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Autore: Elnor    02/06/2015    5 recensioni
La Guerra dell'Anello è finita ed è giunto il tempo degli uomini, costretti ad affrontare il lascito del passato. Questa è una delle loro storie, una storia della Quarta Era.
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Dopo un secolo gli orchi delle montagne nebbiose minacciano nuovamente le terre a occidente. I dunedain hanno chiesto l'aiuto di Gondor, ma gli esploratori inviati sulle tracce dei razziatori scoprono una minaccia più grande. Un pugno di coraggiosi cercherà di scoprire a rischio della vita cosa accade in Eregion e perché centinaia di orchi si stanno radunando all'ombra delle montagne. Anche Gran Burrone ha inviato i migliori tra i suoi guardiani a far luce su quello che accade nell'ombra.
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Questo racconto vuole essere un omaggio e un riconoscimento all'opera di Tolkien.
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Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sulle tracce del passato

Storie della Quarta Era

 

 

 

La storia scorre sui sentieri tracciati dagli uomini

si raccoglie attorno alle comunità,

si intreccia e si divide in mille rivoli

si modella sulle scelte dei re e dei ribelli...”

 

 

 

1. Seguire le tracce

Brennon figlio di Beriand rallentò la corsa, poi si mise al passo, mentre leggeva le tracce sul terreno. Dietro di lui gli esploratori rallentarono a loro volta, ansimando per lo sforzo. I quattro appartenevano alla migliore compagnia della Guardia di confine, fondata da re Elessar dopo la guerra dell'anello, per difendere le terre degli uomini dai resti degli eserciti dell'oscuro sire. Erano esperti e allenati, ma quel ramingo sembrava fatto di legno e pietra. Li spingeva al limite senza mostrare sforzi significativi a stare un passo avanti a loro. Era instancabile, sempre attento, dormiva e mangiava meno di tutti loro.

– Riposiamoci – ordinò Brennon, lanciando una lunga occhiata attorno, tra gli alberi di agrifoglio.

– Ormai dovremmo averli raggiunti – disse Derek dopo aver bevuto dalla borraccia. Aveva i tratti di un figlio di Rohan, ma parlava con l'accento di Gondor.

– Mezza giornata – disse Viarta scrutando il terreno.

Brennon lanciò uno sguardo al dunlaniano, ma non volle contraddirlo. Erano quattro giorni che li guidava e si era fatto un'idea del valore e del carattere di ognuno di loro. E il problema di Viarta era l'orgoglio, più grande delle sue spalle muscolose.

– Continuano verso le montagne – aggiunse Marten frugando nella sacca. Il giovane era il più alto e atletico del gruppo, ma non brillava per acutezza mentale.

– Com'era ovvio – disse Conmir all'amico, – ma avete capito quanti sono? Vanno in fila per tutto il tempo.

– Cinque.

– Sette – ribatté Viarta.

– Otto – intervenne Brennon.

– Due sono grossi, forse della stirpe di Saruman, gli altri sono orchi delle montagne Nebbiose. Uno zoppica, uno indossa stivali fatti da mano umana, tre portano lance. Non hanno retroguardia, non temono di essere seguiti. Dovremmo raggiungerli poco dopo il tramonto – aggiunse.

– E quando li avremo raggiunti? – chiese Conmir.

Il magro gondoriano era il più vecchio del gruppo e anche il più scaltro. Guardava sempre avanti e pensava sempre al peggio. Non era il miglior atteggiamento per un esploratore, ma in guerra era un modo per vivere un giorno in più.

– Li seguiamo finché non raggiungono il grosso delle forze o il buco da cui sono usciti – rispose Brennon.

Il ramingo non aveva alzato la voce, ma le sue parole erano cariche di autorevolezza. Derek e gli altri avevano capito in fretta che il dunedain che stavano scortando era qualcosa di più di un semplice esploratore, ma finora non avevano trovato indizi su chi fosse veramente. Un capitano dunedain? Uno della stirpe del re?

Conmir si sedette con la schiena appoggiata a un tronco, poi chiese: – Ieri ci raccontavi dell'Agrifogliere, ma fin dove ti sei spinto qui attorno?

