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Autore: BukowskiGirl2    21/06/2015    0 recensioni
E' dalla noia, da quel sentimento angoscioso e innocente, che nasce tutto.
Marzia ha intenzione di vivere la sua vita da sola, perchè nessuno la capisce. Lei, con il suo "problema", non va proprio d'accordo. Lorenzo è italo-americano, rigido ma ingenuo. Troveranno la salvezza insieme, perdendo però di vista, la loro meta. Sogni, false ambizioni, aria di depressione, momenti invisibili di felicità, attimi infantili. Cos'ha il futuro in serbo per loro?
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Mi prese la mano delicatamente, facendo segno di alzarmi.
-Non puoi sempre stare qui, la tua permanenza non l’aiuterà a guarire.
-E dove dovrei andare? Dimmi.
Lei gesticolava molto, con le mani, con le braccia, tutto il suo corpo si muoveva per esprimere un concetto.
-Facciamo un giro. E non dirmi di no.
-E perché dovrei fidarmi di te?
-Di lei ti sei fidato.- rispose con uno sguardo molto poco raccomandabile.
-E Filippo…- tirai fuori il pacchetto delle Diana -…che tipo è? Intendo…quando ci siamo conosciuti, se così vogliamo dire, non abbiamo esattamente avuto il tempo e le circostanze pro, per parlare.
Sorrise.
-Cosa devo dirti? Tu come descriveresti Marzia? E’ difficile.
Accennai una risata nervosa: -Oh no…no, no, no. Allora è proprio di famiglia.
-Cosa?
-Questa cosa del divagare, rispondere con altre domande insostenibilmente retoriche.
-Sei proprio un poeta, Lorenzo caro.
La fermai, prendendole le spalle: -Marzia, esci da questo corpo.-
Tossì, per il fumo andatole in faccia. Frugò con la sua mano nella mia tasca, prendendo il pacchetto di sigarette.
-Te ne scrocco una?
-No, ma fai pure…
Camminammo fino ad un posto bianco e incredibilmente luminoso, un bar dal nome mistico. Qualcosa di cui ti dimentichi facilmente, insomma. Ci sedemmo in un angolo, come piaceva a me. Lei mi raccontò finalmente di Filippo, non scordando di citare il “com’era bravo a letto”. Da lì mi fu facile capire la sua età. I suoi lunghi capelli biondi facevano di lei una figura angelica, ciò che non era.
-Certe volte mi chiedo se le cose che faccio, o che dico, mettano in imbarazzo la gente che mi sta attorno.
-Tipo?
-Non lo so. Se io ti chiedessi di farmi le treccine, inevitabilmente rimarresti un po’, come dire, sorpreso. E’ una cosa stupida, intendo. Ma non lo diresti, no? Cioè, il fatto che le persone si vergognano di dire quello che veramente pensano.
La guardai stranito, attendendo che mi desse spiegazioni. Non accadde. Si guardava in giro, tenendo le mani congiunte fra le gambe.
-Aurora, ti dico io cosa penso. Penso che fino ad ora, a quanto pare, sono sempre stato chiuso dentro me stesso, o dentro un posto che non era fatto per me. E allora non ho mai visto le cose belle, non ho mai conosciuto le persone, non ho mi fatto cose per cui varrebbe la pena vivere. E sai un’altra cosa? Parlare con te, in questo modo, in questo momento, è la cosa più normale che io abbia fatto negli ultimi 3 giorni. Questa è una cosa stupida.
-Fa bene parlare di quello che abbiamo in testa, sai? A me piace parlare, mi piace tanto, ma ascoltare te sta diventando anche più appagante.
Quando non sai cosa cerchi, la risposta è il surrealismo che rompe la normalità. Quando credi che non ci sia niente, oltre quello che già c’è, hai bisogno di chiudere le orecchie per ascoltare te stesso. Non erano loro, a parlare di cose incredibilmente strane, ero io a non aver mai sentito le persone parlare. Per professione, impari a chiuderti in un guscio, per evitare di inserirti in discussioni che non ti riguardano, o finire in pasticci solo per aver espresso la tua opinione. Smettendo di ascoltare, dimentichi anche com’è avercela, una tua opinione.
