terra bruciata. Insieme erano più forti, si completavano a vicenda. Insieme erano temibili e bellissimi. Avrebbero ucciso l’uno per l’altro.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incest
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Let our names be feared and revered
and let us taste eternity unwary of the cost.
They say this is love but I know it’s self-immolation,
the ignition of electricity between us.
So let us adorn ourselves with smoke and flame
drip blood rubies and pile up devotees like toy soilders.
- Kingdom Come; S.T. Gibson.




In Grecia, la triste storia di Egeo, re di Atene, era conosciuta da tutti. Le madri la raccontavano ai figli, quasi fosse una piacevole favola della ninna nanna, e il pensiero di quei marinai, di quei viaggiatori che salpavano in mare, chi per lavoro, chi per sete di avventure, andava sempre al sovrano. Egeo era stato un grande re; tuttavia, come molti sovrani, non solo del suo tempo, ma di ogni periodo storico, desiderava un figlio maschio, un erede che potesse prendere il suo posto, quando sarebbe giunto il momento. Egli si recò, così, presso l’Oracolo della Pizia, nel santuario di Delfi, per chiedere consiglio, com’era consuetudine fare.

‘ Tieni chiuso il tuo otre di vino finché non avrai raggiunto il punto più alto della città di Atene, altrimenti un giorno ne morirai di dolore.’

Il sovrano non comprese il significato di quelle parole, contrariamente a Pitteo, re di Trezene, che intuì il significato dell’affermazione dell’Oracolo e, dopo aver fatto ubriacare Egeo, fece sì giacesse con la figlia. La donna rimase incinta, ma Egeo prese la decisione di fare ritorno nella sua città, con la promessa che, quando il figlio sarebbe cresciuto e sarebbe riuscito a recuperare le armi che il re aveva strategicamente nascosto, al giovane sarebbe stato concesso di conoscere la verità su chi fosse suo padre. E Teseo, così si chiamava il giovane nato dall’unione, crebbe sano e forte, divenendo altrettanto coraggioso. Egli riuscì a recuperare le armi di Egeo e, conosciuta la verità sulla sua origine, decise di recarsi nella città di Atene, dove il padre riconobbe le armi. Capì che finalmente il figlio aveva finalmente fatto ritorno da lui.

La felicità non durò a lungo; Minosse, re di Creta, infuriato per l’uccisione del figlio a opera di Egeo, dichiarò guerra ad Atene, guerra che, tuttavia, si risolse con un patto: ogni anno, gli ateniesi avrebbero dovuto mandare a Creta sette ragazze e sette ragazzi, da sacrificare al Minotauro.

Gli ateniesi sopportarono a lungo quel pesante tributo, fino a quando Teseo non riuscì a uccidere la mostruosa bestia con l’aiuto di Arianna, la figlia dello stesso Minosse. Egeo aveva chiesto a Teseo di issare delle vele bianche, qualora fosse riuscito a sconfiggere il Minotauro, cosa che Teseo non fece. Alla vista delle vele nere, il re, disperato al pensiero di aver perso il figlio, si gettò in mare. Così si realizzò la profezia dell’Oracolo e così, da quel momento, in onore del sovrano, quelle acque divennero note come Mar Egeo.


Le onde di quello stesso mare si infrangevano sulla battigia, su quel nastro di costa incastonato tra alte pareti rocciose, che riparavano la piccola spiaggia. Il sole aveva ormai raggiunto la linea dell’orizzonte, l’astro pronto a immergersi in quelle acque nelle quali si specchiava. Era proprio questa l’impressione, che il sole stesse per scomparire tra le onde del mare, anziché limitarsi a seguire il suo ciclo, facendo spazio alle tenebre. L’atmosfera era invasa da una soffusa luce dorata, la spiaggia risuonava delle risate gioviali di Deimos.

«Combatti come una ragazzina!»

