PROLOGO
Il Gran Maestro del Caos rideva soddisfatto.
Sghignazzava da ore, chiuso negli androni del Santuario delle Origini,
in sotterranei così lugubri e oscuri che neppure Erebo e Nyx
amavano frequentare, preferendo lasciarlo ai suoi deliri solitari.
Dopo aver saputo che Caos aveva ucciso Avalon,
distruggendo al tempo stesso l’Isola Sacra e colpendo il cuore di quella
ridicola alleanza di uomini e Dei minori, era scoppiato a ridere, in maniera
martellante e fastidiosa, crogiolandosi in quello che gli era parso il suo
trionfo, la sua personalissima vittoria, sebbene al riguardo non avesse merito
alcuno, come Erebo non aveva perso occasione di fargli notare.
“Hai trascorso quanti anni, secoli dovrei dire, su questa Terra,
nascondendoti dietro molteplici identità, e quali risultati hai ottenuto?” –Gli
aveva rinfacciato. Ma Anhar non l’aveva neppure udito, sopraffatto dal rumore
delle sue stesse risa, che rimbombavano cupe attraverso la bizzarra armatura
che rivestiva il suo spirito oscuro.
“Morto! Avalon sei morto infine! I tuoi
progetti falliti, la tua attesa vanificata, la tela che con alacrità hai
tessuto adesso si disferà! Ah ah ah!
Oh quanto godo! Grazie, mio Signore, grazie per questo momento di goduria
sfrenata!”
Erebo aveva rinunciato a fargli capire alcunché, non provando alcun
interesse nei suoi confronti. Era una pedina in fondo, proprio come lui, in una
scacchiera che ormai era pronta.
E Caos ha appena mangiato il re
avversario! Commentò il
Tenebroso, in piedi sul bastione più alto di quella roccaforte oscura, che si
stagliava vivida al centro di un deserto di desolazione. Un deserto che si
sarebbe presto espanso. Sogghignò, dietro la maschera terribile che gli copriva
il volto, percependo l’infinita potenza del creatore di mondi fuoriuscire dalle
mura del Primo Santuario e riversarsi, simile a un fiume di tenebra, nelle
lande attorno, fino a saturarle della sua mortifera oscurità.
Quella che fino ad allora era parsa come una concentrazione di nubi
nere, forse portatrici di qualche tempesta, adesso, anche agli occhi degli
uomini comuni, si rivelò per quel che era davvero. L’ombra della fine del
mondo. L’ultimo cielo che i viventi avrebbero visto prima di sprofondare nel
vuoto atemporale.
Ovunque, nel continente asiatico, la gente tremò, travolta da un gelo
improvviso, che nessun inverno aveva mai portato. Un gelo che pareva insinuarsi
nelle loro vene, spegnendo ogni alito di vita, confinandoli nella paura di un
giorno che non sarebbe mai sorto e condannandoli a un’eterna notte.
Le Nazioni Unite inviarono una task force a verificare quel che stava
accadendo nel cuore del deserto del Gobi, laddove i satelliti non riuscivano a
penetrare, al di là di quella cortina d’ombra che i vari Stati della Terra
iniziarono ad accusarsi di aver generato. Ne vennero additate varie cause,
dall’inquinamento agli esperimenti nucleari, ma la verità non fu mai scoperta,
e nessuno dei Caschi Blu fece ritorno, né gli aerei inviati in ricognizione, e
presto ogni governo ebbe altro di cui occuparsi. Gestire il malcontento
interno, la diffusione del panico, le improvvise insurrezioni di una
popolazione che pareva aver perso ogni fiducia nel futuro, stimolata e sospinta
da millantatori e profeti che annunciavano la fine del mondo.
Che sia davvero così? Si chiese la Dottoressa Hasegawa,
osservando il cielo nero dai finestrini di un taxi in corsa. Dopo essere stata
scortata alla sua base in India dai soldati di Horus,
aveva ricevuto una chiamata da un collega giapponese, un certo Professor Rigel, che la invitava ad allontanarsi quanto prima dal
subcontinente, mettendole a disposizione un jet privato che la attendeva
all’aeroporto di Bombay.
