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Autore: Skred    01/06/2015    0 recensioni
«È triste. Davvero triste. Quel giorno fosti proprio tu a dirmi di non dimenticarti. Di cercarti... e invece. Però... non importa, non mi arrenderò così facilmente. A costo di dover farti innamorare di nuovo di me...»
Non capivo se mi stesse prendendo o meno in giro, eppure mentre diceva quelle parole, sembrava così seria e sincera. Strinse con forza la tracolla della borsa e, nonostante tenesse il viso chino, notai che si stava mordendo un labbro.
Subito dopo scattò, dandomi le spalle e iniziò a muovere dei passi. Non appena si allontanò abbastanza, si voltò nuovamente verso di me, alzò il braccio e mi puntò il dito contro.
«... perché io ti amo!»
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario, Sovrannaturale
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Dopo i precedenti giorni ricchi di imprevisti, la mia vita sembrava aver preso di nuovo quella sua noiosa e normale piega, ma mi sbagliavo. Quella mattina ero andato in università – se ve lo foste chiedendo, frequento la facoltà di lettere e filosofia – ma per fortuna, avevo avuto solo delle lezioni mattutine, quindi sarei potuto rientrare a casa per l'ora di pranzo. Per raggiungere gran parte delle università, si era necessariamente costretti a spostarsi in una città vicina a quella in cui abitavo, e io usavo come mezzo di trasporto il treno. A quell'ora, era anche più affollato del solito, visto che la mia era semplicemente la terza fermata. Facendomi spazio fra i vari passeggeri, riuscii a ritagliarmi pochi centimetri, il necessario per non soffocare in quella folla. La mia vita universitaria era sempre stata così, ma appunto... era. Con le spalle contro il finestrino e le braccia conserte, facevo vagare lo sguardo da una parte all'altra del vagone, finché non notai qualcosa che attirò particolarmente la mia attenzione.
“Ma quella... è Gin.”
Non credevo che l'avrei rivista così presto. No, in effetti, lo sapevo... però credevo che avrei potuto avere più tempo di tregua da lei, ma evidentemente il mio destino era quello.
Seduta su di un sedile, teneva stretta fra le braccia la borsa e, come sempre, dormiva.
Come poteva essere così incosciente nell'addormentarsi sul treno? Mi lasciai scappare un sospiro, lasciando il mio sguardo su di lei. Quello che accadde dopo mi fece parecchio perdere l'autocontrollo, diciamo. Accanto a Gin vi era un ragazzo, poteva avere sì e no la mia età. Con delle cuffie nelle orecchie, probabilmente fingeva di ascoltare della musica per allontanare da sé l'attenzione. Fu allora che notai che una sua mano, lentamente, si stava avvicinando alla ragazza addormentata. Non mi interessava sapere quello che avrebbe fatto dopo, ma già sapevo che non sarebbe stato nulla di buono. Sciolsi le braccia e appoggiando i gomiti contro la parete, mi diedi una leggera spinta. Pochi passi ed ero ormai di fianco a Gin, che stava seduta nel sedile esterno. Velocemente, fiondai la mia mano sul quella del tipo, stringendogli il polso con quanta più forza potessi avere in corpo.
«Hai bisogno di qualcosa?»
Dissi, fissandolo. Lui, sentendosi bloccare, voltò di colpo il capo dedicandomi uno sguardo altrettanto infastidito. Ritirò subito il braccio, massaggiandosi più volte il polso. Dopodiché voltò il capo, borbottando qualcosa contro il finestrino. Spostai nuovamente lo sguardo su Gin, per accertarmi che stesse bene. Lei sobbalzò, forse rendendosi conto di essersi addormenta. Dopo aver sbattuto più volte le palpebre, si lasciò scappare uno sbadiglio, successivamente, alzò leggermente il capo.
«Ah, Daichi. Mi sono addormentata di nuovo...»
Con una mano iniziò a strofinarsi gli occhi, mentre l'altra rimaneva salda sulla borsa.