Il Dio si avventò sul fratello, le braccia magre, ma forti, che si serravano intorno ai suoi fianchi; la spinta di Deimos bastò a fargli perdere l’equilibrio, e Phobos si ritrovò sulla sabbia, la schiena dolorante per l’atterraggio poco delicato. Un lampo di rabbia guizzò nel suo sguardo, rabbia mista a fastidio, poiché l’altro aveva approfittato della sua distrazione per avere la meglio. Deimos, tuttavia, aveva sempre la meglio, almeno sul piano fisico. Phobos spinse via il fratello, che non si aspettava una reazione del genere, invertendo le posizioni.

«Chi combatte come una ragazzina, ora?»

Un sorriso furbo si dipinse sul volto di Deimos, nell’udire le parole del fratello. Quel sorriso che non faceva presagire nulla di buono. Phobos era succube di quel sorriso, lo attirava, lo assoggettava, lo rendeva vittima. Lui, che vittima, non lo era mai stato. Quel sorriso era ciò che accumunava Phobos e Deimos, non era raro osservare le medesime espressioni sui loro volti giovani. Accadde tutto in un attimo, prima che Phobos potesse anche solo domandarsi cosa fosse successo. Si ritrovò nuovamente nella posizione precedente, il corpo che affondava appena nella sabbia. Questa volta, Deimos ebbe la premura di assicurarsi che il fratello non potesse muoversi, bloccato al suolo da tutto il suo peso, il braccio che premeva contro il petto dell’altro. Non voleva permettere al fratello di reagire, ancora una volta sfruttava la forza fisica a suo favore. E Phobos si sentiva mancare l’aria, il respiro appena smorzato dalla pressione che il fratello esercitava sulla sua gabbia toracica. Eppure egli poteva sentire il ritmo accelerato del suo cuore, che batteva contro il petto, per quella vicinanza che entrambi desideravano, con poca discrezione quando si trovavano lontani da occhi indiscreti. I granelli di sabbia che contaminavano i capelli di Phobos parevano brillare sotto la luce del sole morente, e gli occhi di ghiaccio di Deimos percorrevano i tratti del volto del fratello, un sorriso beffardo stampato sulle sue labbra. Aveva decisamente bisogno di una lezione, una lezione che Phobos voleva impartirgli, la più dura che avesse mai ricevuto. Ardeva dal desiderio di farlo, per far sparire dal volto del fratello quel sorriso, quel sorriso tanto amato e tanto odiato. Era sempre stato il contrario, Deimos si sentiva in dovere di correggere Phobos.

Sono nato prima di te, sarebbero state queste le sue parole. Essere il maggiore lo spingeva a comportarsi come meglio credeva nei confronti del fratello, utilizzando le buone, o le cattive maniere. Deimos si mostrava spesso incline verso le seconde, ma non riusciva a ostentare sempre quel genere di comportamento nei confronti di Phobos, sangue del suo sangue, ma al quale era congiunto da un legame che pochi, forse nessuno, avrebbe potuto comprendere. Le persone vedevano solo due fratelli particolarmente legati, che si divertivano a prendersi gioco degli altri, a farli cadere nelle loro trappole, a renderli vittime dei loro giochetti, spesso sadici e malefici, marionette nelle loro mani. Eppure Phobos e Deimos erano legati da qualcosa di più profondo, un attaccamento morboso e feroce, che si scatenava in tutta la sua furia nei confronti di coloro che minacciavano la loro unità, coloro che tentavano di attaccarli. E quel meccanismo che scattava in Deimos quando si trovava davanti a qualcuno, si inceppava davanti a Phobos. Affetto, forse? Difficile dare un nome a quel sentimento, così estraneo a entrambi, che si ritenevano incapaci di provare qualsiasi emozione. Si trattava di dipendenza, semplice e pura dipendenza, dipendenza malata. Mai autodistruttiva, ma certamente forza distruttiva che investiva ciò che circondava i due fratelli, facendo quasi terra bruciata. Insieme erano più forti, si completavano a vicenda. Insieme erano temibili e bellissimi. Avrebbero ucciso l’uno per l’altro.