Brennon non rispose subito. Fin dove si era spinto nel suo cammino? Lontano? Troppo, forse, così dicevano i suoi parenti, troppo poco, secondo i sogni della giovinezza, che il tempo aveva consumato.

– A sud fino alla breccia di Rohan e oltre, a ovest fino alla Contea, a nord fino agli Erenbrulli.

– Conosci le montagne? – incalzò Conmir.

Lui annuì.

– Hai visto molti elfi? – intervenne Derek.

– A Gondor sono sempre più rari – aggiunse Marten.

– Ce ne sono ancora a Gran Burrone? – insistette Derek.

– Sì – confermò Brennon. – Molti sono partiti con i signori degli elfi alla fine della guerra dell'anello e molti hanno imboccato la strada per il mare nell'ultimo secolo, ma Gran Burrone è ancora presidiato e sicuro.

– Dicci com'è.

Lui sorrise rammentando la prima volta che suo padre lo condusse con sé a Imladris, come lo chiamavano gli elfi, a consegnare i messaggi del consiglio dei Dunedain ai figli di Elrond, Elladan ed Elrohir.

Si sedette e raccontò di quei luoghi, delle case e delle genti che le abitavano, dell'atmosfera e della sensazione che gli uomini provavano camminando tra quelle foreste e quelle sale. Parlò della lingua e della musica, dei volti gentili, fieri e belli, e degli oggetti realizzati con arte e l'abilità che solo un'esperienza di secoli poteva dare.

– Vivono il tempo in un modo diverso, che noi uomini non capiamo. Possono mostrare una pazienza infinita nell'attesa del momento giusto e agire in modo fulmineo quando l'istante lo richiede. Ma ora basta. Dormiamo. Questa notte non ne avremo la possibilità – concluse. Poi si alzò e si allontanò tra gli alberi a montare la prima guardia.

– Strano uomo – disse Derek con rispetto.

– E' un ramingo – disse Viarta con durezza. Non c'era amore tra la sua gente e i Dunedain del nord, troppi vecchi rancori.

– Non è un cattivo soggetto.

– Io spero che non ci faccia ammazzare.

– Lo scopriremo stanotte – concluse Conmir, stringendosi nel mantello.

 

 

Seguivano sottovento il gruppo di orchi che avanzavano correndo tra gli alberi in fila indiana. Come aveva detto il ramingo, erano otto, uno in avanguardia, due più massicci degli altri. Mancavano tre ore all'alba e la stanchezza aveva iniziato ad appesantire il corpo e la mente. Per evitare di essere scoperti, avevano lasciato più terreno tra loro e gli orchi.

      Brennon era di nuovo avanti, in avanguardia, e si orientava più con l'udito che con la vista. Nonostante il bel tempo era difficile seguire le tracce alla luce della luna, ma il rumore delle armi e il silenzio del bosco al loro passaggio era sufficiente per indicargli la via.

      C'era qualcosa in quel gruppo di razziatori che lo disturbava. Gli orchi avevano tenuto un ritmo elevato per tutta la notte. Non sembravano banditi alla ricerca di bottino, si muovevano a ranghi serrati e riposavano poco. Non potevano essere quelli che avevano attaccato i carri di ritorno da Gran Burrone venti giorni prima. Dalle tracce sembravano tornare dalle rive del Rombirivo, ma cosa ci facevano lungo il fiume così a sud?

      Qualcosa cambiò nel respiro della foresta, più silenzio, meno rumore. Sentiva ancora le armi, ma attutite o lontane. Si fermò dietro un tronco e ascoltò meglio. Poi portò le mano alla bocca e lanciò il grido del barbagianni in caccia. Gli esploratori lo raggiunsero, mani sulle armi, occhi che frugavano il buio.

      – Che succede? – sibilò Marten, interrotto subito da una mano alzata del ramingo.

      Brennon cercava ancora, oltre il respiro affannato dei quattro uomini, piccoli rumori, tracce sonore che gli permettessero di capire. Sentiva gli orchi più avanti, correvano ancora, ma in quanti? C'era troppo silenzio. Avanti e attorno a loro tra gli alberi. E la foresta non taceva in quel modo senza motivo. Li avevano sentiti? Avevano lasciato una retroguardia?