«Sei proprio scema.»
Le diedi un colpetto fra i capelli, lei mi rispose con una mezza smorfia.
«Se hai così sonno, torna pure a dormire. Ti sveglio io quando saremo arrivati.»
Lei fece un semplice cenno con la testa, dopodiché spiaccicò di nuovo il viso contro il sedile, tornando a ronfare dopo qualche secondo. Rimasi lì accanto a lei, per vegliare sul suo sonno, ma sopratutto sulle strane idee che sarebbero potute venire al suo vicino. Ora che ci pensavo, probabilmente anche Gin stava tornando a casa dopo una lezione universitaria e se ricordavo bene, la sua facoltà si trovava proprio non molto lontana dalla mia, ma per comodità, si preferiva prendere la fermata prima del treno, rispetto quella che avevo preso io.
Bé... la prossima volta o lei viene da me o viceversa. Farla stare sola sul treno è pericolos... aspetta, che diavolo sto pensando?!”
Scossi velocemente il capo, come a voler mandare via quei pensieri. Tutto ciò non era affar mio, eppure non potevo far a meno di preoccuparmi. Passarono altre due fermate, la nostra meta era sempre più vicina. Di colpo, il tipo seduto accanto a Gin, si alzò, lasciando libero il posto. Probabilmente sarebbe dovuto scendere alla prossima fermata. Per fortuna, non riuscivo più a sopportare la sua presenza. Poco dopo svegliai anche la ragazza e, com'era successo il primo giorno che c'eravamo incontrati, ci trovammo a percorrere la medesima strada. Io le portavo la pesante borsa e lei, qualche centimetro dietro, continuava a sbadigliare.
«Certo che te dormi sempre. Non va bene.»
Non potevo di certo esserci sempre io a bloccare possibili ladri o molestatori.
«Uff... è colpa delle medicine!»
Disse lei, in tutta risposta.
«Medicine? Che medicine?»
«AAAH! Ma niente! Sai com'è, si avvicina la primavera, eh, eh! E l'allergia è davvero insopportabile... coooosììì, prendo un sacco di medicine che mi danno sonnolenza!»
Non mi sembrava tanto convinta, ma ora non mi andava di indagare. Mossi altri passi, fummo di colpo richiamati da una voce.
«EHI! TU!»
Un tipo, incappucciato, ci venne incontro, sbarrandoci la strada. Certo che quel percorso era davvero maledetto, ogni volta trovavamo sempre qualcuno che ci veniva contro.
«Oh, aspetta. Sei il tipo del treno!»
Nonostante avesse il capo coperto, lo avevo subito riconosciuto. Ma la cosa più importante era... che voleva da noi? Pensai che prima, quando s'era alzato, in realtà si era messo in disparte per vedere quale fosse la nostra fermata, così da poterci seguire.
«Esatto! Ora ti faccio vedere io cosa succede a chi mi mette i bastoni fra le ruote.»
Mi ero posto davanti a Gin, la quale continuava ad osservarci completamente disorientata.
«Il tipo... del treno?»
Chiese lei, a bassa voce.
«Ah, bé... era il tipo seduto vicino te, non l'hai notato? Voleva farti delle cosacce.»
Lo indicai con un pollice, mentre mi gustavo divertito il cambiamento d'espressione della ragazza. Ora era rossa rossa, come se da un momento all'altro fosse esplosa.
«E ci sarei riuscito, se tu non avessi rotto. Ma ti capisco amico, vuoi tenerti tutto quel ben di dio per te...»
Non riuscivo a seguire assolutamente il suo discorso. Iniziai a fissare Gin, partendo dal basso verso l'alto. In effetti, oggi era vestita diversamente. Mentre il mio sguardo saliva, notavo continui cambiamenti... quando giunto all'altezza delle spalle, inizia un po' a comprendere ciò che il ragazzo voleva dirmi.
«Ah.»
