QUELLO DELLE MOSCHE
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Lo chiamò solo dopo aver assistito al rientro del padre. Toru
possedeva quella concessionaria da anni, ma il tempo che dedicava al suo nuovo
impiego in ufficio, per quanto scarso, sembrava gratificarlo più di quanto lo
facessero le sue adorate macchine. Ne parlava con entusiasmo, con una voglia di
fare e di scoprire che sarebbe stata più adatta ad un ventenne che a lui.
«E non gli hai chiesto quanto dura il suo, di contratto?»
La domanda di Daisuke era giunta chiara e tonda. Masa, che sedeva
sulle scale con il cellulare incastrato fra spalla e orecchio, gettò uno
sguardo alla saletta da pranzo, dove i suoi erano presi dalle cronache della
giornata. «Preferisco di no», rispose. «Ho paura della risposta che potrebbe
darmi.»
«Hai mai riflettuto sul perché tu e io siamo gli unici a non essere
usciti scemi? Non credi che sia perché abbiamo scoperto a cosa servono le...
dico, gli aggeggi?»
Per quanto il suo tono fosse serio, non si contenne dallo scrollare
il capo e sfilare un sorrisetto. «”Usciti scemi”?»
«Insomma, hai capito cosa intendo.»
«Non siamo gli unici, credo. Solo abbiamo tante distrazioni. Siamo
giovani, più malleabili. Gli adulti pensano sempre e solo al lavoro; partono
con un piede nella fossa.»
«Illuminante. Aspetta.» Ci fu qualche movimento, il chiaro suono di
una porta che si apriva e si chiudeva. Poi ancora Daisuke: «Scusa, il gatto. In
ogni caso, guarda il lato positivo: noi usciamo dal giro fra tre giorni e poi
ce ne andiamo a Osaka con Nao. Non riesco a vedere nuvole scure all’orizzonte.»
«Andiamo in due.» Eccolo, il punto dolente. Il motivo per cui, si
ringrazi Signora Sincerità, lo aveva chiamato alle dieci di sera. Incassò il
silenzio dell’amico solo per decidere come continuare la frase. «Nao mi ha
detto che ha prolungato il contratto. Non potrà venire.»
«Lei cosa?»
«Mi hai sentito.»
«Mi stai pigliando per il culo?»
Con uno sbuffo, Masa cercò il corrimano e si issò in piedi,
avviandosi su per le scale. Si era stancato di origliare i suoi genitori.
Stancato e, perché no, pentito. «Sono serio. L’ho incrociata prima di cena e me
l’ha detto.»
«Dio, ci voleva pure Raiden-sama1», fu il borbottio che gli
giunse in risposta. Altri fruscii, uno sputacchiare nervoso. Niente di nuovo;
il suo adorabile animale domestico amava far assaggiare a chiunque i peli della
propria testa. «Quello che intendo, Masa» riprese Daisuke dopo un momento, «è
che non sarà la stessa cosa. Per che diavolo di motivo ha firmato un nuovo
contratto?»
«A lei va bene così. Era molto felice, anche se di fretta.»
«Oh, conosco quel tono. Stai per dirmi che ti è parsa superficiale.»
Masa si chiuse dietro la porta della camera. «Qualcosa di simile. E
non mi piace, perché c’è di mezzo tutta quell’insensata faccenda delle valigie
e di Matsumoto.»
«Chiediglielo.»
«Cosa?»
«Chiedile cos’è successo.»
«In questo momento credo sarebbe più facile scovare un orso polare
a passeggio per i corridoi della Ohu, ma ti ringrazio per il consiglio.»
«Allora pensaci. Ti piace tanto pensare, Ikeshima.» La voce che
sapeva di un sorriso.
«Lo farò.» Sbirciando fuori dalla finestra, aveva scorto solo le
luci sospese dei grattacieli e quelle più umili dei condomini di due o tre
piani. Si chiese, senza un motivo, come riuscissero a galleggiare nel buio più
assoluto. «E tu perché ti sei accorciato i capelli?» domandò, non senza
cogliere di sorpresa persino se stesso.
