Storie originali > Horror
Segui la storia  |       
Autore: Dew_Drop    23/06/2015    1 recensioni
Giappone, 2015.
Koriyama è una fiorente città della prefettura di Fukushima. "Una capitale finanziaria", la definiscono, un caleidoscopio di uffici, società, giovani e entusiaste aziende. Un baule colmo di affari d'oro. È qui che approdano e vengono seminate le promesse degli uomini migliori, quelli che vogliono crescere, quelli che desiderano il successo. È qui, in breve, che pianta la sua bandiera un uomo sbucato dal nulla. Cos'ha con sé oltre alla sua idea di rivoluzione del mondo del lavoro? Un po' di valigie, di quelle nere, professionali. Ventiquattrore, esatto. Ammesso e non concesso che lui sia un uomo e che quelle siano ventiquattrore come tante altre. Dettagli.
__
«Sono sincero. Sono molto distratto, lo sai. Lo sono sempre stato, eppure ho dato il meglio di me sin dal primo giorno di lavoro. E adesso so perché; perché là divento un ingranaggio incapace di pensare. Lo siamo tutti. Incastrati e costretti a girare in eterno.»
__
[ I classificata in parimerito per il Contest "The Melancholy Spirit", indetto da Yuko Chan ]
Genere: Drammatico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
5. Quello delle mosche









QUELLO DELLE MOSCHE

__________

 

Lo chiamò solo dopo aver assistito al rientro del padre. Toru possedeva quella concessionaria da anni, ma il tempo che dedicava al suo nuovo impiego in ufficio, per quanto scarso, sembrava gratificarlo più di quanto lo facessero le sue adorate macchine. Ne parlava con entusiasmo, con una voglia di fare e di scoprire che sarebbe stata più adatta ad un ventenne che a lui.

«E non gli hai chiesto quanto dura il suo, di contratto?»

La domanda di Daisuke era giunta chiara e tonda. Masa, che sedeva sulle scale con il cellulare incastrato fra spalla e orecchio, gettò uno sguardo alla saletta da pranzo, dove i suoi erano presi dalle cronache della giornata. «Preferisco di no», rispose. «Ho paura della risposta che potrebbe darmi.»

«Hai mai riflettuto sul perché tu e io siamo gli unici a non essere usciti scemi? Non credi che sia perché abbiamo scoperto a cosa servono le... dico, gli aggeggi?»

Per quanto il suo tono fosse serio, non si contenne dallo scrollare il capo e sfilare un sorrisetto. «”Usciti scemi”?»

«Insomma, hai capito cosa intendo.»

«Non siamo gli unici, credo. Solo abbiamo tante distrazioni. Siamo giovani, più malleabili. Gli adulti pensano sempre e solo al lavoro; partono con un piede nella fossa.»

«Illuminante. Aspetta.» Ci fu qualche movimento, il chiaro suono di una porta che si apriva e si chiudeva. Poi ancora Daisuke: «Scusa, il gatto. In ogni caso, guarda il lato positivo: noi usciamo dal giro fra tre giorni e poi ce ne andiamo a Osaka con Nao. Non riesco a vedere nuvole scure all’orizzonte.»

«Andiamo in due.» Eccolo, il punto dolente. Il motivo per cui, si ringrazi Signora Sincerità, lo aveva chiamato alle dieci di sera. Incassò il silenzio dell’amico solo per decidere come continuare la frase. «Nao mi ha detto che ha prolungato il contratto. Non potrà venire.»

«Lei cosa

«Mi hai sentito.»

«Mi stai pigliando per il culo?»

Con uno sbuffo, Masa cercò il corrimano e si issò in piedi, avviandosi su per le scale. Si era stancato di origliare i suoi genitori. Stancato e, perché no, pentito. «Sono serio. L’ho incrociata prima di cena e me l’ha detto.»

«Dio, ci voleva pure Raiden-sama1», fu il borbottio che gli giunse in risposta. Altri fruscii, uno sputacchiare nervoso. Niente di nuovo; il suo adorabile animale domestico amava far assaggiare a chiunque i peli della propria testa. «Quello che intendo, Masa» riprese Daisuke dopo un momento, «è che non sarà la stessa cosa. Per che diavolo di motivo ha firmato un nuovo contratto?»

«A lei va bene così. Era molto felice, anche se di fretta.»

«Oh, conosco quel tono. Stai per dirmi che ti è parsa superficiale.»