      Il suo istinto lo fece decidere. Si mise sotto la luce della luna, indicò l'est, la direzione seguita dagli orchi, e a gesti disse “minaccia” e “trappola”, poi indicò il sud e gesticolò “silenzio” e “veloci”. I quattro reagirono all'istante e a passo leggero corsero nel buio. Brennon li seguì a ruota, cercando di cogliere segni di pericolo.

      Meno di quaranta passi e dal buio uscirono orchi urlanti e assetati di sangue. Tre, cinque, contò Brennon. Poi ci fu solo il tempo di impugnare le armi.

      – Spalla a spalla! – gridò.

      Come prima di ogni scontro, Brennon esitò e tremò sotto la gelida stretta della paura, poi una scossa gli frustò la schiena e il coraggio gli fiammeggiò nel petto. Schivò il primo fendente, poi fu costretto a difendersi dai colpi martellanti di un bestione con spada e scudo. Nel buio intuiva appena gli attacchi che l'altro calava con rabbia, aiutato più che altro dalle sue urla. Indovinò il colpo di scudo al volto prima che l'orco lo sferrasse e ne approfittò per strattonarlo, sbilanciarlo e affondargli la lama in gola. Lo lasciò cadere per correre in aiuto degli altri.

Qualcosa lo sfiorò sibilando. Arcieri, riconobbe, poi sentì altri orchi che stavano arrivando, di corsa, da lontano, almeno una decina. Non erano il gruppo che stavano seguendo.

Viarta parò, fece una finta a destra, poi calò un fendente poderoso al volto dell'orco che stramazzò gorgogliando. Derek fece un mezzo giro, un passo fuori dall'affondo dell'avversario, poi calò l'ascia troncandogli il braccio. Mentre Marten affondava la spada nel petto del suo avversario, Conmir lanciò uno dei suoi pugnali al primo orco del gruppo che usciva dal buio a spade levate.

– Indietro! Correte! – gridò Brennon.

Gli altri non si fecero pregare, tutti eccetto Marten che barcollò e cadde. Conmir se ne accorse e tornò indietro.

– Uomo a terra! – gridò con voce rotta. Aveva tre orchi davanti, due che correvano verso di lui e Marten che cercava di rialzarsi. Se rimaneva ad aiutarlo l'avrebbero sopraffatto, se scappava non se lo sarebbe perdonato.

Poi Brennon uscì dal buio e abbatté il primo pelleverde con una spazzata bassa alle gambe. Conmir lanciò al secondo un altro dei suoi pugnali, cogliendolo allo stomaco. Poi si inginocchiò accanto all'amico. Marten sputava sangue, lo stupore sul volto, una freccia nel petto.

– Vattene – gorgogliò.

Conmir invece lo prese sottobraccio e lo sollevò di peso. Una freccia gli sibilò accanto, ma continuò a sostenere l'amico.

Brennon intercettò l'affondo dell'orco con lo scudo che aveva raccolto più indietro e gli fendette la gamba con la spada, per poi ruotare e affrontare il secondo, deviarne il colpo di mazza e spingerlo via, per passare al terzo che lo caricava con una lancia e deviarne l'affondo con lo scudo.

E rendersi conto che erano troppi, non poteva affrontarli tutti. Ne stavano arrivando ancora, dieci almeno, e loro ci vedevano meglio al buio. Lui non era un eroe, era solo un ramingo. Non potevano rimanere, dovevano scappare.

Tornò al secondo orco, ne schivò la mazza per affondargli la spada nel fianco, poi incassare con lo scudo un colpo dal primo orco ferito e scoprire di aver perso di vista il terzo. Lo scorse con la coda dell'occhio alle sue spalle nell'atto di affondare la lancia e in quell'attimo capì di non poterla evitare. Dov'erano gli altri? Combattevano attorno a lui, bersagliati da frecce. E come evocata da quel pensiero una freccia comparve infissa nel cranio dell'orco che stava per ucciderlo.

Conmir stringeva i denti e sosteneva Marten, dieci passi, altri dieci. Il compagno respirava a fatica e non si reggeva più in piedi. Improvvisamente qualcosa lo scosse e caddero entrambi a terra. Conmir vide che un'altra freccia spuntava dalla schiena dell'amico. E comprese che era morto. Strinse i denti, se ne assicurò, poi saltò in piedi e gridò.

