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Autore: Lechatvert    07/06/2015    2 recensioni
Dicono che delle persone si serbino, in genere, tre ricordi.
Di lei, da qualche parte nella mia mente, ne conservo soltanto due, entrambi popolati da quella paura che fa tremare le gambe, quel terrore del buio che fa piangere i bambini quando si soffia sulla candela per spegnerla.

Cominciarono a chiamarla طّ, Qitt, Gatto.
Ma si sa, quando i gatti muoiono, muoiono soli e lontani dal mondo.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad, Altro personaggio, Malik Al-Sayf, Nuovo personaggio, Sef Ibn-La'Ahad
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dove cresce l'erba gatta

Ventisettesimo – onore
(https://www.youtube.com/watch?v=pEFxfVyz4Uc)





Sei mesi più tardi, ero stato abbandonato sia dalla salute che dalla vista.
Cominciavo a non essere più in grado di distinguere le forme lontane e nelle ultime tre settimane ero stato incapace di alzarmi da terra a causa della febbre, ma per qualche strana ragione sapevo che non era ancora giunto il momento di porre fine alla mia esistenza. C’era qualcosa nell’aria che annunciava l’arrivo di qualcosa che dovevo aspettare; l’inverno imminente, pensavo, mentre invece era tutt’altro che una stagione ciò che sarebbe giunto a breve.
Pensavo a Muezza¹, quando il vento della sera giunse a destarmi dalle mie storie.
Davanti alle sbarre della mia cella, Qitt mi fissava con gli occhi verdissimi grandi quanto due piattini da tè.
Dalla sua espressione, dedussi quanto sei mesi di galera avessero deteriorato ciò che rimaneva di me.
Non ebbi neanche la forza di alzarmi per andare da lei, e mi trascinai debolmente fino alle sbarre, sospirando di dolore ogni volta che i miei movimenti affaticavano troppo il mio corpo malato.
« Alla buonora », sussurrai, poggiando il capo sul ferro freddo e voltandomi a guardarla.
Lei si morse un labbro.
Aveva i capelli sporchi appiccicati sulla fronte, la casacca bianca sporca di terra, il viso incrostato di fango. Chissà da quanti giorni era in viaggio e da quanti era appostata fuori dalla fortezza ad aspettare il momento giusto per infiltrarsi senza essere vista. O forse era tornata con i fratelli di Imaad a guidare una rivoluzione, magari con Altaïr e Darim a capo di un esercito intero. Forse c’era stata una battaglia, fuori dalla fortezza, e lei era arrivata ad annunciarmene la fine.
Sentii che la mia mente stava vaneggiando, perciò rivolsi a Qitt un’occhiata dubbiosa, chiedendomi se quella era effettivamente una persona in carne e ossa o piuttosto il frutto di un mio delirio.
« Chi ti manda? », chiesi in un soffio. « Altaïr? »
Lei scosse il capo. Si inginocchiò goffamente accanto a me e alzò la manica della tunica, mostrandomi il polso senza il rumore di un respiro.
Capii immediatamente.
« Dunque non c’è più speranza, eh? »
Sulla sua mano destra, la lama celata di Sef era cupa come la firma di una condanna.
Doveva averla ricevuta da Anbar, visto che l’ultima volta che avevo visto quell’arma era tra le sue mani, e ciò significava che non era stato possibile contattare né Darim né tantomeno Altaïr. Senza un capo, neanche Gerusalemme si sarebbe mossa in soccorso dei suoi confratelli.
Il Credo moriva quel giorno, o almeno così pensavo.
Qitt era venuta ad annunciarmi la fine ed era stato un suicidio bello e buono, visto che difficilmente sarebbe riuscita a uscire dalla torre senza essere localizzata. E allora qualcuno l’avrebbe catturata – se non addirittura uccisa direttamente –, l’avrebbe portata davanti a un consiglio fittizio e l’avrebbe condannata a morte. Come me, avrebbe speso i suoi anni al buio tra la paglia marcia e il fetore delle celle, visto che nessun uomo avrebbe mai avuto il coraggio di giustiziare una donna.
Venirmi a trovare era stato l’atto più sconsiderato che le avessi mai visto fare.
Qitt mi dimostrò tutto il contrario.
Dopo un istante passato nel più completo silenzio, prese ad allentare lentamente i baveri della sua casacca, aprendola quasi completamente sulla veste marrone che indossava sotto.
Forse, per arrivare fin lì, si era finta una contadina o una massaia. Non mi importò più nel momento in cui capii che quello spogliarsi serviva a mostrarmi ciò per cui realmente aveva rischiato la vita: un fagotto di coperte scure tanto strette da somigliare a una palla, che però si muoveva piano al ritmo di un respiro leggero e inudibile.
Strabuzzai gli occhi, incredulo.
Qitt mi aveva portato mio figlio.
Glielo lessi in faccia quando si allungò verso di me per invitarmi a farmi più vicino, e ne fui totalmente certo quando tra quelle coperte scorsi il minuscolo e sonnolento viso di un bambino addormentato.
Per un istante, la consapevolezza di essere davanti a mio figlio si mischiò con le emozioni che avevo provato la prima volta che mi avevano mostrato Darim e Sef.
« Dove l’hai trovato? », sussurrai, spiazzato.
All’inizio, non provai neanche a toccarlo.
Qitt roteò gli occhi, stringendosi ancora di più contro le sbarre e obbligandomi praticamente a sfiorare il corpo del bambino con il braccio. Mi guardò come se fosse ovvio dove l’aveva trovato, e con una singola occhiata sottolineò che non c’erano poi molti posti dove i neonati venivano tenuti durante il giorno.