La studiosa sarebbe voluta rimanere ad aiutare la popolazione in
difficoltà, per offrire il proprio aiuto a uomini che non sapevano più in cosa
o in chi credere. Ma l’ansia della fine di tutto e le accorate parole di Rigel la spinsero a lasciarsi tutto alle spalle e a correre
a perdifiato attraverso le hall del Chhatrapati Shivaji International Airport.
Arrivò giusto in tempo, mentre l’aereo con le insegne della Fondazione Thule
scaldava i motori in pista, pronto per decollare e mettere quante più miglia
possibile tra loro e quell’immensa nube nera, sebbene molti temessero che fosse
pura utopia.
A bordo, dopo essere stata fatta accomodare
da Robert Brunch, il distinto assistente di volo, la Dottoressa trovò un
giovane sui trent’anni, che indossava un giubbotto di pelle e un paio di
occhiali scuri, per nascondere lo sguardo stanco dovuto alle ultime notti
insonni, e altri quattro occupanti. Due ragazzi rivestiti di quelle che alla
donna parvero bizzarre armature metalliche, simili al design dei robot dei
fumetti, ridevano tra loro, complimentandosi per la celerità con cui avevano
portato a termine la missione, davanti a due fanciulle dallo sguardo smarrito.
Mora la prima, con deliziosi occhi a mandorla, sedeva composta con le mani
giunte, quasi stesse mormorando una preghiera, per sé o per qualcuno che aveva
caro. Castana la seconda, con un’espressione indecifrabile sul volto. Tristezza, certo, si disse la studiosa, ma anche speranza. In cosa non seppe
dirselo, poté solo ascoltare il giovane seduto di fronte a lei, che si toglieva
gli occhiali e si presentava.
“Il mio nome è Cliff O’Kents,
incaricato dalla Dea Atena di una missione di salvataggio e lei, Dottoressa Hasegawa, era l’ultima persona da recuperare. Adesso
possiamo andare!”
“Andare dove?!” –Chiese la donna, non
comprendendo le parole del ragazzo.
“In un luogo sicuro.” –Si limitò a commentare
quest’ultimo, calandosi i Rayban sugli occhi. –“Se mai un posto possa dirsi tale adesso!”
La stessa domanda se la posero tutti coloro che in quel momento avevano
alzato la testa, fissando lo sterminato orizzonte oscuro.
Se la posero Elena, Elisa e Olga, mentre camminavano nelle vie dello shopping
di Nuova Luxor, pensando ai souvenir che avrebbero riportato agli amici in
Italia.
Se la pose Lamia, uscendo fuori nel cortile dell’orfanotrofio Saint
Charles, sistemandosi il grembiule sporco di sugo, e chiamando i bambini a gran
voce.
Se la posero Sancho e Smarty, e tutti i loro
amichetti, chiudendosi attorno alla ragazza dai simpatici codini, in cerca di
parole di conforto.
Sospirando, e cercando di infondere loro quella sicurezza che solo una
madre avrebbe potuto offrire ai figli, Lamia li cullò, mentre Daisy andava a
sedersi poco distante, accennando un sorriso. Timido e preoccupato.
Ricordavano entrambe le parole di quel giovane dal giubbotto di pelle,
al servizio della Fondazione Thule, che le aveva invitate a seguirlo, affinché
fossero protette, come era desiderio di Atena e dei suoi Cavalieri. Ma Lamia
aveva insistito di voler rimanere, e Daisy era rimasta con lei.
“Questa è la mia casa! Qua, accanto ai miei fratellini!” –E l’aveva
ringraziato, incitandolo ad andare, a portare in salvo la ragazza che Pegasus
aveva tanto cercato.
“Non abbiamo niente da temere!” –Ripeté adesso, carezzando le chiome
arruffate dei bambini. –“Pegasus ci salverà! Lui lo ha
sempre fatto! Abbiate fede!” –Aggiunse, carezzando la croce che portava attorno
al collo e levando lo sguardo al cielo tetro.
Pegasus, salvaci! Salvaci
tutti!