Daisuke si era effettivamente tagliato un bel po’ di capelli. Non
troppi, ma a sufficienza perché in testa gli restasse solo qualche ciuffo meno
ardito. Fino a pochi anni prima – o settimane, che era lo stesso -, Masa non
credeva che sarebbe stato in grado di spuntarsi lo spruzzo nucleare che aveva
in testa; quando si erano conosciuti, aveva già imboccato la strada di quella
moda che ordinava abiti di marca e capelli appariscenti, una ragione in più per
cui si era convinto che avrebbe portato avanti quello stile di vita per ancora
qualche tempo. Sbagliandosi.
La linea gli restituì un sospiro ironico. «Perché... lo sai, si
tratta di lavoro d’ufficio. Non mi sembra giusto distinguermi. Sarebbe come
trovare del prezzemolo incastrato in una dentatura perfetta. Tu ne dovresti
sapere qualcosa, mio caro studente di odontoiatria.»
«Già. È comprensibile.» Com’è che Daisuke gli aveva detto la prima
settimana di lavoro? “Mi
hanno detto che mi darò una regolata io, con il tempo”.
Prevedibile. Una conseguenza scomoda, l’appiattirsi. «Vado da Nao», aggiunse dopo un
attimo. «Forse riesco a farle
cambiare idea.»
Non che ci credesse. La
conosceva abbastanza da sapere di che genere fosse la sua pigrizia; si trattava
di quell’indolenza tipica delle persone creative, di una non-voglia passeggera
e non necessariamente nociva, eppure l’idea del lavoro a tempo pieno era
riuscita a sedurla lo stesso, tanto da convincerla a prolungare il contratto
fino alla fine delle vacanze estive. Dubitava avrebbe trovato del tempo per
leggere libri di disegno e pittura, un’abitudine che portava avanti anche
durante l’impegnativo anno scolastico, e tutto perché avrebbe passato mattina,
pomeriggio e sera davanti ad uno dei computer dell’ufficio. Eppure, come
scoprì, la prospettiva non la spaventava. Passò a casa sua e vi rimase per
poco, il tempo di una chiacchierata inconsistente come aria. Suo padre, che doveva
star giungendo alle conclusioni, avrebbe passato la notte da un collega, chiaro
indizio di quanto l’idea del divorzio stesse diventando un fatto. Nao però non
ci pensava e si limitò a spiegargli che era libero di fare quello che voleva,
per poi prendere a ripetergli che non si pentiva di aver preferito il lavoro
alla vacanza ad Osaka. Non gli raccontò nulla del contratto che aveva firmato.
C’era qualcosa che non andava. Glielo lesse in faccia mentre gli
parlava, nel modo in cui gli si rivolgeva, seduta alla scrivania e intenta a
dividersi fra il dialogo e una fascicolo che stava leggendo e sottolineando. Un
piccolo extra, gli aveva detto, da consegnare il giorno seguente. Per un
momento provò il profondo desiderio di chiederle dove fosse, salvo poi ritenere
quella domanda un po’ troppo stupida e tenersela per sé. Probabilmente, in
quella circostanza, Nao gli avrebbe risposto che era dove effettivamente si
trovava; lì davanti.
Guardandola, gli tornò alla mente il pensiero che gli si era
inchiodato in testa quando aveva acceso la televisione sul Ventidue e aveva
visto quel grappolo di uomini e donne, Matsumoto e l’inviato. Aveva riflettuto
sul fatto di non conoscere chi lavorava per quell’emittente e ricordava
chiaramente di aver paragonato quel pugno di facce sconosciute ad un nugolo di
mosche tutte uguali, un po’ come uguali sono i colori nel buio. Poi si rivide a
casa, a parlare al telefono con Daisuke e a guardare le luci delle case e degli
appartamenti sospese nella notte. Alcune piccole, alcune grandi, ma uguali
nell’idea di fondo. Brillavano. Stessa essenza, diversa intensità. Un po’ come
gli esseri umani.
Quando tornò in strada, l’aria si era fatta un po’ più fresca. Capì
che forse era il caso di parlare con colui per cui lavorava. Voleva chiedergli
quanto a suo dire brillassero gli uomini. Sollevò la zip del giubbotto blu e si
avviò a testa bassa verso casa, alzando gli occhi solo quando necessario. Aveva
paura che presto o tardi, guardando verso le luci degli edifici più lontani, le
avrebbe scoperte tutte uguali fra loro.
* * *
Non ebbe nemmeno da richiedere un colloquio. Matsumoto lo batté sul
tempo.