Masa si chiuse dietro la porta della camera. «Qualcosa di simile. E non mi piace, perché c’è di mezzo tutta quell’insensata faccenda delle valigie e di Matsumoto.»

«Chiediglielo.»

«Cosa?»

«Chiedile cos’è successo.»

«In questo momento credo sarebbe più facile scovare un orso polare a passeggio per i corridoi della Ohu, ma ti ringrazio per il consiglio.»

«Allora pensaci. Ti piace tanto pensare, Ikeshima.» La voce che sapeva di un sorriso.

«Lo farò.» Sbirciando fuori dalla finestra, aveva scorto solo le luci sospese dei grattacieli e quelle più umili dei condomini di due o tre piani. Si chiese, senza un motivo, come riuscissero a galleggiare nel buio più assoluto. «E tu perché ti sei accorciato i capelli?» domandò, non senza cogliere di sorpresa persino se stesso.

Daisuke si era effettivamente tagliato un bel po’ di capelli. Non troppi, ma a sufficienza perché in testa gli restasse solo qualche ciuffo meno ardito. Fino a pochi anni prima – o settimane, che era lo stesso -, Masa non credeva che sarebbe stato in grado di spuntarsi lo spruzzo nucleare che aveva in testa; quando si erano conosciuti, aveva già imboccato la strada di quella moda che ordinava abiti di marca e capelli appariscenti, una ragione in più per cui si era convinto che avrebbe portato avanti quello stile di vita per ancora qualche tempo. Sbagliandosi.

La linea gli restituì un sospiro ironico. «Perché... lo sai, si tratta di lavoro d’ufficio. Non mi sembra giusto distinguermi. Sarebbe come trovare del prezzemolo incastrato in una dentatura perfetta. Tu ne dovresti sapere qualcosa, mio caro studente di odontoiatria.»

«Già. È comprensibile.» Com’è che Daisuke gli aveva detto la prima settimana di lavoro? “Mi hanno detto che mi darò una regolata io, con il tempo”. Prevedibile. Una conseguenza scomoda, l’appiattirsi. «Vado da Nao», aggiunse dopo un attimo. «Forse riesco a farle cambiare idea.»

Non che ci credesse. La conosceva abbastanza da sapere di che genere fosse la sua pigrizia; si trattava di quell’indolenza tipica delle persone creative, di una non-voglia passeggera e non necessariamente nociva, eppure l’idea del lavoro a tempo pieno era riuscita a sedurla lo stesso, tanto da convincerla a prolungare il contratto fino alla fine delle vacanze estive. Dubitava avrebbe trovato del tempo per leggere libri di disegno e pittura, un’abitudine che portava avanti anche durante l’impegnativo anno scolastico, e tutto perché avrebbe passato mattina, pomeriggio e sera davanti ad uno dei computer dell’ufficio. Eppure, come scoprì, la prospettiva non la spaventava. Passò a casa sua e vi rimase per poco, il tempo di una chiacchierata inconsistente come aria. Suo padre, che doveva star giungendo alle conclusioni, avrebbe passato la notte da un collega, chiaro indizio di quanto l’idea del divorzio stesse diventando un fatto. Nao però non ci pensava e si limitò a spiegargli che era libero di fare quello che voleva, per poi prendere a ripetergli che non si pentiva di aver preferito il lavoro alla vacanza ad Osaka. Non gli raccontò nulla del contratto che aveva firmato.

C’era qualcosa che non andava. Glielo lesse in faccia mentre gli parlava, nel modo in cui gli si rivolgeva, seduta alla scrivania e intenta a dividersi fra il dialogo e una fascicolo che stava leggendo e sottolineando. Un piccolo extra, gli aveva detto, da consegnare il giorno seguente. Per un momento provò il profondo desiderio di chiederle dove fosse, salvo poi ritenere quella domanda un po’ troppo stupida e tenersela per sé. Probabilmente, in quella circostanza, Nao gli avrebbe risposto che era dove effettivamente si trovava; lì davanti.

Guardandola, gli tornò alla mente il pensiero che gli si era inchiodato in testa quando aveva acceso la televisione sul Ventidue e aveva visto quel grappolo di uomini e donne, Matsumoto e l’inviato. Aveva riflettuto sul fatto di non conoscere chi lavorava per quell’emittente e ricordava chiaramente di aver paragonato quel pugno di facce sconosciute ad un nugolo di mosche tutte uguali, un po’ come uguali sono i colori nel buio. Poi si rivide a casa, a parlare al telefono con Daisuke e a guardare le luci delle case e degli appartamenti sospese nella notte. Alcune piccole, alcune grandi, ma uguali nell’idea di fondo. Brillavano. Stessa essenza, diversa intensità. Un po’ come gli esseri umani.