Feci il gentiluomo, pagando quello che lei inizialmente voleva offrirmi. Uscimmo dal locale e le chiesi con un po’ di imbarazzo: -Aurora…tu, quanti anni hai?
-18, appena compiuti. Perché?
-E Filippo?
-Potevi dirmelo che volevi farmi la morale.
-Quanti anni ha Filippo?
-Ne ha 30.
-Bene.
-Non mi chiami “troietta”? Non mi dici che sono giovane e ingenua? Non mi ripeti dall’alto della tua maturità che dovrei pensarci a lungo?
-Mi hai preso per tuo padre, Aurora? Se dovessi dirti quelle cose, non uscirei nemmeno con te, sappilo.
Mi prese il braccio ridacchiando, io scossi la testa alzando gli occhi al cielo. Ora il mio dubbio era nei confronti di Filippo, che mi era sembrato una persona molto matura e diligente. Ma chi ero io, per criticare?
Tornammo in ospedale, io avevo una certa fretta di vedere le condizioni di Marzia. Era molto raro che facessero entrare qualcuno che non aveva nessun legame di parentela con il paziente, ma la dottoressa aveva seguito l’andamento delle cose e aveva chiaramente capito che avevo salvato la vita a Marzia e che, in un certo senso, avevo tutto il diritto di essere lì.
Nella stanza si sentivano solo i piccoli rumori delle macchine e il suo respiro affannoso, meccanizzato da un respiratore. Le presi la mano, che non era più così fredda, e guardai il suo corpo così magro e bianco. Pensai che qualcosa la dovevo pur fare, anche se quell’ambiente mi aveva sempre fatto tanta paura. Guardai Aurora, che stava in piedi con la testa appoggiata alla porta. Mi sedetti più comodo, per prendere familiarità con il posto, deciso a restare per almeno un paio d’ore. Presi un respiro e aprii la bocca, riflettendo un attimo.
-I used to live alone but I found you, so certain…- mi fermai a guardarla -...I’m yours to take…now I can’t wait…for all the mistakes we’ve yet to make…
Aurora sorrise emozionata e si avvicinò al letto. Sapevo che non avrebbe resistito alla tentazione di cantare: -…Now shake it up, baby, twist and shout…- sorrise -…we’re war-torn buildings all bombed out…Love, not unlike…
Le presi la mano e la feci volteggiare su stessa, cantando: -Won’t you come over and love me? Won’t you come over again?
 
-Quando potrò parlarle veramente?- chiesi alla dottoressa.
-Può parlarle sempre, anche mentre dorme. La sente lo stesso.
-Sì, questo lo so. Ma quando potrà rispondermi?
-Quando non avrà tutti quei tubi in gola, suppongo. Lei cosa ne pensa?
Avrei tanto voluto rispondere alla sua provocazione ironica, ma ero poco provvisto di sarcasmo e vitalità.
 
I giorni precedenti alla sua prima risposta positiva passarono velocemente. Mi aiutava il pensiero che la sua situazione non sarebbe potuta peggiorare. Le ore in ospedale a leggerle qualcosa, la sua lenta guarigione, la mia rapida rassegnazione e l’inizio di un’abitudine che sapevo mi avrebbe danneggiato, prima o poi; erano tutte cose che non mi lasciavano tempo di pensare alla mia vita, probabilmente un fattore positivo.
