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Autore: Bolide Everdeen    21/06/2015    3 recensioni
[Storia ispirata alla fan fiction interattiva "500".
Milton Marvin, distretto 7.]
Da un lato, era stato lui un mostro, nel lasciare gli altri morire. Dall'altro, loro l'avevano abbandonato. Ma erano le regole, e le regole lo condannavano alla solitudine. Lo condannavano ad incrociare gli sguardi degli altri ed avere ventiquattro voci con cui giudicarli, e la sua era la più debole del coro. Forse era quello il motivo per cui detestava i sogni che replicavano le morti degli altri. L'agglomerato di particelle di quelle persone penetrato in lui scalciava con la disperazione più totale, e lui quasi rimpiangeva di aver permesso loro di entrare al suo interno.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri tributi, Vincitori Edizioni Passate
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '500 - Behind the scenes'
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Mad world

Erano esistite milioni di serate come quella, seduto in una stanza di albergo di Capitol City, a rimuginare su tutto quello che era accaduto, sul perché. Milton Marvin, vincitore dei giochi del 500. Era quasi una frase insensata; non la comprendeva. Quasi gli pareva ironica. Sorrideva, ma questo stato si protraeva solo per qualche secondo, che aveva qualche riflesso della più cupa malinconia.

Cercava il motivo della sua melancolia nelle stelle. Ma non lo trovava in nessuno di vivente. Non gli mancava nulla, nessuno. Non c'era nessun essere il cui cuore palpitava con la sua stessa oscura lentezza, e si era accorto di poterne trovare di rari quando era tornato a casa.

All around me are familiar faces
worn out places
worn out faces.

Gli avevano accarezzato la testa, l'avevano abbracciato, adorato per aver mantenuto la più banale delle promesse; la più tagliente. La sua famiglia era lì, disposta nei suoi confronti. E lui si era sentito quasi umiliato, tradito dalle persone che l'avevano cresciuto. Che senso aveva, d'altronde? Dopo tutte quelle gocce di sangue, quei volti scavati dalla fame, quelle mani tremolanti nella febbre... Abbracciarlo. Fingere che si trattasse delle migliori delle conclusioni, del destino che cortesemente offriva un finale splendente. Ma non lo era. Loro non avevano conosciuto coloro che lui aveva perso.

Il tempo in cui il distretto 7 e la sua famiglia erano la sua modesta felicità stava dissipandosi come il mondo agli occhi di qualcuno che viene irrimediabilmente spinto verso la cecità. Era vuoto, antico, vecchio. Ogni oggetto un ricordo. Ma sempre con un valore meno spiccato di quelli dell'arena.

Tre mesi trascorsero così, rassicurando la propria famiglia con sorrisi il più possibile sinceri, rivelando che tutto andasse bene, che quella nuova casa, che quella nuova vita era la più pura delle ricchezze. E invece no.

E poi, arrivò il Tour della Vittoria.

Bright and early for their daily races,
going nowhere,
going nowhere.

E il suo compito si era funestamente protratto. Far credere che tutto fosse impiantato nel giusto verso, sollevare quelle folle con un conforto di rito. Non si sentiva solo un vincitore; quasi non si sentiva neanche un vincitore. Era colui che trascinava i raccordi dei tributi di ogni distretto, l'unico labile collegamento con loro, che assicurava lo svolgimento della loro seconda vita in paradiso. E, ovviamente, cosa doveva rivelare? Che fosse tutto splendido.

Non era così nei suoi sogni. Gli occhi rovesciati degli altri tributi, i loro logoranti pianti, le cicatrici impiantate nel loro corpo dal momento della morte... e, spesso, in quei sogni, anche lui aveva un segno. Un'ustione sulla mano, profonda, irreparabile anche dalle più moderne tecniche di riabilitazione capitoline.

Era il ricordo del palmo venuto a contatto con il suo quando aveva per la prima volta stretto la mano ad Astrid, la sua compagna di distretto. La prima assicurazione di divenire, o di essere già, un tributo, e di rimanerlo per sempre.

Come gli altri avevano tutti le loro ferite, anche lui aveva la sua.

Il punto in cui l'avevano reso vulnerabile per ucciderlo.

Their tears are filling up their glasses,
no expression,
no expression.

Hide my head, I want to drown my sorrow,
no tomorrow,
no tomorrow.

No, non c'era veramente nessun domani. C'erano le promesse di rendere quello seguente un giorno migliore, quello in cui il passato sarebbe stato dimenticato, in cui i demoni che vorticavano nel suo sangue l'avrebbero abbandonato e reso lo stesso Milton Marvin, di sedici anni, che impiastricciava i suoi capelli di brillantina ed indossava il cravattino per rimembrarsi del padre; che circoscriveva la sua vita nella sua famiglia e nei suoi amici.