Commentai, battendo un pugno sul palmo della mano. In tutta risposta, questa volta il pugno di Gin mi arrivò dritto nel fianco destro.
«Siete dei... dei...»
Okay... forse l'averla fissata così intensamente l'aveva infastidita. Ma i giorni prima aveva sempre portato quel ingombrante cappotto, quindi non avevo mai notato come effettivamente il suo fisico fosse.
«Non perdiamo altro tempo.»
Non ebbi nemmeno il tempo di riprendermi dal colpo che mi aveva dato la ragazza, che il molestatore si era tolto la felpa, gettandola a terra. Si alzò le maniche della camicia e portò i pugni in avanti.
«Cos... vuoi fare a botte?!»
«Esatto, fatti avanti.»
“Ma questo è tutto matto...”
Sospirai. Non avevo nessuna voglia di prendermi a pugni con un perfetto sconosciuto, e poi non è che fossi questo granché a dar botte. Puntavo più alla diplomazia, ma con lui sembrava non poter avere nessun effetto. Girai velocemente lo sguardo, Gin accanto a me si era messa di spalle, affinché non potessi più fissarla. Fu lì che mi venne quel lampo di genio. Sulla sua schiena non c'era più la borsa, perché la tenevo io, e dentro questa c'erano...
“Le due katane! Mi trasformo nel tipo lì e lo faccio scappare via in pochi secondi... eh, eh, sono proprio un geniaccio.”
Inizia a ridere. Lentamente, mossi un braccio, piegandolo all'indietro. Tuttavia, sembrava che anche la ragazza avesse intuito quale fosse il mio piano.
«Non sono un giocattolo, non permetterò che un maiale come te le tocchi!!»
Mi aveva appena sottratto la borsa, stringendola forte a sé. Bene, ora ero davvero fregato.

Passò mezz'ora e lo scenario era completamente cambiato: vi ero io, seduto davanti a un tavolino e Gin, posta difronte a me, tutta concentrata nel disinfettarmi e medicarmi alcune ferite che mi ero fatto sul volto.
«A-ah, brucia!»
«Shh... sto cercando di farti meno male possibile!»
Alla fine, ero stato costretto a far botte col tipo, e con mia grande sorpresa, ne ero uscito vittorioso, ma con parecchie ferite. Non potevo di certo tornare a casa in quello stato, così Gin mi aveva proposto di andare da lei.
«Ho quasi fatto.»
Dovendo stare fermo immobile davanti a lei, il mio unico intrattenimento si limitava nell'osservare l'interno della casa. In quel momento ci trovavamo nella sala da pranzo, che era direttamente collegata alla cucina. I mobili che la componevano erano quasi tutti antichi, nonostante ci fossero molti oggetti di ultima generazione. Accanto a me vi erano appunto il tavolo e poco distante, un grosso schermo piatto. Alle mie spalle vi era un'altra stanza, completamente al buio, mentre dal lato opposto, oltre la cucina, vi erano le scale. Sembrava molto simile a casa mia, anche se lo spazio era organizzato in modo diverso. Finita la perlustrazione, non mi rimaneva che guardare la ragazza stessa. Mi soffermai ad osservare le sue piccole mani che si muovevano velocemente fra i vari medicinali, dopodiché passai agli occhi.
«Certo che avresti potuto farmi usare la katana. Dopotutto è mia, no?»
L'iride aveva davvero un colore particolare, avevo sempre creduto fosse semplicemente grigio, invece, se osservato da vicino, si potevano vedere delle lievi sfumature d'azzurro.
«Non puoi sbandierare ai quattro venti quello che sai fare. Sapendo che quegli uomini potrebbero tornare da un momento all'altro, non dovremmo attirare l'attenzione...»
Mi scocciava ammetterlo, ma aveva perfettamente ragione. Mentre mi parlava, continuava a occuparsi delle mie ferite, però...
«Il tuo occhio destro... è strano. »
Lei sobbalzò all'indietro.