I due Dei erano facce della stessa medaglia; diversi, eppure più simili di quanto si potesse immaginare. Deimos era scorretto, sleale, violento; Phobos era bugiardo, falso e manipolatore, preferiva l’utilizzo delle parole, contrariamente al fratello, che prediligeva le mani. Diversi modi per imporre la propria volontà, per far sì che gli altri si ritrovassero inermi davanti a loro. Modi entrambi efficaci, che raggiungevano il massimo potenziale quando i fratelli univano le forze. Phobos era la Paura, Deimos era il Terrore; si completavano a vicenda, e nessuno, nessuno poteva considerarsi al sicuro, non quando si trattava di quei due.

Deimos sollevò la mano destra, e Phobos chiuse gli occhi, pronto al possibile colpo che il fratello avrebbe potuto sferrargli; egli, tuttavia, non fece nulla di ciò che l’altro aveva immaginato. La mano di Deimos si avvicinò pericolosamente al volto di Phobos, ma solo per sfiorargli appena la guancia con le punte gelate delle dita.

«Di certo non io, fratello.»

Phobos rabbrividì al contatto, lanciando uno sguardo sprezzante all’altro, che si divertiva a giocare con quello che egli provava nei suoi confronti. Come se Deimos non sentisse la stessa identica cosa. Prima che Phobos potesse ribattere, Deimos si allontanò, liberandolo dal suo peso. Si alzò con un movimento agile e iniziò a correre, la sua risata che invadeva nuovamente la spiaggia, mentre Phobos si tirava su a sedere.
Conosceva perfettamente il fratello, conosceva ogni sua mossa, ogni suo pensiero, quasi fossero la stessa entità, così, quando Deimos si voltò per constatare se l’altro lo stesse seguendo, non gli fu difficile cogliere, nello sguardo che gli rivolse, una supplica silenziosa che lo invitava a farlo. Sciocco, Deimos era davvero sciocco. Phobos lo avrebbe seguito ovunque. Perché sapeva che, nonostante il fratello nascondesse ciò che sentiva dietro una maschera di prepotenza e strafottenza, ricambiava i suoi sentimenti. Avevano bisogno l’uno dell’altro, nella stessa misura. Phobos lo sentiva nei tocchi disperati di Deimos, nei sospiri, negli sguardi che non potevano mentire. Quei gesti non erano ingannevoli come le parole.

Con una mossa altrettanto agile, Phobos si alzò.

«Ricorda chi è il più veloce tra i due!»


Il Dio iniziò a correre, raggiungendo presto il fratello. Se Aphrodite avesse potuto vederli in quel momento, avrebbe scosso la testa, un’espressione disgustata sul volto. Così simili al loro padre, Ares, così lontani dai figli tanto desiderati dalla Dea della Bellezza. Ella, tuttavia, non si rendeva conto di quanto le somigliassero, soprattutto in alcuni comportamenti, nel contegno che spesso ostentavano. Negli occhi di ghiaccio di Deimos, nei capelli color miele di Phobos. I due fratelli erano certamente due figure contraddittorie. Non poteva essere altrimenti; erano nati dall’Amore e dalla Guerra, in loro si scontravano nature contrastanti, forse inconciliabili.

Phobos e Deimos vivevano nella speranza di combattere nuove guerre, al fianco di Ares, e riempivano quei momenti di attesa con un altro combattimento, un combattimento che li vedeva l’uno contro l’altro, ma che pur aveva i tratti di un gioco. Un gioco che era un costante mettersi alla prova, sperimentare le proprie capacità. Combattimento in cui non vi erano vinti; entrambi ne uscivano vincitori, guerrieri trionfanti che desideravano trascorrere il tempo libero a modo loro, sempre insieme, sempre inseparabili. Potevano anche non avere guerre in cui buttarsi a capofitto, ma avevano pur sempre le loro battaglie.

E Phobos aveva Deimos; così come Deimos aveva Phobos.


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Angolo Autrice.
L'idea per questa ff mi ronzava in testa da fin troppo tempo. E finalmente ha visto la luce! Con un po' di ritardo, forse.
Un ringraziamento speciale alla persona che mi ha ispirata, che mi ha definitivamente convinta a pubblicare e che, prima o poi, mi ucciderà con tutte le nostre meravigliose otp. Ancora tanti auguri, Bea. Love u, darling. ♥
   
 
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