Quando tornò in strada, l’aria si era fatta un po’ più fresca. Capì che forse era il caso di parlare con colui per cui lavorava. Voleva chiedergli quanto a suo dire brillassero gli uomini. Sollevò la zip del giubbotto blu e si avviò a testa bassa verso casa, alzando gli occhi solo quando necessario. Aveva paura che presto o tardi, guardando verso le luci degli edifici più lontani, le avrebbe scoperte tutte uguali fra loro.    

 

* * *

 

Non ebbe nemmeno da richiedere un colloquio. Matsumoto lo batté sul tempo.

Li, ad onor del vero. Capitò l’ultimo giorno di lavoro, quello su cui Masa aveva mentalmente segnato un’enorme e impaziente X nera. La sua intenzione era finire il turno, consegnare la valigia e chiedere se fosse possibile parlare con il capo, ovunque fosse. Perché teneva a conoscere di persona colui che gli aveva garantito una prima esperienza, verissimo, e perché era stato un lavoratore devoto e fiero di ogni impegno, cosa un po’ meno vera ma a cui si poteva accennare. Come motivazioni erano passabili, di certo in grado di convincere. Quello che non poteva aspettarsi era che una donna piccola e professionale lo fermasse fuori dall’ufficio e gli annunciasse che Matsumoto aveva chiesto di lui e di Ido Daisuke. Il karma è una ruota che gira, rifletté. Sperava che girasse per il verso giusto.

Non dovettero nemmeno spostarsi. Il loro irraggiungibile datore si trovava nello stesso edificio, cinque piani sopra di loro. La loro accompagnatrice, benché non ispirasse l’idea di un’amante delle chiacchiere, spiegò che quella mattina si trovava invece dall’altra parte della città, a supervisione di altri uffici. “Ma desidera parlarvi da qualche tempo”, fu l’ultima frase che sentirono pronunciarle. Masa e Daisuke, che procedevano giusto dietro, si scambiarono un’occhiata; il secondo arrangiò un’esagerata espressione di mute congratulazioni. Siamo famosi, era il messaggio. Non era un dettaglio necessariamente positivo, soprattutto non quando solo la settimana prima avevano rubato una ventiquattrore per sbirciarci dentro, peraltro scoprendo certi scomodi fatti. Masa sospettava che qualcosa potesse effettivamente c’entrare.

E ci prese in pieno. Lo capì ancor prima che Matsumoto confermasse la sua ipotesi. I convenevoli erano stati rapidi, formali quanto bastava e protratti il tempo necessario perché lui e Daisuke si accomodassero davanti alla scrivania; poi l’uomo, che si era fermato dall’altra parte del ripiano con le mani intrecciate dietro la schiena, li aveva guardati e aveva sfilato il sorriso trionfante e tremendo di un bambino che indovina il trucco di un prestigiatore un po’scarso. Era un prologo, quello, a cui seguiva una svolta piuttosto prevedibile.

«So che entrambi i vostri contratti finiscono oggi», cominciò, spezzando un filo restato teso troppo a lungo. «Ho trovato giusto mandarvi a chiamare e farvi sapere che so cos’avete fatto. I furti non passano inosservati. La sincerità mi sembrava un buon modo per congedarvi.»

Masa raccolse lo sguardo dell’amico, seduto lì accanto. Per un momento pensò che il silenzio avrebbe risolto le cose, ma gli fu facile realizzare che Matsumoto attendeva solo una loro parola in merito. Non avrebbe aggiunto altro. Evidentemente stavano rotolando sempre più in fretta giù dal pendio, costretti da quell’irresistibile forza fisica che era il legame fra cause e conseguenze. E allora era il caso di rotolare.

«Lo credo anche io, Matsumoto-san», rispose, senza scomporsi. «La sincerità è una buona scelta.»

Daisuke gli rovesciò addosso uno sguardo basito, l’espressione incredula di chi non riesce a credere alle proprie orecchie. Era evidente che da parte sua avrebbe preferito una smentita, non un’ammissione. Quanto all’uomo in piedi davanti a loro, continuò imperterrito a sorridere. Non sembrava turbato. A dirla tutta, non pareva nemmeno interessato a punirli in qualche modo.