«Quello ad essere strano sei tu... e ho finito!»
La sua reazione, simile a quando le avevo chiesto delle medicine, mi aveva fatto insospettire... mi nascondeva qualcosa.
Gin si alzò e, mettendo via la cassetta del pronto soccorso, raggiunse i fornelli, tirando fuori varie pentole.
«Oggi cucino io!»
In qualche modo, mi sembrò volesse cambiare discorso.
«Dai... davvero, non c'è niente che non vada?»
Intanto aveva indossato un grembiule bianco, sembrava proprio una cuoca professionista, non l'avrei mai detto.
«È una cosa che dovresti già sapere.»
Mi ammutolì.
«Appoggiati una mano sul fianco sinistro e dimmi se senti dolore.»
Perché quella richiesta stramba tutta d'un tratto?
«Forza, fallo!»
Seguii senza far pieghe il suo ordine, e inizia a far passare la mano su tutto il fianco, ma non accadde nulla.
«Non sento niente... e poi tu mi hai picchiato sul fianco destro, se intendevi quello.»
Lei lasciò ciò che teneva in mano, abbassò leggermente la fiamma su cui prima aveva appoggiato una pentola e mi raggiunse.
«Devo fare proprio tutto io, eh?»
Per la prima volta, fu lei quella a sospirare. Si piegò su una gamba e, con fare deciso, andò a premere contro un punto preciso del fianco due dita. Il dolore che provai fu indescrivibile, mi sembrava che qualcuno mi avesse appena trafitto con una spada.
«Bingo.»
Disse lei, notando la mia espressione piena di dolore. Se non fosse stato imbarazzante, mi sarei messo a piangere. Lei tornò in cucina, era più preoccupata che il cibo in pentola non si bruciasse, che del male che mi aveva appena inflitto. Improvvisamente, mi tornarono in mente diversi ricordi, proprio come era successo il giorno prima. Vi eravamo sempre io e la Gin del passato, io le chiedevo il perché stesse indossando quella strana maschera che aveva sempre sul viso. Lei si rifiutava in tutti i modi di dire la verità, dicendo semplicemente che le piaceva avere qualcosa di particolare. Tuttavia, con un po' di sforzo, ero riuscita a sottrargliela, notando che dal sopracciglio, fino a metà guancia, il suo viso era deturpato da una cicatrice. Il ricordo si interruppe lì, e tornai al presente.
«Una cicatrice! Ma tu... non ce l'hai... che senso ha?»
Non mi rispose subito, prima pensò ad impiattare, poi, mi raggiunse con in mano il cibo.
Li poggiò sul tavolo, uno davanti a me e l'altro nel suo posto. Dopo essersi seduta, aprii finalmente bocca.
«Io... hm... non vedo dall'occhio destro. Sono cieca. Allora fu una freccia a provocarmi tale cecità, mentre non capisco il perché... questa volta sono nata già così. Anche tu... nel punto in cui ti ho toccato poco prima, venisti colpito a morte. Quindi ho ipotizzato che fosse quello il tuo punto debole. Sembra quasi che, in qualche modo, ci abbiano voluto comunque infliggere le ferite che abbiamo avuto in vita. Sembra così buffo, non trovi?»
Come poteva trovare buffo qualcosa del genere? Perché era così spensierata mentre diceva una cosa così grave.
È ingiusto.”
Nel mentre, lei aveva iniziato a mangiare. Noncurante di ciò, allungai una mano verso di lei, appoggiandola sulla sua guancia destra. Con un po' di pressione, le feci voltare il capo, volgendolo verso di me, nonostante il resto del suo corpo era ancora immerso in ciò che stava facendo precedentemente. Alzai il pollice, trascinandolo sulla palpebra del suo occhio, soltanto quando lo allontanai di pochi millimetri, lei separò le due estremità, mostrando l'iride. Ecco perché prima mi era sembrata così strana, visto che, a differenza dell'altra, stava completamente immobile, non seguendo il movimento delle sue mani.