Li, ad onor del vero. Capitò l’ultimo giorno di lavoro, quello su cui
Masa aveva mentalmente segnato un’enorme e impaziente X nera. La sua intenzione
era finire il turno, consegnare la valigia e chiedere se fosse possibile
parlare con il capo, ovunque fosse. Perché teneva a conoscere di persona colui
che gli aveva garantito una prima esperienza, verissimo, e perché era stato un
lavoratore devoto e fiero di ogni impegno, cosa un po’ meno vera ma a cui si
poteva accennare. Come motivazioni erano passabili, di certo in grado di
convincere. Quello che non poteva aspettarsi era che una donna piccola e
professionale lo fermasse fuori dall’ufficio e gli annunciasse che Matsumoto
aveva chiesto di lui e di Ido Daisuke. Il karma è una ruota che gira, rifletté.
Sperava che girasse per il verso giusto.
Non dovettero nemmeno spostarsi. Il loro irraggiungibile datore si
trovava nello stesso edificio, cinque piani sopra di loro. La loro
accompagnatrice, benché non ispirasse l’idea di un’amante delle chiacchiere,
spiegò che quella mattina si trovava invece dall’altra parte della città, a
supervisione di altri uffici. “Ma desidera parlarvi da qualche tempo”, fu
l’ultima frase che sentirono pronunciarle. Masa e Daisuke, che procedevano
giusto dietro, si scambiarono un’occhiata; il secondo arrangiò un’esagerata espressione
di mute congratulazioni. Siamo famosi,
era il messaggio. Non era un dettaglio necessariamente positivo, soprattutto
non quando solo la settimana prima avevano rubato una ventiquattrore per
sbirciarci dentro, peraltro scoprendo certi scomodi fatti. Masa sospettava che
qualcosa potesse effettivamente c’entrare.
E ci prese in pieno. Lo capì ancor prima che Matsumoto confermasse
la sua ipotesi. I convenevoli erano stati rapidi, formali quanto bastava e
protratti il tempo necessario perché lui e Daisuke si accomodassero davanti
alla scrivania; poi l’uomo, che si era fermato dall’altra parte del ripiano con
le mani intrecciate dietro la schiena, li aveva guardati e aveva sfilato il
sorriso trionfante e tremendo di un bambino che indovina il trucco di un
prestigiatore un po’scarso. Era un prologo, quello, a cui seguiva una svolta
piuttosto prevedibile.
«So che entrambi i vostri contratti finiscono oggi», cominciò,
spezzando un filo restato teso troppo a lungo. «Ho trovato giusto mandarvi a
chiamare e farvi sapere che so cos’avete fatto. I furti non passano
inosservati. La sincerità mi sembrava un buon modo per congedarvi.»
Masa raccolse lo sguardo dell’amico, seduto lì accanto. Per un
momento pensò che il silenzio avrebbe risolto le cose, ma gli fu facile
realizzare che Matsumoto attendeva solo una loro parola in merito. Non avrebbe
aggiunto altro. Evidentemente stavano rotolando sempre più in fretta giù dal
pendio, costretti da quell’irresistibile forza fisica che era il legame fra
cause e conseguenze. E allora era il caso di rotolare.
«Lo credo anche io, Matsumoto-san», rispose, senza scomporsi. «La
sincerità è una buona scelta.»
Daisuke gli rovesciò addosso uno sguardo basito, l’espressione
incredula di chi non riesce a credere alle proprie orecchie. Era evidente che
da parte sua avrebbe preferito una smentita, non un’ammissione. Quanto all’uomo
in piedi davanti a loro, continuò imperterrito a sorridere. Non sembrava
turbato. A dirla tutta, non pareva nemmeno interessato a punirli in qualche
modo.
«Si corrono sempre dei rischi con i giovani», spiegò con
tranquillità. Nella posizione in cui si trovava, in piedi di fronte alla
panoramica parete a vetro che dava sulla città, sembrava nel suo ambiente
naturale. «Credo sia per questo che molti evitano di assumerli. Sono curiosi, pericolosamente
acerbi e pronti a maturare alle tue spalle. Soprattutto, sono distratti.
Alcuni, come voi, lo sono così tanto da non farsi coinvolgere dal lavoro come
da aspettative.»