«Si corrono sempre dei rischi con i giovani», spiegò con tranquillità. Nella posizione in cui si trovava, in piedi di fronte alla panoramica parete a vetro che dava sulla città, sembrava nel suo ambiente naturale. «Credo sia per questo che molti evitano di assumerli. Sono curiosi, pericolosamente acerbi e pronti a maturare alle tue spalle. Soprattutto, sono distratti. Alcuni, come voi, lo sono così tanto da non farsi coinvolgere dal lavoro come da aspettative.»

«Sta parlando delle ventiquattrore, vero?» domandò Masa, guardandolo dritto in faccia. Qualcosa gli diceva che la sfrontatezza che stava dimostrando non era un peccato, ma un bisogno fisico. «Non credo che il verbo “coinvolgere” sia esatto. Suonerebbe meglio “soggiogare”

«Gli adulti sono sempre più facili da convincere. Sono abituati ai ritmi del secolo, non si pongono domande. Lavorano per lo stipendio e nient’altro. Credevo che il trucco delle valigie avrebbe funzionato anche con le nuove, pidocchiose generazioni.»

«Non ha funzionato. In questo momento, per farle un esempio, sto pensando liberamente. Sto riflettendo su di lei, su quanto somigli ed agisca come un emerito stronzo.»

Il gesto con cui Daisuke sollevò gli occhi al soffitto fu plateale. Mosse le labbra in una silenziosa imprecazione e tirò uno sbuffo prima di sistemarsi meglio sulla sedia, visibilmente a disagio. «Va bene», s’intromise, alzando le mani. «Riavvolgiamo il nastro. La sincerità è una bella cosa, lo ammetto, ma possiamo ricominciare da capo?»

«Ci deve spiegare come funzionano quegli aggeggi», lo ignorò Masa. Ancora non aveva scostato le pupille da quelle rilassate di Matsumoto. Era bravo ad arrabbiarsi, quando voleva. «Da dove sono uscite?»

«Sono utili. Ripuliscono la testa e fanno sì che l’uomo lavori nel pieno delle sue capacità. Dobbiamo l’organizzazione del lavoro a una meravigliosa catena di eventi storici, signorino Ikeshima. Dalla seconda rivoluzione industriale in Inghilterra, passando prima al fordismo2 e poi al socialismo, si sono fatti enormi passi in avanti. Non pensa che tutto questo progresso sia meraviglioso?»

«Non siamo qui per una lezione di storia.»

«Lo so.» L’uomo tese le labbra in una linea che dell’idea di sorriso aveva ben poco. «Siete qui perché ho una proposta da farvi. Ho qui le vostre valigie», aggiunse dopo un attimo. Si chinò e le raccolse, posandole sotto ai loro occhi. Una davanti a Masa, una davanti a Daisuke, nere, lucide e immobili. Doveva averle conservate per tutto quel tempo sotto la scrivania, in attesa di tirarle fuori. «Avete scoperto il motivo per cui i dipendenti devono sempre tenerle con sé. Alcuni miei collaboratori si occupano di cambiarne il contenuto, ogni tanto, a seconda del soggetto. Ci sono persone che necessitano di più fogli perché pensano troppo, e altre a cui invece basta un minuscolo fascicolo.»

«Bene», rispose Daisuke. «Quanti alberi vi abbiamo fatto abbattere?»

Matsumoto gli indirizzò un ghigno di intesa. Si sarebbe detto deliziato da tutta quella suicida ironia. «Un po’. Voi due avete un sacco di distrazione, in testa. Avete bisogno di tanta, tanta carta. Non siete elementi corruttibili; in breve, siete stati una perdita di tempo. La vostra amica, la signorina Fuyutsuki, è decisamente più malleabile di voi.»

«La convincerò a lasciar perdere.» Masa si costrinse a restare seduto. Sarebbe stato capace di strangolarlo. «Potrei raccontarle tutto quanto. Potremmo raccontarlo a chiunque.»

«Oh, ma sa già ogni cosa. Era una clausola del nuovo contratto; è stato piacevole farvi un torto attraverso lei. Inoltre, se mi permette, non credo che qualcuno sarebbe disposto a credere a una storia simile.»

«Allora ammette che è pura fantascienza. Probabilmente non si è nemmeno presentato con il suo vero nome.»

«Non volete conoscerlo per davvero.» Un sorriso pratico. «Non è un dettaglio importante.»

«Un’altra domanda, allora. Perché Koriyama?»