Improvvisamente, mi fu chiaro il perché si trovasse a Masyaf, e compresi che io non avevo niente a che fare con il motivo che l’aveva spinta a cavalcare fino a là da Gerusalemme. Era per il bambino, non per me, che si era infiltrata nella fortezza.
« Sei venuta a salvarlo », mormorai, allora, allungando il braccio per accarezzare dolcemente le guance di mio figlio. « Lo vuoi portare via ».
Qitt annuì, abbozzando un sorriso.
Pensai che dopotutto non esisteva madre al mondo in grado di lasciare un bambino a morire, anche se non suo.
« Grazie », dissi sottovoce, mentre il bambino si crogiolava nel sonno e strusciava la pelle rosea contro il mio dito scheletrico e tremante. « Sarai un genitore molto più capace di me, senza dubbio ».
Incontrai di nuovo il suo sguardo, stavolta volontariamente.
Rafiq’.
Qitt si accigliò, indicando il bambino con un lentissimo cenno del capo.
Non ha un nome’.
 Lo ricordai in quell’istante: non avevo mai dato un nome a mio figlio.
Con la mente sgombra più a causa della febbre che dell’emozione, tentai di appigliarmi a qualunque ricordo mi potesse suggerire un nome degno per una creatura che era appena stata rubata alla sua madre naturale per essere affidata a una madre migliore. Una creatura che non avrebbe mai conosciuto suo padre, e che probabilmente non avrebbe mai saputo delle sue origini. Una creatura che non avrebbe potuto seguire il Credo che tutti i suoi antenati avevano abbracciato, ma che avrebbe dovuto ugualmente rispettarne i canoni.
« Tazim », sussurrai, annuendo appena. « Come l’onore² ».   
Tra le braccia di Qitt, il bambino si stiracchiò, mettendosi più comodo tra le coperte e continuando beatamente il suo sonno da dove l’aveva interrotto per sistemarsi.
Mentalmente, mi congratulai con me stesso: non avrei effettivamente potuto scegliere un nome migliore. Mi ricordai troppo tardi che un tempo avevo pensato di chiamarlo Kadar come il mio defunto e amato fratello, ma in quell’istante ero così vicino alla fine da non voler condannare un altro essere umano a vivere con il fardello del passato a gravargli sulle spalle.
Debolmente, arrancai di nuovo fino alla mia abituale postazione sotto al lucernario: avevo un libro, nella mia prigione. Un solo testo di poco più di duecento pagine che negli ultimi sei mesi avevo studiato a memoria e che era divenuto così esasperante da essere stato lanciato contro il muro di pietra ben più di qualche volta. Conoscevo i capitoli talmente bene che azzeccai subito la pagina a cui lo volevo aprire.
La scritta era lì, proprio nella prima frase. شرف. Onore. La strappai senza pensarci due volte e tornai da Qitt, porgendogliela come se fosse il mio ultimo tesoro.
« Onore », dissi.
Onore’, ripeterono i suoi occhi verdi.
Prese la parola dalle mie mani e la adagiò dolcemente tra le coperte dove dormiva Tazim, incastrandola proprio tra le sue dita.
Nonostante tutto, sapevo che era stata una buona madre, e confidavo che lo sarebbe stata di nuovo.
Le sorrisi, stringendomi a mia volta alle sbarre della cella per farmi più vicino a lei. Troppo concreto per immaginare che quella non era il nostro ultimo incontro, provai comunque a lasciare quella certezza nel buio, riempiendomi la testa con l’immagine di Qitt inginocchiata sulla pietra davanti a me, preoccupata per Tazim che era stato portato al freddo con la sola grazia di qualche coperta a tenerlo al caldo.
Non era qualcosa che avrei mai pensato di vedere, ma fu una vista che apprezzai infinitamente.
Finì subito.
Una freccia passò sotto il naso di Qitt e si conficcò in un catasto di legna poco distante del corridoio, mentre il rumore di una spada sfoderata si diffuse nell’aria come l’incenso in una camera da letto.
Come Qitt scattò in piedi, Tazim iniziò a piangere.
« Non farti prendere », dissi io, alzandomi in piedi con la febbre e la fame che improvvisamente erano sparite senza lasciar traccia. Guardai Qitt e scossi il capo, mentre lei sgranava gli occhi su di me e si affrettava a richiudersi la casacca. « Se lascerai che ti prendano, ti tortureranno fino a che il tuo corpo avrà vita ».
Lei scosse il capo, facendo scattare la lama celata. Fu repentina nel suo movimento, voltandosi soltanto quando la guardia fu così vicina da provare a trafiggerla. Lei gli affondò la lama nel collo, facendo schizzare il sangue da una parte all’altra della cella.
Dal piano di sotto, si udirono altre voci.
« Vai », la esortai io, indicandole una finestra in fondo al corridoio. « E sii forte ».
Lei annuì.
Anche tu’.
Si tirò il cappuccio sul capo, e in istante ai miei occhi tornò la ragazzina che faceva avanti e indietro dalla mia Dimora a Gerusalemme con qualche arto rotto o con il naso schiacciato da un pugno.
« Sii forte », ripetei, ma lei fu così lesta a sparire all’esterno che non sono sicuro fece in tempo a udire le mie parole.
Ben presto, l’unico odore che riuscii a sentire fu quello del sangue. L’unico rumore, tutto attorno a me, erano i passi pesanti e frettolosi dell’intera fortezza che si metteva a dare la caccia all’intruso.
Tornando al mio posto e aprendo il mio libro, non potei fare a meno di sorridere: gli Assassini non erano capaci di rincorrere i gatti.