Voleva ancora bene loro. Ma non gli bastava. Esisteva una spessa coltre di nebbia, i loro volti destabilizzati che non riuscivano a comprendere il motivo per il quale Milton si trasformasse ogni giorno in più in un fantasma, o meglio, nel passato di quello che era stato nel passato.

In quelle serate, negli alberghi di Capitol City, dimenticando l'esistenza di una nazione, di alcune persone che volgevano il loro viso in una sorta di smorfia languida alle sue urla notturne, con un libro davanti agli occhi e i demoni degli altri tributi sotterrati nella sua anima, Milton si stabilizzava su un altro mondo, quello di Oliver Twist, quello di David Copperfield, o di Dorian Gray. Quando però un qualsiasi simbolo del mondo, lo squillo di un telefono, l'apertura di una porta, una folata clandestina di vento, lo trascinava via dalla sua fantasia... Accadeva il contrario degli eventi comuni della sua infanzia.

Quando era piccolo, spesso gli capitava di risvegliarsi di soprassalto da degli incubi, comuni nell'innocenza, e di trovarsi protetto nella sua casetta del distretto 7.

Ora, i sogni, anche se di altri, erano il suo scudo. E, nel momento in cui si destava, si ricordava di tutto. Dei giochi. Delle perdite. Della solitudine. Dei veri sogni.

E, silenziosamente, piangeva.

And I find it kind of funny
I find it kind of sad
the dreams in which I’m dying
are the best I’ve ever had


I find it hard to tell you
I find it hard to take
when people run in circles
it’s a very very
mad world.

 

Era tutto così etereo, strano, estraneo al suo tocco. Anche le azioni più comuni della sua vita avrebbero necessitato di tempo per rendersi naturali, per non richiamare una qualunque persona che era scappata in quell'arena.

Da un lato, era stato lui un mostro, nel lasciare gli altri morire. Dall'altro, loro l'avevano abbandonato. Ma erano le regole, e le regole lo condannavano alla solitudine. Lo condannavano ad incrociare gli sguardi degli altri ed avere ventiquattro voci con cui giudicarli, e la sua era la più debole del coro. Forse era quello il motivo per cui detestava i sogni che replicavano le morti degli altri. L'agglomerato di particelle di quelle persone penetrato in lui scalciava con la disperazione più totale, e lui quasi rimpiangeva di aver permesso loro di entrare al suo interno. Però, sarebbe stata una scortesia fare altrimenti.

Ventiquattro voci che commentavano un'occhiata. Occhiate di gente che andava al lavoro, che si rilassava per una fugace vacanza, che si rilassava per tutta la vita; che l'obbligava, che fingeva penosamente di comprenderlo; e le peggiori erano sempre quelle inquisitorie, quelle le quali scavavano nell'animo con la determinazione a rubarglielo. Comuni ai giornalisti di Capitol City.

D'altronde, Milton non era precisamente solo, con tutti quei pensieri di matrice differenti imponenti la propria compagnia. Però, non riusciva ad essere libero. Ma gli altri? Gli altri... non riusciva a sfiorare le loro possibili riflessioni. Quella gente si alzava, mangiava se si trattava di fortunati ricchi, digiunava se si trattava dei più umili cittadini dei distretti, e si dedicava alle loro fumogene occupazioni. E quelle occupazioni, per un certo senso, erano niente. Loro, con la loro pace interna, si potevano permettere di volare nella loro vita quotidiana. Eppure, rimanevano alla loro terra.

Lui era oppresso dall'enorme società davanti ai suoi occhi e da quella minuscola al suo interno.

Avrebbe voluto urlare. Ma non era corretto.

Children waiting for the day they feel good,
happy birthday,
happy birthday

Made to feel the way that every child should,
sit down and listen,
sit down and listen.

Ogni giorno ricominciava. Ogni giorno era una sorta di condanna, era una ricerca di obiettivi, era la decisione di scacciare tutti quei fastidiosi inquilini della sua coscienza. Decisione sicuramente vana. E lo faceva stupire dei comportamenti degli estranei, sempre così rigorosi, sempre a porre la speranza nel futuro. Lui non riusciva neanche ad avvertire che cosa fosse, il futuro. Svegliarsi ancora e ricordarsi di dover reprimere chissà quante sensazioni?

Forse, in un vago orizzonte, avrebbe potuto rivelare se stesso. Ma lo trovava così improbabile. Con tutto il monopolio offerto da Capitol City, sarebbe stato inutile tentare di sperare di coniugare la sua voce con le testimonianze degli altri tributi. No, sarebbe stata un'altra amara delusione anche per tutta quella folla al suo interno, che lui a malapena riusciva a sedare.

A volte si era chiesto come mai loro albergassero nella sua mente.

E, quando si era risposto, un boato simile ad un conato di vomito lo aggredì con violenza.