«È una città destinata a crescere. Dovreste saperlo: è la capitale finanziaria della prefettura.»

«E solo per questo ha deciso di ambientarvi la sua personalissima rivoluzione del mondo del lavoro?»

«Vede, Ikeshima? Lei chiacchiera sempre troppo.» Matsumoto si dondolò sui tacchetti dei mocassini e indicò con il mento le due ventiquattrore. «A dire il vero è una cosa che vi accomuna, ma ho deciso di proporre ugualmente un contratto a uno di voi. Tentar non nuoce. Con l’altro prometto di chiudere per sempre.»

Daisuke sollevò le sopracciglia in un sarcastico ed esagerato gesto di congratulazioni. «Lei è molto realistico, davvero. Ci sono ottime possibilità che qualcuno di noi desideri lavorare ancora per lei dopo quel che abbiamo scoperto. Posso già sentire gli applausi in sottofondo.»

«Lo so», gli rispose l’uomo, e gli scoccò un sorriso di squisita partecipazione. «Mi piace osare, Ido. I vincenti lo fanno sempre.»

Masa annusò una quasi concreta puzza di bruciato. Non c’era nulla del volto di quel demonio che lo rilassasse, né gli piacque lo sguardo che lasciò su Daisuke. Sembrava stesse osservando un ottimo e scontatissimo frullatore esposto in vetrina. «Va bene», si tuffò, e piantò la mano sulla propria valigetta, il palmo aperto, le dita rigide e tese. «Allora vuole farci aprire questi aggeggi? Vuole che giochiamo a chi ci trova il tesoro?»

Matsumoto aveva già recuperato dal fondo della tasca un paio di piccole chiavi. Il suono che produssero quando le lanciò sulla scrivania scampanellò rumorosamente nell’aria. Ad ognuna era appesa una targhetta che raffigurava le case sospese nel nulla e il ponte. «L’ho fatto anche con la vostra amica», si giustificò. «È il mio modo di presentare le belle sorprese. A lei non è dispiaciuto.»

«Dispiacerà a lei, capo, se il contratto è dentro la mia ventiquattrore», soffiò Masa. Pescò la chiave più vicina, ma scoprì che non girava nella serratura. Dopo un momento la inchiodò sulla valigia dell’amico, che lo guardava ammutolito, e provò con l’altra. Ci fu uno scatto deciso.

Quando aprì, gli sembrò che sul fondo ci fossero un paio di fogli. Poi realizzò che si trattava solo di una svista, di un’immagine piantatagli in testa dalla fretta e dalla collera, e allora rimase zitto, le mani chiuse a tenaglia sulla metà che teneva sollevata. Gli ci volle qualche secondo per recepire il messaggio del nulla che si era trovato di fronte. Non lui. Lui era libero di andarsene, di sputare su tutta quella faccenda, di voltare le spalle a tutto quell’insensato delirio. Era Daisuke a non esserlo.

Inaspettatamente gli venne da sorridere. Spalancò la ventiquattrore di colpo, consegnandone il nudo interno alla luce dell’ufficio con la delicatezza con cui si schiaffa una bistecca sul tavolo della cucina. «Io glielo dico, Matsumoto», se ne uscì, la bocca stesa in un’espressione di divertimento tanto plateale da riuscire artefatta. Si lasciò persino andare contro lo schienale della sedia, di punto in bianco, come un attore preso dal suo incredulo e fanatico monologo. «Glielo dico chiaro e tondo: il mio amico non firmerà proprio un cazzo.»

«Allora la star sono io?» domandò Daisuke. Mancava poco che si mettesse a ridere. Ritornò a guardare l’uomo, che si limitava ad osservare le loro reazioni con un filo di pietà dietro gli occhi, trasmettendo un divertimento sinistro e sottile. «Sono l’uomo?»

«Avverto un sarcasmo giovane e pungente», commentò lui. Sorridendo. «Non vuole nemmeno dare un’occhiata?»

«No. Anzi, sì.» E tornò serio, prese la chiave, la infilò nella piccola serratura, gli occhi fissi in quelli di Matsumoto. «Sì, ma solo per poterle strappare quei fogli sotto al naso.»