«Sta parlando delle ventiquattrore, vero?» domandò Masa,
guardandolo dritto in faccia. Qualcosa gli diceva che la sfrontatezza che stava
dimostrando non era un peccato, ma un bisogno fisico. «Non credo che il verbo
“coinvolgere” sia esatto. Suonerebbe meglio “soggiogare”.»
«Gli adulti sono sempre più facili da convincere. Sono abituati ai
ritmi del secolo, non si pongono domande. Lavorano per lo stipendio e
nient’altro. Credevo che il trucco delle valigie avrebbe funzionato anche con
le nuove, pidocchiose generazioni.»
«Non ha funzionato. In questo momento, per farle un esempio, sto
pensando liberamente. Sto riflettendo su di lei, su quanto somigli ed agisca
come un emerito stronzo.»
Il gesto con cui Daisuke sollevò gli occhi al soffitto fu plateale.
Mosse le labbra in una silenziosa imprecazione e tirò uno sbuffo prima di
sistemarsi meglio sulla sedia, visibilmente a disagio. «Va bene», s’intromise,
alzando le mani. «Riavvolgiamo il nastro. La sincerità è una bella cosa, lo
ammetto, ma possiamo ricominciare da capo?»
«Ci deve spiegare come funzionano quegli aggeggi», lo ignorò Masa.
Ancora non aveva scostato le pupille da quelle rilassate di Matsumoto. Era
bravo ad arrabbiarsi, quando voleva. «Da dove sono uscite?»
«Sono utili. Ripuliscono la testa e fanno sì che l’uomo lavori nel
pieno delle sue capacità. Dobbiamo l’organizzazione del lavoro a una
meravigliosa catena di eventi storici, signorino Ikeshima. Dalla seconda
rivoluzione industriale in Inghilterra, passando prima al fordismo2 e
poi al socialismo, si sono fatti enormi passi in avanti. Non pensa che tutto
questo progresso sia meraviglioso?»
«Non siamo qui per una lezione di storia.»
«Lo so.» L’uomo tese le labbra in una linea che dell’idea di
sorriso aveva ben poco. «Siete qui perché ho una proposta da farvi. Ho qui le
vostre valigie», aggiunse dopo un attimo. Si chinò e le raccolse, posandole
sotto ai loro occhi. Una davanti a Masa, una davanti a Daisuke, nere, lucide e
immobili. Doveva averle conservate per tutto quel tempo sotto la scrivania, in
attesa di tirarle fuori. «Avete scoperto il motivo per cui i dipendenti devono
sempre tenerle con sé. Alcuni miei collaboratori si occupano di cambiarne il
contenuto, ogni tanto, a seconda del soggetto. Ci sono persone che necessitano
di più fogli perché pensano troppo, e altre a cui invece basta un minuscolo
fascicolo.»
«Bene», rispose Daisuke. «Quanti alberi vi abbiamo fatto abbattere?»
Matsumoto gli indirizzò un ghigno di intesa. Si sarebbe detto
deliziato da tutta quella suicida ironia. «Un po’. Voi due avete un sacco di
distrazione, in testa. Avete bisogno di tanta, tanta carta. Non siete elementi
corruttibili; in breve, siete stati una perdita di tempo. La vostra amica, la
signorina Fuyutsuki, è decisamente più malleabile di voi.»
«La convincerò a lasciar perdere.» Masa si costrinse a restare
seduto. Sarebbe stato capace di strangolarlo. «Potrei raccontarle tutto quanto.
Potremmo raccontarlo a chiunque.»
«Oh, ma sa già ogni cosa. Era una clausola del nuovo contratto; è
stato piacevole farvi un torto attraverso lei. Inoltre, se mi permette, non
credo che qualcuno sarebbe disposto a credere a una storia simile.»
«Allora ammette che è pura fantascienza. Probabilmente non si è
nemmeno presentato con il suo vero nome.»
«Non volete conoscerlo per davvero.» Un sorriso pratico. «Non è un
dettaglio importante.»
«Un’altra domanda, allora. Perché Koriyama?»
«È una città destinata a crescere. Dovreste saperlo: è la capitale
finanziaria della prefettura.»
«E solo per questo ha deciso di ambientarvi la sua personalissima
rivoluzione del mondo del lavoro?»
«Vede, Ikeshima? Lei chiacchiera sempre troppo.» Matsumoto si
dondolò sui tacchetti dei mocassini e indicò con il mento le due
ventiquattrore. «A dire il vero è una cosa che vi accomuna, ma ho deciso di
proporre ugualmente un contratto a uno di voi. Tentar non nuoce. Con l’altro
prometto di chiudere per sempre.»