__________________________

Note d'autore
Dunque.
Il mio ultimo aggiornamento a questa storia risale al lontano marzo 2014, quindi più di un anno fa. Non so che dire. Mi sono sentita sfiancata dal giorno alla notte, e ho piantato lì un capitolo già iniziato per dedicarmi ad altro. L'altro giorno la voglia è tornata, ed eccomi qua.
Non ho davvero scusanti, però questa è una storia che tenevo a concludere e, con un po' di ispirazione, mi sono obbligata a dedicarci un pomeriggio e a portarla a termine ★
Questo è l'ultimo capitolo. La settimana prossima, senza aspettare un altro anno (:P) posterò anche l'epilogo, già pronto da tempo immemore, che concluderà l'intera faccenda. Posticipo ad allora i ringraziamenti sentitissimi a tutte le persone che mi hanno accompagnata in questa epopea ❤

E niente, non ho davvero altro da aggiungere.
Sto gongolando tantissimo per essere riuscita a mostrare di nuovo la mia brutta faccia in questo fandom, eheheh. 

Alla settimana prossima (stavolta davvero!),

Lechatvert



[1] Muezza, nella tradizione islamica, è il gatto di Maometto che lo salvò dal morso di un serpente velenoso;
[2] Onore (شرف) è il significato arabo attribuito al nome Tazim;



   
 
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