Il martedì della seconda settimana, mi diressi, come sempre, verso il suo reparto. Sorrisi all’infermiera, alla dottoressa e al resto del personale. Girando per i corridoi guardavo dentro le stanze, che brulicavano di malati terminali e di gente che si riempiva di false speranze. Come avevo fatto io, d’altronde. Arrivato alla sua stanza, attesi i soliti 3 secondi, prima di bussare inutilmente, dato che dormiva continuamente e non rispondeva mai. Aprii, entusiasmato da chissà cosa e, con mio enorme stupore, vidi che…la stanza era vuota. Vuota. Le lenzuola al loro posto, le flebo scomparse, insieme a tutte quelle enormi macchine.
Uscii fuori furioso: -Dove l’avete portata?
Incontravo i visi stupidamente sorpresi delle infermiere che evidentemente ritenevano più importante portare a spasso dei vecchi, piuttosto che dirmi dov’era finita.
-Dov’è?!- chiesi urlando alla dottoressa.
Controllò il suo fascicoletto: -E’ tornata a casa. Non glielo ha detto?
-No…- dissi deluso.
-Posso darle l’indirizzo, se vuole.
-Ce l’ho, l’indirizzo. Avete invece un telefono, in questo posto?
-Certamente, è al piano terra.
Scesi di corsa le scale e mi precipitai vicino al telefono. Composi il suo numero e, dopo pochi squilli, rispose, con la sua voce nuova come prima.
-Pronto?
-Marzia.
-Lorenzo.
-Non chiamarmi Lorenzo.
-Scusami.
Silenzio.
-Non posso continuare così, mi hai capito? Non posso sempre fare il cagnolino da passeggio, non posso continuamente assecondarti.
Silenzio.
-Perché non mi hai detto che sei tornata a casa?
-Perché non volevo venissi.
-Cosa?
-Mi scoppia la testa, Lorenzo, devo attaccare.
-No, parlo io adesso. Perché fai così? Perché illudi le persone? Perché non sai semplicemente riconoscere i tuoi limiti? Mi lasci qui, in un ospedale. Ho perso la mia dignità, ho perso la mia decenza. Ho passato notti e giorni a pensare a cosa avrei fatto per risolvere le cose, quando non dovevo e, peggio, non posso.
-Portami dei fiori, ti prego.
Sospirai un secondo.
-Che fiori desideri?
-Dei…- tirò su con il naso -…dei papaveri.
-Papaveri? Come faccio a portarti dei papaveri? Lungo il tragitto si…
Non ebbi tempo di finire la frase, che subito la signorina simpatica dell’altra volta, mi informò che avevo esaurito le monete.
Sapevo che il fioraio, una volta sentita la mia richiesta, mi avrebbe guardato terribilmente male. Così, sulla strada per tornare in centro, ne raccolsi alcuni e li tenni il più delicatamente possibile. Fermai un taxi e gli chiesi di mettere l’aria condizionata. Dopo avermi fissato, mi disse che questo avrebbe aumentato il prezzo. Annuii.
I papaveri arrivarono sani e salvi al tragitto. Presi le chiavi da dove lei mi aveva mostrato ed entrai.
Aveva i capelli lisciati, per la prima volta. Il vestito non le copriva abbastanza le gambe terribilmente bianche e magre, che la facevano molto più alta di quello che era. Mi invitò a sedermi sul divano, poi in silenzio mi prese dalle mani i fiori. Li avvicinò al suo viso, chiuse gli occhi e una lacrima scese lentamente. Li posò accanto a lei, poggiò la mano sul mio volto e baciò le mie labbra. Mi tenni rigido, poi mi lasciai andare al momento. Inizialmente, sapevo che non mi sarei concesso, ma mi lasciai coinvolgere e, nervosamente, le presi la testa fra le mani e la tenni vicina a me. Si adagiò delicatamente sul mio petto e singhiozzando disse: -Mi vergogno così tanto…-
-Ehi, è normale…normale, soffrire così.
-Mia madre mi ha guardata e con estrema tranquillità ha detto “c’era da aspettarselo”. Poi mi ha detto che sto esagerando, che parlerà con me solo quando avrò smesso di fare la mitomane.
-E’ proprio stupida, allora. Non ascoltarla, ok? Fai quello che ti senti.