Daisuke sollevò le sopracciglia in un sarcastico ed esagerato gesto
di congratulazioni. «Lei è molto realistico, davvero. Ci sono ottime
possibilità che qualcuno di noi desideri lavorare ancora per lei dopo quel che
abbiamo scoperto. Posso già sentire gli applausi in sottofondo.»
«Lo so», gli rispose l’uomo, e gli scoccò un sorriso di squisita
partecipazione. «Mi piace osare, Ido. I vincenti lo fanno sempre.»
Masa annusò una quasi concreta puzza di bruciato. Non c’era nulla
del volto di quel demonio che lo rilassasse, né gli piacque lo sguardo che
lasciò su Daisuke. Sembrava stesse osservando un ottimo e scontatissimo
frullatore esposto in vetrina. «Va bene», si tuffò, e piantò la mano sulla
propria valigetta, il palmo aperto, le dita rigide e tese. «Allora vuole farci
aprire questi aggeggi? Vuole che giochiamo a chi ci trova il tesoro?»
Matsumoto aveva già recuperato dal fondo della tasca un paio di
piccole chiavi. Il suono che produssero quando le lanciò sulla scrivania
scampanellò rumorosamente nell’aria. Ad ognuna era appesa una targhetta che
raffigurava le case sospese nel nulla e il ponte. «L’ho fatto anche con la
vostra amica», si giustificò. «È il mio modo di presentare le belle sorprese. A
lei non è dispiaciuto.»
«Dispiacerà a lei, capo, se il contratto è dentro la mia
ventiquattrore», soffiò Masa. Pescò la chiave più vicina, ma scoprì che non
girava nella serratura. Dopo un momento la inchiodò sulla valigia dell’amico,
che lo guardava ammutolito, e provò con l’altra. Ci fu uno scatto deciso.
Quando aprì, gli sembrò che sul fondo ci fossero un paio di fogli.
Poi realizzò che si trattava solo di una svista, di un’immagine piantatagli in
testa dalla fretta e dalla collera, e allora rimase zitto, le mani chiuse a
tenaglia sulla metà che teneva sollevata. Gli ci volle qualche secondo per
recepire il messaggio del nulla che si era trovato di fronte. Non lui. Lui era
libero di andarsene, di sputare su tutta quella faccenda, di voltare le spalle
a tutto quell’insensato delirio. Era Daisuke a non esserlo.
Inaspettatamente gli venne da sorridere. Spalancò la ventiquattrore
di colpo, consegnandone il nudo interno alla luce dell’ufficio con la
delicatezza con cui si schiaffa una bistecca sul tavolo della cucina. «Io
glielo dico, Matsumoto», se ne uscì, la bocca stesa in un’espressione di
divertimento tanto plateale da riuscire artefatta. Si lasciò persino andare
contro lo schienale della sedia, di punto in bianco, come un attore preso dal
suo incredulo e fanatico monologo. «Glielo dico chiaro e tondo: il mio amico
non firmerà proprio un cazzo.»
«Allora la star sono io?» domandò Daisuke. Mancava poco che si
mettesse a ridere. Ritornò a guardare l’uomo, che si limitava ad osservare le
loro reazioni con un filo di pietà dietro gli occhi, trasmettendo un
divertimento sinistro e sottile. «Sono l’uomo?»
«Avverto un sarcasmo giovane e pungente», commentò lui. Sorridendo.
«Non vuole nemmeno dare un’occhiata?»
«No. Anzi, sì.» E tornò serio, prese la chiave, la infilò nella
piccola serratura, gli occhi fissi in quelli di Matsumoto. «Sì, ma solo per
poterle strappare quei fogli sotto al naso.»
Poi accadde tutto un po’ troppo in fretta. D’improvviso Masa ebbe
chiaro perché anni prima, a scuola, il professore di ginnastica gli aveva detto
che lui per lo sport non sarebbe mai stato tagliato. “Hai dei riflessi pessimi,
Ikeshima”, gli aveva annunciato. “Questo spiega l’incredibile numero di palloni
che ti sono arrivati in faccia”. Fu un ricordo rapido ma preciso, così come
fulminea fu l’impressione di déjà vu che gli si piantò nello stomaco come un
pasto mal digerito. Semplicemente, non era pronto. Non lo sarebbe stato nemmeno
se gli fosse stato consigliato di esserlo.