Gli altri si ritirarono, insieme, coprendosi l'un l'altro, prima indietreggiando per poi correre con quanto fiato avevano in corpo. In qualche modo ci riuscirono, ma solo Brennon sapeva grazie a chi. Gli orchi cadevano abbattuti da frecce che uscivano dal buio e quando questi se ne accorsero, esitarono.

 

 

2. Da cacciatori a prede

Brennon rimase di retroguardia finché non si rese conto di aver lasciato indietro gli orchi. Poi raggiunse gli altri e dopo un miglio li fece fermare.

– State tutti bene? – chiese.

– Non tutti – rispose Viarta, mentre cercava di sfilare una freccia dall'armatura. Per sua fortuna era stato un tiro debole, forse deviato, la punta della freccia aveva attraversato il cuoio e l'imbottitura ed era penetrata nella carne, ma non a fondo.

Brennon capì dalla rabbia e dall'amarezza nella sua voce che non parlava di se stesso, o di Derek, che con l'aiuto di Conmir stava stringendo una pezza attorno al braccio ferito. Per sua fortuna il bracciale di ferro aveva fermato buona parte della forza del fendente.

– Non è il momento delle recriminazioni. Ci sono dietro e ci inseguiranno. La trappola era pianificata. Non ha funzionato, ma non ci permetteranno di tornare indietro. Andremo a sud e cercheremo di far perdere le nostre tracce – disse Brennon.

– Da cacciatori a prede – borbottò Conmir.

– Tra un'ora sarà l'alba. Siamo stanchi e provati, ma dobbiamo tenere un buon passo per le prossime ore. Quindi stringiamo i denti e non facciamoci prendere dallo sconforto.

Quando si volse Viarta incombeva su di lui.

– Non dubitare che parleremo di quanto è accaduto stanotte, ramingo – disse il dunlandiano, poi si volse e lo precedette.

Brennon fece un sospiro. Sapeva cosa l'altro stava provando per il suo compagno caduto, ma sapeva anche che le prossime ore avrebbero decretato la loro vita o la loro morte. L'Eregion, chiamato anche Agrifogliere, era una terra ricca di foreste e colline, selvaggia e abbandonata dai tempi della guerra tra Sauron e gli elfi, nella Seconda Era. Non avrebbero trovato rifugio in quelle terre. Nessuno le abitava, per via di orchi e troll che attraverso i secoli erano usciti periodicamente dalle profondità delle montagne nebbiose, ma anche di creature più oscure che avevano imperversato e in alcuni casi ancora vivevano negli anfratti e tra le rovine di quella che un tempo era la casa dei Noldor.

Corsero, ma senza forzare, fino all'alba e oltre, per tutta la mattina, finché non si fermarono sulla riva di un torrente. I quattro mangiarono in silenzio, stanchi fin quasi al limite delle forze.

      – Non capisco come siamo riusciti a scamparla – disse Derek all'improvviso.

      – Neppure io. Erano venti o trenta – disse Conmir.

– Di più, ma non siamo caduti nella vera trappola. Ci hanno attaccati quando si sono accorti che stavamo fuggendo – ribatté Viarta, mentre lavava la pezza insanguinata dopo averla sostituita sulla ferita.

– Siamo stati aiutati – disse Brennon a voce bassa.

Gli altri lo fissarono. Calò il silenzio tra loro.

– Uno o due arcieri. Elfi. Per questo motivo non ci hanno sopraffatti. E non ci hanno inseguiti da vicino quando siamo scappati.

– Elfi? – disse Derek. E si guardò attorno come si aspettasse di vederli spuntare dai cespugli.

– Questo spiega tutto – disse Conmir.

– Ma adesso dove sono? – chiese Derek.

– Non qui – ribatté Viarta. – Mentre gli orchi sono sulle nostre tracce. Contateci.

– Hai ragione – concordò Brennon. Fece una pausa, poi aggiunse: – Quando siete pronti riprendiamo la marcia.

– Ancora a sud? – chiese Conmir.