«Che ti prende?»
Disse lei, accennando un sorriso. Qualche secondo dopo, quel sorriso si trasformò in una smorfia.
«Ehi, ehi, d-dai, calmati!»
Lasciò cadere la posata che aveva nella mano, e si fiondò subito su di me. Mi avvolse la testa con le braccia e mi portò a sé, stringendomi al petto.
«Ma ti sembra normale metterti a piangere, dov'è finita la tua virilità?!»
«Ogni tanto anche i ragazzi hanno bisogno di sfogarsi, ok?»
Involontariamente, una dopo l'altra, delle lacrime avevano iniziato a rigarmi il viso. Non volevo piangere, ma non riuscivo nemmeno a smettere. Lei non mostrava mai espressioni tristi, nemmeno quando mi rivelava i problemi legati al suo occhio. Eppure a me faceva davvero male, sembrava quasi che soffrissi io al posto suo.
«Mi dispiace. Io me la sono cavata con così poco... mentre tu... devi avere sempre la parte peggiore.»
Ad ogni mia parola, il suo abbraccio si faceva sempre più forte. Le sue sottili dita si facevano spazio fra i miei capelli, accarezzandoli di tanto in tanto.
«Tu non hai nessuna colpa. Quindi ora basta piangere.»
Mi allontanò un po', facendo scivolare le mani sul mio viso. Mosse entrambi i pollici, e seguendo la forma dell'occhio, spostò quelle poche lacrime che erano rimaste.
«E ora torniamo a mangiare. Sarei triste se si raffreddasse tutto e non fosse più buono.»
Così lei mi lasciò completamente, e dopo avermi rivolto un sorriso, tornò tranquilla a mangiare. E io feci lo stesso. In pochi minuti, avevo quasi del tutto svuotato il piatto. Era davvero brava a cucinare, ed era tutto così delizioso che avrei fatto più volte il bis.
«Abiti da sola?»
Non mi piaceva stare in silenzio per così tanto tempo.
«No, no. Sto con mio padre, ma al momento non c'è. Di solito lavora fino a tardi, quindi mi tocca spesso pranzare da sola.»
Da questo punto di vista, eravamo molto simili. Entrambi i miei genitori erano professori, quindi più volte mi toccava trovarmi da solo il pane da mettere sotto i denti. Per non parlare delle volte in cui anche mio fratello rientrava, e quindi, nonostante fosse lui più grande, mi toccava cucinare anche per lui.
«Hm... e tua madre?»
Non capivo se non l'avesse citata di proposito, o semplicemente se ne fosse dimenticata.
«Non so, potresti metterti a piangere di nuovo.»
La vidi spostare lo sguardo prima sul mio piatto, forse per accertarsi che avessi mangiato tutto, poi su di me.
«Ah! Non fare la scema! Giuro che la prima volta che ti vedrò piangere, invece di consolarti ti riempirò di insulti.»
«Peccato che io non pianga mai! Sembra che toccherà a me essere l'uomo in questa coppia...»
Mentre parlava, era scattata in piedi e, afferrandomi da un braccio, mi tirò con sé.
«N—noi non siamo una coppia e... e dove stiamo andando!?»
Mi feci trascinare senza opporre resistenza. Ci ritrovammo nella stanza sulla sinistra, quella completamente al buio che prima era alle mie spalle. La sua mano ora stringeva forte la mia.
«Ecco qui. Mamma, ti presento Daichi.»
Di fronte a noi ora vi era un altarino, con posto al centro la foto di una donna, la madre di Gin. Rimasi immobile a bocca semi aperta. Non mi sarei mai immagino un risvolto del genere.
«Ehi, non fissarla così!»
Mi disse lei, dandomi un leggero colpetto.
«A—ah, giusto. M—mi dispiace... ecco... buon pomeriggio signora.»