Sorrise, asciugandosi il naso con il braccio.
-Non devi assecondarmi. Non è questo che farebbe mio padre, o mio fratello. Ecco, mio fratello. Anche lui sta molto male, però adesso devo fare la doccia.
-Cosa…che vuol dire?
-Vuol dire che lo chiamerai tu. Sì, devi chiamarlo per dirgli di venire a cena. E digli che porta anche Aurora.
-Ma io…- cercai di rispondere, mentre lei cambiava tranquillamente stanza. Presi il suo cellulare, per cercare il numero in rubrica, quando notai un nuovo messaggio. Non avevo alcun motivo di essere geloso o altre cose compassionevoli, ma ci stava che con aria furtiva cercassi di capire chi fosse questo certo ‘De Luca 2”, che le scriveva di volerla vedere il più presto possibile.
-Marzia! Qual è il numero di tuo fratello?
Da sotto la doccia, urlò: -E’ segnato in rubrica come De Luca!
Mi bloccai un attimo, aspettando che la voglia di prendermi a pugni passasse. Chiamai poi De Luca 2:
-Pronto?
-Filippo, sono…Lorenzo.
Pausa di riflessione.
-Ah! Lorenzo! Sì, sì. Ricordo. Dimmi.
-Ehm…Marzia voleva invitare te e Aurora a cena. Se non vi dispiace, rimarrei anch’io.
-Certamente! Parlavamo proprio di questo. Desidero vederla, dato che fino a ieri, ancora, ero a New York per lavoro. Ma non so quanto possa interessarti. Quindi, sì, dille che veniamo alle nove.
-Va bene.
-Ah, e dille anche di apparecchiare su in terrazza.
-Perfetto. A dopo, allora.
-A dopo.
Tirai un sospiro di sollievo, una volta scoperta – non che non mi fidassi – la vera identità di De Luca 2. E, a giudicare dal rapporto che Marzia e lui avevano, quello poteva solo essere il suo cognome.
Il nostro rapporto iniziava a farmi capire che tutte le cose di cui credevo di avere bisogno prima – come, ad esempio, la conoscenza del suo cognome – erano tutte cose che non mi servivano veramente. E che, in pochi mesi, poteva nascere qualcosa di già forte e saldo, forse più di quanto sapessimo.
Durante quella cena parlammo come se avessimo una scaletta, colma di argomenti da affrontare obbligatoriamente – uno alla volta, ma tutti obbligatoriamente. Discutemmo di questioni terribilmente stupide e di dilemmi paradossali e irrisolvibili.
Con lei riuscivo a dannarmi, senza cadere dentro la mia – a quanto pare – profonda anima. Come nella meditazione, riuscivo a conoscere me stesso solo se l’avevo accanto, solo se mi accompagnava. Per quelle poche volte in cui la nostra vita non cadeva nel silenzio, riuscivo a scoprirmi e avevo quasi raggiunto il punto in cui avrei detto “così può bastare, adesso costruiamo il futuro”. Una delle classiche frasi che progettavo di dire, quando ero al liceo.
Strano, per uno come me, aver frequentato il liceo classico. Il me attuale – insieme al me delle scuole medie – era convinto che il liceo classico fosse all’apice di una scala inventata dal nulla. Come il raggiungimento di un livello spirituale autonomo. La verità è che, nel mio percorso, avevo sempre cercato di decidere dove si fermasse la mia idea di perfezione. Così per gli scrittori, per i libri, per i cantanti, per il liceo, per l’università. Anche se un cantante non era entrato nelle mie grazie, sapevo che avrei dovuto – per un motivo che non ho mai compreso – reputarlo all’apice della mia scala. Bruce Springsteen lo era, sicuramente. Anche se di lui – con profonda vergogna, lo ammetto – sapevo canticchiare solo Born in the USA. Era comunque impossibile paragonarlo ad altri cantautori moderni, che mi facevano sanguinare i timpani. 
   
 
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