– Sì, ma non direttamente. E' tempo di far perdere le nostre tracce.

Risalirono il torrente camminando sulle pietre per non lasciare tracce neppure sul fondo del torrente. Poi ripresero a camminare verso sud, ma in fila indiana. Camminarono con cautela finché non furono tra il fitto degli alberi e allora ripresero a correre a ritmo più leggero, seguendo il terreno e deviando spesso verso est. Tre ore dopo seguirono il letto di un torrente asciutto, per poi arrampicarsi su per un ripido pendio e ridiscendere tra le radici di vecchi alberi cresciuti sulle tracce di un insediamento.

– Cos'era quello? – chiese Viarta quando si fermarono a riposare alcune miglia più in là.

– I resti di un villaggio – disse Brennon mentre si liberava di zaino e armi.

– Elfico?

– No, uomini, forse della mia gente.

– Dove vai? – chiese Conmir da dove si era disteso sopraffatto dalla stanchezza.

– Dobbiamo sapere quanto sono lontani – disse Brennon, per poi salire il pendio a ovest, scegliere l'albero più alto e iniziare a scalarlo.

– Dove prende tutta quell'energia? – chiese Conmir guardandolo sparire tra i rami.

– Forse non è umano – disse Derek in tono scherzoso. Il ramingo in fondo gli piaceva, c'era qualcosa in lui che gli ricordava suo padre, il lato buono di suo padre.

– Lo è, ma non è una persona comune.

– O forse non è vecchio – borbottò Viarta con un sorriso.

Brennon salì abbastanza da avere una buona vista del territorio a nord. A lungo cercò tra gli alberi, nelle radure e nei terreni allo scoperto, finché lontano non vide movimento. Osservò a lungo, poi ridiscese.

– Sono a più di tre ore dietro di noi – disse raggiunti gli altri.

– Allora seguono ancora la pista – concluse Conmir.

Nessuno parlò, non ce n'era bisogno.

– Riposiamo, un'ora, poi riprendiamo la marcia – disse Brennon.

Nessuno ribatté, né per dire che dovevano ripartire subito, né per dire che un'ora non era abbastanza per recuperare le forze.

Derek cercò di dormire e non ci mise molto ad assopirsi. Era troppo stanco per arrovellarsi sulla situazione. Viarta mangiò qualche boccone di carne e frutta secca, prima di fare lo stesso. Non prima di aver lanciato uno sguardo corrucciato al ramingo.

Conmir invece non riusciva a dormire. Pensò, alla situazione, alla probabilità di non vedere l'alba, pensò a Marten. Pensò a come uscirne, a se valesse la pena dividersi, abbandonare i compagni, a quel ramingo così sicuro di sé che li aveva quasi fatti ammazzare, ma li aveva anche condotti in salvo. Sarebbero riusciti a far perdere le tracce agli inseguitori?

Dopo aver fatto un giro attorno, Brennon si sedette ai piedi di un vecchio olmo e si strinse nel mantello. Chiuse gli occhi e pensò alle alternative che aveva di fronte. Erano solo in quattro e provati dalla marcia degli ultimi giorni. Alle loro spalle un numero imprecisato di orchi, che viaggiavano anche di giorno, guidati da qualcuno di sveglio. Ormai mancava poco al tramonto e non potevano tenere quel ritmo per tutta la notte. Davanti a loro boschi e colline, ma con poche possibilità di sviare gli inseguitori se avevano segugi al seguito.

Se si spostavano verso le montagne avrebbero trovato terreni più impervi su cui era più facile far perdere le proprie tracce, ma su cui sarebbero stati anche più esposti. Le vecchie rovine erano troppo lontane e così i colli parlanti, più a ovest. Forse avrebbe dovuto condurli alla valletta buia e tentare il tutto per tutto. Con il probabile risultato di condurre tutti a una morte orribile. Avrebbero fatto del loro meglio, ma non avevano maghi, anelli magici o aquile giganti, solo l'intelligenza, l'acciaio e il coraggio.