Anche loro speravano nel futuro.

Avrebbe dovuto trovare subito qualcuno con cui realizzare i loro desideri.

Went to school and I was very nervous,
no one knew me,
no one knew me.

Hello teacher, tell me what’s my lesson,
look right through me,
look right through me.

 

Ed allora si era rivolto al suo vicino di casa, il suo mentore, Wender, per eludere quel disagio di isolamento che aveva nel popolare tutti i giorni le strade. D'altronde, anche lui era un vincitore, magari anche qualcun altro dimorava in lui con la stessa insistenza degli altri.

Lentamente, ogni considerazione era spuntata. Ogni minuscola caratteristica, invisibili geni appartenenti a qualcuno erano finiti nelle orecchie di Wender, e anche ogni minuscolo rimorso di Wender si era gettato in quel polveroso salotto dove lui dimorava. Aveva compiuto una scelta più malinconica, più sincera e coraggiosa di quella di Milton: aveva deciso di rimanere solo, di non ostentare una sottospecie di soddisfazione fittizia che lo stesso Milton rivolgeva sempre ai suoi parenti.

Quando loro parlavano, quarantotto persone si riversavano in quel luogo angusto, si soffocavano grazie a due voci.

Avevano compreso un parziale metodo per permettere ai loro demoni di sfogarsi. E lo consigliarono agli altri colleghi che popolavano il Villaggio di Vincitori come assenti e volatili fantasmi. Sembrava quasi che sarebbero potuti sparire da un momento all'altro, se Milton e Wender non avessero acquistato l'iniziativa di parlare con loro, del distretto 7 ed estranei. E le voci diventarono settantadue, novantasei, infinite in un minuscolo salotto.

Nel futuro, arrivò il turno di Milton nel rassicurare le eventuali voci di altri ragazzi che l'avrebbero seguito. Quasi aveva la voglia di consigliare loro di raggiungere il cielo di quell'arena, di desistere di quella vita che mai più sarebbe tornata la loro. Ma come si potevano distruggere i sogni in quel modo?

Forse, la speranza stava iniziando a contagiare anche le sue membra, mentre circolare nelle strade di Panem diveniva quasi normale.

Non riusciva comunque a capire. Ma la sua mente aveva acquistato più territorio.

Significava che gli altri spiriti iniziavano a pacarsi, a non avere bisogno di gridare per sfogarsi.

 

And I find it kind of funny
I find it kind of sad
the dreams in which I’m dying
are the best I’ve ever had


 

I find it hard to tell you
I find it hard to take
when people run in circles
it’s a very very
mad world.

 

Sì, gli altri continuavano ad essere estranei. E le voci continuavano a vorticare.

Ma, dalla sua posizione di estraneo, aveva iniziato a divertirsi quasi nello squadrare tutti quegli sconosciuti, i manichini di pensieri inimmaginabili perché stranieri.

Si sarebbe adeguato a cercare di spiegare anche ad essi, forse, un giorno. Li avrebbe lasciati perdere. Ognuno aveva la sua vita e, gettandosi in quella di qualcun altro, li avrebbe scandalizzati con le sue voci.

Aveva conservato la sua abitudine di piangere, ogni tanto, quando la solitudine era fisica e le voci si amplificavano.

Però, dopo, usciva da qualunque stanza buia in cui si fosse trovato e dava un'occhiata alle strade librate nella diversità, varcate da ogni sorta di persona, nessuna lontanamente simile a lui. E quelle dentro di lui si scatenavano.

E non poteva evitare di pensare, nella sua visione di persona differente, quanto fosse uno strano mondo.

 

Enlarged in your world.

Mad world.

 

Spazio autrice

Buonasera!

Allora, questa è la prima one shot ispirata alla storia interattiva “500”; la prima di ventiquattro ispirate tutte ad un personaggio della fan fiction sopracitata. Ho iniziato dal vincitore, Milton Marvin, con una song-fic ispirata alla canzone dei Tears For Fears da cui ho tratto anche il titolo. Non sono una loro fan, però mi sono sentita particolarmente influenzata da essa, senza conoscere il testo, anche solo per la sua atmosfera. Perciò, l'ho cercato e, con una punta di fantasia, l'ho adattata alla mia situazione (o meglio, a quella di Milton). Spero che il risultato non sia stato disastroso.

Se siete interessati anche alle prossime one shot, le pubblicherò sempre nella stessa serie in cui per ora è contenuta la storia originaria e questa one shot, “500 – Behind the scenes”. Ringrazio chi mi ha seguito anche nella precedente occasione e si arma di buona volontà anche per questa serie. Suppongo che procederò con un ordine totalmente casuale, dettato nel modo più puro e imprevisto dalle mie idee.

Credo di aver precisato tutto. Alla prossima (spero),

Bolide

 
  
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