Daisuke aprì la ventiquattrore solo di pochi centimetri. Bastò quel
piccolo spiraglio, quella fuga di neanche un quarto di metro per liberare di
colpo una rumorosa colonia nera, una nube informe e fitta, un rotolare incoerente
e monocromo. Mosche. Fu simile a togliere il coperchio da un pentolino colmo di
acqua in ebollizione. Si riversarono all’esterno a migliaia, quasi un corpo
solo, e presero il volto del ragazzo come un’enorme mano viva. Lui buttò la
valigia ora spalancata sulla scrivania, gettò un grido che era sorpresa e
orrore e volò all’indietro, rovesciando la sedia sotto di sé.
Masa si mosse solo in quel momento. L’istinto gli ordinò di
scostarsi bruscamente, lo scalciò giù dal posto a sedere. Cadde di schiena, sui
gomiti, le ginocchia appena sollevate, ma non avvertì dolore. I suoi occhi
rimasero fissi sull’amico, che si rotolava a terra e si schiaffava ovunque,
senza sconti, nel tentativo di togliersi di dosso quello sciame impaziente.
Sembrava in preda ad un delirio. Il suo corpo brulicava, sembrava vestire un
abito animato, uno strato translucido, folle, frenetico. Per quanto si
agitasse, per quanto si spingesse indietro e implorasse aiuto, per quanto si
picchiasse, le mosche ritornavano. Si contendevano i posti rimasti liberi,
quelle chiazze di nero ancora poco affollate. Alcune, le più audaci, si
infilavano nelle narici, nelle orecchie, nella bocca, fino a limitare le grida
a rantolii malsani. Il loro ronzio cominciò a fare più rumore delle urla.
Masa vide tutto quanto. I muscoli gli si erano irrigiditi, le ossa
quasi calcificate, il respiro fermato di colpo. Nemmeno riusciva a battere le
ciglia. Avrebbe voluto alzarsi, scivolare sul pavimento, inciampare dalla
fretta e gettarsi da Daisuke per togliergli di dosso quella massa convulsa e
viva, quella demenza di zampe, sottile peluria nera e caleidoscopici occhi da
insetto, ma non ci riusciva. Dio, era il suo migliore amico, ma non ci
riusciva. Paura, disgusto, orrida incredulità, tutte emozioni che lo avevano
inchiodato sul pavimento come un condannato sulla sedia elettrica. In bocca
avvertiva il sapore acido e stantio del conato che gli si stava arrampicando in
gola.
Non vomitò. Colse un movimento dall’altra parte della scrivania e
solo in quel momento si ricordò di Matsumoto. Lui, quello delle ventiquattrore,
quello col sorriso pratico e concreto. Quello che aveva visto per la prima
volta sul Ventidue.
Quando si voltò a guardarlo, gli scoprì la testa un po’ più
rotonda, lo sguardo un po’ più grande, rigonfio sulle tempie, le dita un po’
più lunghe, sottili come nervi. Si accorse di quanto i suoi capelli, così radi,
così neri, somigliassero alla peluria quasi invisibile di un insetto, uno di
quelli grossi, uno di quelli uguali agli altri, solo un po’ più... bipede. Uno
di quelli che stanno in piedi e vestono un completo e una cravatta.
«L’avevo detto, Ikeshima, che con uno di voi avrei chiuso per
sempre.» La sua bocca si era schiusa in un beccuccio rigido, grande quanto
quello di un piccolo uccello. O di una mosca troppo cresciuta. Sembrava
sorridere. «Non si muova. Non renda le cose più difficili.»
Masa capì e desiderò svenire. Lo desiderò così ardentemente da
sentirsi sul punto di perdere i sensi.
Non fece in tempo.
__________
Note.
1 O Raijin. È, secondo la mitologia
giapponese, il dio dei tuoni e dei fulmini.
2 Da Henry Ford. Per la sua industria automobilistica, nei primi anni del Novecento sviluppò il fortunatissimo metodo di lavoro basato sulla catena di montaggio, che consentiva di ridurre i costi e produrre nel minor tempo possibile. Il fordismo fu il trampolino di lancio per la produzione di massa.