Dopo un'ora ripresero la marcia di buona lena e ben presto le ombre si allungarono tra gli alberi. Un poco alla volta la notte distese il suo manto sui colori del giorno e con essa giunse il vento. Nonostante il buio Brennon li guidò con sicurezza prima verso est poi a sud, attraverso terreni impervi che non vedevano spesso le impronte degli uomini. Le ore scivolarono lente fin quasi alla mezzanotte. Si fermarono un'ultima volta ai piedi di un ripido pendio che dava ad ovest.

– Ci fermiamo solo il necessario – disse Brennon con voce stanca.

Gli altri si lasciarono cadere esausti. Il peso della marcia forzata e l'insonnia erano come pietre nella sacca. Nessuno aprì bocca. Bevvero a lungo, qualcuno strappò un ultimo morso di carne e pane raffermo. Brennon li guardò e comprese che avevano bisogno di una luce. Con la brace che portava accese un piccolo fuoco in una piega del terreno tra le radici di una vecchia quercia.

Il ramingo si ripeté che mancava poco, che erano quasi arrivati all'unico luogo della zona in cui potevano nascondersi e se necessario difendersi fino all'ultimo. Sospirò e chiuse gli occhi. La cosa che gli pesava di più non era la stanchezza e neppure l'insonnia, ma l'idea di deludere quegli uomini, che erano venuti da lontano ad aiutare la sua gente.

Improvvisamente qualcosa lo disturbò, una sensazione, un movimento, un rumore nel vento. La sua mano saettò spontaneamente all'elsa della spada e il suo gesto fu notato. Gli altri saltarono in piedi, chi impugnando l'arco, chi la spada.

– Fermi – disse Brennon a bassa voce.

Un'ombra si annunciò tra gli alberi, facendo sentire i suoi passi e mostrando il suo profilo alla fievole luce. Non era un orco, ma una figura alta e snella. E nonostante il buio, Brennon riconobbe il comportamento cortese e cauto di un elfo che si annunciava a un gruppo di umani nervosi. La figura si avvicinò con calma, fino a mostrarsi alla poca luce e li salutò.

– Buonasera a voi, viandanti – disse l'elfa con voce gentile e musicale, nella loro lingua.

Portava vesti maschili, verdi e marroni, arco e zaino, ma nessuna spada. Non si scorgeva molto del suo viso, ma tutti pensarono che fosse bella e strana, eppure quello che li colpì fu la voce, calda e ricca, dal marcato accento.

– Buonasera, mia signora – rispose Brennon, seguito a ruota dagli altri, chi impacciato, chi disinvolto. Lui conosceva quella voce, una voce che aveva ascoltato cantare nelle sale di Gran Burrone diversi anni prima, ma che non avrebbe potuto dimenticare.

– Noi ci conosciamo, figlio di Beriand – aggiunse l'elfa, – anche se sono passati diversi anni dal nostro ultimo incontro.

– Mi ricordo di lei, signora Leithianel, e sono grato di rivederla. Siamo tutti in debito con lei.

– Scusate, ma la necessità del momento mi costringe a essere scortese. Giungo con cattive notizie. Precedo gli orchi di poche miglia – disse indurendo il tono delle sue parole.

– Lo sappiamo. Non siamo riusciti a far perdere le nostre tracce – ammise Brennon.

– Portano segugi difficili da ingannare. Non conosco i vostri piani, ma se avete fiducia in me vi mostrerò come fare. Ma dobbiamo andare ora, correre e sperare che la pioggia giunga prima di presto.

Nuvole correvano da est e il buio era sempre più fitto.

Per qualche istante Brennon ragionò che non conosceva l'elfa, l'aveva ascoltata cantare e ci aveva parlato in qualche occasione. Allora l'aveva trovata bella, distante e inquietante, come altri degli elfi di Gran Burrone. D'altra parte solo lei poteva averli salvati la notte precedente. Nonostante questo esitò prima di mettere le loro vite nelle sue mani.

– Lei ci ha già salvati, la notte scorsa. Siamo onorati del suo aiuto.

– Allora seguitemi. Siate saldi e statemi vicino – disse l'elfa volgendosi verso ovest.