Gin iniziò a raccontare alla madre quello che aveva fatto quella mattina, prima che ci incontrassimo. Per tutto il tempo, guardai i suoi occhi. Non erano lucidi e sopratutto non facevano trasparire alcun emozione negativa, sembrava così felice mentre immaginava di parlare alla madre, mentre davanti a lei c'era soltanto una fotografia. Tuttavia, continuava a stringermi con forza la mano. Ogni giorno che passava, quella ragazza mi sorprendeva sempre di più. Passarono circa cinque minuti, dopodiché, sempre mano nella mano, tornammo nell'altra stanza. Solo quando arrivammo vicini al tavolo, lei mi lasciò per mettere via i piatti. Mentre lei s'era messa in cucina a lavare le stoviglie, io mi ero andato a sedere su uno sgabello vicino a lei. Incrociai le braccia sul lungo piano posto davanti a me, e ci feci sprofondare il mento, lasciando visibili solo gli occhi, impegnati a seguire i movimenti della ragazza.
«Sei rimasto senza parole? »
Mi disse lei, senza distogliere lo sguardo da ciò che stava facendo.
«Non so cosa dire. Tutto ciò che penso mi sembra così inappropriato... »

«Sai... ormai sono rassegnata. Che sia questa o una vita passata, le persone che amo mi vengono sempre portate via. Quindi cerca di non metterti nei guai!»
Arrossii. Certe volte il suo essere così spontanea mi spiazzava completamente.
«Posso chiederti cosa le è successo?»
Avrei preferito cambiare discorso, ma la storia di sua madre mi incuriosiva parecchio.
«Una malattia l'ha portata via due anni fa. Lei sapeva che la sua vita non sarebbe stata lunga... e in questi anni ho imparato ad accettarlo.»
Lei aveva perso la madre così presto, come la Gin del passato aveva dovuto subire la mia morte in così giovane età. Ad un tratto, recuperare i ricordi del vecchio “me”, mi faceva quasi paura... forse io non avrei sopportato così tanti lutti nella mia vita, e non sapevo cosa quelli potevano riserbarmi.
«Stavo pensando... se gli orari delle nostre lezioni coincidono, potremmo prendere il treno insieme. Anche al ritorno... vorrei evitare di dover fare a pugni con qualcun altro.»
Dissi tutto d'un fiato. In qualche modo, mi sembrava una proposta troppo azzardata, stavo passando dall'ignorarla completamente a prestarle fin troppe attenzioni. Però, dopo tutta la tristezza che per colpa mia aveva riesumato, strapparle un sorriso mi sembrava doveroso.
«Aaaah, dici davvero?! Potremmo fare la strada insieme ogni volta!»
Non riuscendo a contenere la felicità, andò subito ad abbracciarmi.
Per poco non sarei caduto dallo sgabello.
«N-non farmi pentire di questa decisione, va bene?»
Cercavo in tutti i modi di farla allontanare, visto che non si era nemmeno asciugata le mani e quindi ora mi stava inzuppando d'acqua.
«D'accordo!»
Anche se per tutta la giornata sul suo viso vi era sempre stato il medesimo sorriso, sapevo bene che quello che ora mi stava rivolgendo, era vero e sincero... e questo mi rendeva davvero felice.
Quando lasciai casa di Gin si erano fatte circa le quattro del pomeriggio. Non sapevo ancora come avrei passato il resto della giornata, sicuramente sarei dovuto rientrare a casa prima di mia madre, o vedendomi quei lividi sulla faccia avrebbe iniziato a riempirmi di domande insopportabili. Quella giornata era stata così piena di novità, che la mia testa stava scoppiando. In realtà, c'erano tante altre cose che avrei voluto chiederle, ma avremmo avuto tempo.
“Ah... avrei dovuto scrivermi il suo numero di cellulare. Va bé... non importa... glielo chiederò la prossima volta.”
Quando mi vennero in mente quei pensieri, ero già arrivato a casa.
Ma ancora più importante, non sapevo che, la prossima volta, non sarebbe stata così vicina come immaginavo.

   
 
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