Poi accadde tutto un po’ troppo in fretta. D’improvviso Masa ebbe chiaro perché anni prima, a scuola, il professore di ginnastica gli aveva detto che lui per lo sport non sarebbe mai stato tagliato. “Hai dei riflessi pessimi, Ikeshima”, gli aveva annunciato. “Questo spiega l’incredibile numero di palloni che ti sono arrivati in faccia”. Fu un ricordo rapido ma preciso, così come fulminea fu l’impressione di déjà vu che gli si piantò nello stomaco come un pasto mal digerito. Semplicemente, non era pronto. Non lo sarebbe stato nemmeno se gli fosse stato consigliato di esserlo.

Daisuke aprì la ventiquattrore solo di pochi centimetri. Bastò quel piccolo spiraglio, quella fuga di neanche un quarto di metro per liberare di colpo una rumorosa colonia nera, una nube informe e fitta, un rotolare incoerente e monocromo. Mosche. Fu simile a togliere il coperchio da un pentolino colmo di acqua in ebollizione. Si riversarono all’esterno a migliaia, quasi un corpo solo, e presero il volto del ragazzo come un’enorme mano viva. Lui buttò la valigia ora spalancata sulla scrivania, gettò un grido che era sorpresa e orrore e volò all’indietro, rovesciando la sedia sotto di sé.

Masa si mosse solo in quel momento. L’istinto gli ordinò di scostarsi bruscamente, lo scalciò giù dal posto a sedere. Cadde di schiena, sui gomiti, le ginocchia appena sollevate, ma non avvertì dolore. I suoi occhi rimasero fissi sull’amico, che si rotolava a terra e si schiaffava ovunque, senza sconti, nel tentativo di togliersi di dosso quello sciame impaziente. Sembrava in preda ad un delirio. Il suo corpo brulicava, sembrava vestire un abito animato, uno strato translucido, folle, frenetico. Per quanto si agitasse, per quanto si spingesse indietro e implorasse aiuto, per quanto si picchiasse, le mosche ritornavano. Si contendevano i posti rimasti liberi, quelle chiazze di nero ancora poco affollate. Alcune, le più audaci, si infilavano nelle narici, nelle orecchie, nella bocca, fino a limitare le grida a rantolii malsani. Il loro ronzio cominciò a fare più rumore delle urla.

Masa vide tutto quanto. I muscoli gli si erano irrigiditi, le ossa quasi calcificate, il respiro fermato di colpo. Nemmeno riusciva a battere le ciglia. Avrebbe voluto alzarsi, scivolare sul pavimento, inciampare dalla fretta e gettarsi da Daisuke per togliergli di dosso quella massa convulsa e viva, quella demenza di zampe, sottile peluria nera e caleidoscopici occhi da insetto, ma non ci riusciva. Dio, era il suo migliore amico, ma non ci riusciva. Paura, disgusto, orrida incredulità, tutte emozioni che lo avevano inchiodato sul pavimento come un condannato sulla sedia elettrica. In bocca avvertiva il sapore acido e stantio del conato che gli si stava arrampicando in gola.

Non vomitò. Colse un movimento dall’altra parte della scrivania e solo in quel momento si ricordò di Matsumoto. Lui, quello delle ventiquattrore, quello col sorriso pratico e concreto. Quello che aveva visto per la prima volta sul Ventidue.

Quando si voltò a guardarlo, gli scoprì la testa un po’ più rotonda, lo sguardo un po’ più grande, rigonfio sulle tempie, le dita un po’ più lunghe, sottili come nervi. Si accorse di quanto i suoi capelli, così radi, così neri, somigliassero alla peluria quasi invisibile di un insetto, uno di quelli grossi, uno di quelli uguali agli altri, solo un po’ più... bipede. Uno di quelli che stanno in piedi e vestono un completo e una cravatta.

«L’avevo detto, Ikeshima, che con uno di voi avrei chiuso per sempre.» La sua bocca si era schiusa in un beccuccio rigido, grande quanto quello di un piccolo uccello. O di una mosca troppo cresciuta. Sembrava sorridere. «Non si muova. Non renda le cose più difficili.»

Masa capì e desiderò svenire. Lo desiderò così ardentemente da sentirsi sul punto di perdere i sensi.

Non fece in tempo.

__________



Note.

1 O Raijin. È, secondo la mitologia giapponese, il dio dei tuoni e dei fulmini.

2 Da Henry Ford. Per la sua industria automobilistica, nei primi anni del Novecento sviluppò il fortunatissimo metodo di lavoro basato sulla catena di montaggio, che consentiva di ridurre i costi e produrre nel minor tempo possibile. Il fordismo fu il trampolino di lancio per la produzione di massa.


   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Horror / Vai alla pagina dell'autore: Dew_Drop