E iniziò una corsa come non ne avevano vissuto un'altra prima. Corsero sulle orme di lei, che sembrava volare sull'erba e vedere nel buio come fosse giorno, mentre il vento cantava a voce sempre più alta tra le fronde degli alberi. Corsero con le gambe dolenti e i polmoni in fiamme, corsero nonostante il peso dei giorni precedenti. Brennon rimase indietro e chiuse la fila. Più volte i suoi compagni scivolarono e inciamparono, più volte li sostenne o aiutò a rialzarsi, ma anche lui era oramai arrivato in fondo.

Quando sembrò loro di non poter fare di più, l'elfa li incitò: – Ancora uno sforzo! Là, dobbiamo raggiungere quella collina.

Nel buio sempre più fitto non vedevano nessuna collina, ma continuarono a seguirla su un lieve pendio. E improvvisamente qualcosa cambiò attorno a loro, ma solo Brennon se ne accorse. Era una sensazione familiare, che aveva già provato a Gran Burrone e in altri luoghi abitati o abbandonati dagli elfi.

E finalmente la loro guida si fermò sotto uno dei grandi alberi. Guardava in alto, come cercando qualcosa.

– Molto tempo è passato – la sentì mormorare Brennon, in sindarin. Poi l'elfa si volse.

– Sono dietro di noi. Dobbiamo salire, in fretta e in silenzio – disse l'elfa a bassa voce.

– Aiutami – disse a Brennon e questi si accovacciò, giunse le mani sotto lo stivale di lei e spinse con tutta la forza che gli era rimasta. E con sorpresa la trovò molto più leggera di quanto credesse. L'elfa saltò verso i primi rami, e con agilità sorprendente salì sparendo nel buio.

Dietro di loro giunsero i primi vaghi rumori di passi pesanti, delle armi e dell'ansimare degli inseguitori. E la paura colse il cuore degli uomini e per un lungo momento desiderarono fuggire nel buio, poi qualcosa cadde tra di loro, due funi sottili che non esitarono ad afferrare per salire tra le fronde dell'albero.

Spesero le ultime forze delle braccia per salire in alto, aiutandosi l'un l'altro. Finché con loro sorpresa non raggiunsero una piattaforma tra i rami. Si accasciarono stremati, cercando di trattenere il respiro affannato per non fare rumore. Brennon recuperò le corde, poi cercò l'elfa e la trovò rivolta al tronco, con le mani appoggiate alla corteccia a cantare con voce sommessa, appena udibile. Non era sindarin, ma una lingua diversa, più musicale.

Brennon non si chiese perché cantasse, perché ne sentiva l'effetto, come un tremito nell'albero intorno a loro, come un sospiro perso nel vento. E quasi a risposta il cielo scuro sopra di loro liberò la pioggia che portava da lontano. Alla timida acquerugiola, seguì uno scroscio che si trasformò in un acquazzone. La piattaforma era coperta dalle fronde, ma la pioggia e il vento costrinsero tutti ad avvolgersi nei mantelli.

Brennon cercò di capire cosa stava accadendo più sotto. Gli inseguitori arrivarono e passarono. Non riuscì a contare quanti fossero e si stupì che non si fermassero sotto l'albero. Invece sfilarono e si fermarono più oltre, almeno cinquanta passi. Si alzarono grida e gli orchi si dispersero attorno, tra gli alberi.

– Non temete, ma fate piano – disse l'elfa scivolando tra loro. La voce appena udibile nel frastuono della pioggia. Si volsero tutti verso di lei, che si sedette e con un gesto li invitò a sedere in circolo con lei. Appoggiò il piccolo zaino davanti a lei, lo aprì e distribuì del cibo, elfico. Pane dolce, denso e ricco. Pochi bocconi e si sentirono sazi.

– Nonostante i segugi, hanno perso la nostra traccia. La pioggia coprirà il nostro piccolo inganno e li dissuaderà dall'appiccare incendi – aggiunse l'elfa.

Brennon estrasse una piccola fiasca che fece girare prima di berne un sorso lui stesso. Anche Leithaniel l'assaggiò dopo averlo annusato.

– Come hai fatto? – chiese Viarta.

– Questi alberi hanno molti anni, sono una memoria di quello che l'Eregion era un tempo. Gli alberi non amano gli orchi e gli orchi non amano questo luogo. Presto si convinceranno che siete andati altrove e se ne andranno.

E così fu.

  
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