Anime & Manga > Detective Conan
Ricorda la storia  |      
Autore: The Writer Of The Stars    23/06/2015    5 recensioni
“Kazuha …” sussurrò la signora Toyama attonita. Kazuha puntò gli occhi alla finestra della sua stanza, osservando le gocce schiantarsi con violenza sul vetro. Ingoiò un enorme groppo di saliva, maledicendo dentro di sé quei kamikaze, la ventiquattro ore di Heizo, le torri gemelle, la pioggia e settembre, che le avevano portato via la sua ancora di salvezza. Sentì la gola secca bruciarle terribilmente, come se non bevesse da anni. Con mano tremante portò il copricapo alla sua testa, abbandonandolo blandamente lì, sui suoi capelli scuri e scompigliati, sfuggiti al solito fiocco rosso.
Quanto era grande quel cappello per lei …
“Per favore, lasciatemi stare … svegliatemi quando finisce settembre …” sussurrò a mezza voce, fissando i nuvoloni scuri e la pioggia che cadeva dalle stelle di quella sera d’ inizio autunno.
------------------------------------
AU/ Ispirata da "Wake me up when september ends" dei Green Day
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Heiji Hattori, Kazuha Toyama | Coppie: Heiji Hattori/Kazuha Toyama
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
AU con diversa ambientazione!
(https://www.youtube.com/watch?v=lJHga4YcVyc canzone)

 
New York,11 settembre 2001
 
Heiji alzò gli occhi verso il cielo terso, inspirando piano l’aria irrimediabilmente inquinata della grande metropoli. Udì diversi clacson, strombazzamenti di mezzi pubblici, automobilisti maleducati e arrabbiati urlarsi tra di loro per una precedenza non rispettata. New York era così, caotica, colorata, rumorosa e multiforme. Vivere a New York era sicuramente una delle più grandi sfide per l’uomo del ventesimo secolo, ma a lui piaceva. La cosa più bella era, probabilmente, il fatto di incontrare gente sempre diversa. Amava prendere la metro solo per ascoltare le voci dei mendicanti che si mettevano a strimpellare qualche pezzo alla chitarra per un paio di centesimi davanti ai treni, gli davano un senso di vivacità e movimento continuo. La noia non gli apparteneva, non gli era mai appartenuta.

“Heiji? Hey, ci sei?” sobbalzò spaventato all’udire quella voce. Si voltò di scatto, urtando per sbaglio un elegante signora vestita con un sofisticato tailleur.

“Kazuha, mi hai fatto prendere un infarto!” la rimproverò enfatizzando la situazione, come sempre. Gli piaceva giocare con lei. La ragazza dai capelli color cioccolata lo fissò imbronciata, assottigliando lo sguardo con fare minatorio.

“Ma se ero qui con te pure tre minuti fa! Dì piuttosto che ti eri dimenticato di me!” esclamò piccata, incrociando le braccia al petto. Heiji ghignò leggermente, ridacchiando; quando si arrabbiava Kazuha assumeva quell’espressione che doveva teoricamente risultare minacciosa, mentre ai suoi occhi invece non era altro che tremendamente adorabile. Ma non glielo avrebbe mai detto.

“Beh in realtà su questo ti sbagli; fidati, sarebbe impossibile non accorgersi della tua presenza, se urli come una scaricatrice di porto.” Sibilò divertito a pochi centimetri dal volto della ragazza, facendola arrossire.

“S –smettila! Uffa, sei il solito antipatico!” esclamò Kazuha ritirandosi indietro e voltando il capo imbarazzata. Heiji ridacchiò, osservandola intenerito. Adorava Kazuha, da sempre. Erano migliori amici sin dalla nascita, si può dire. I loro genitori lavoravano insieme da una vita e il fatto che lui e Kazuha fossero nati lo  stesso anno, aveva contribuito a creare quel legame che li univa in maniera indissolubile da diciotto anni ormai. New York è grande, dispersiva, e Kazuha ne aveva sempre avuto paura. Timida, riservata, solitaria e senza amici, si aggrappava ad Heiji come un naufrago cerca disperatamente un salvagente per restare a galla e sopravvivere nel mare burrascoso che era la Grande Mela. Sapeva quanto fosse importante per lei la sua presenza, perché in verità non aveva nessun altro; da quando i suoi genitori si era separati, anni prima ormai, Kazuha veniva sbattuta ora a casa della madre, ora dal padre, in un susseguirsi di traslochi, notti passate su materassi sempre diversi e senza punti fissi a consolarla.

 Il punto fisso era uno solo; Heiji. Senza Heiji, Kazuha era persa. Ed Heiji non lo aveva mai ammesso, ma valeva lo stesso per lui. Immaginare la propria vita senza la figura minuta e indiscreta di Kazuha al suo fianco gli era a dir poco impossibile. Ci aveva provato una volta, e si era scoperto subito tremare violentemente alla prospettiva di poter perdere Kazuha.
Non lo sapevano direttamente, ma erano l’uno l’ancora di salvezza dell’altro.

“Andiamo,Kazuha, non fare la bambina, stavo scherzando!”esclamò Heiji nel tentativo di acquetare l’animo della propria migliore amica. Sapeva quanto complessa e piena di preoccupazioni fosse Kazuha; aveva sempre bisogno di conferme, come una bambina, del tipo “qualcuno mi vuole bene”, “qualcuno mi ama”, “non sono così orribile come credo.”

“Kazuha …” mormorò Heiji, avvicinandosi piano alla ragazza, che si era voltata di spalle senza rispondergli.

“Non dirmi che te la sei presa davvero! Scherzavo, lo sai che ti voglio bene …” le sussurrò serio ad un orecchio, prima di cingerla da dietro con le proprie braccia calde e allenate da anni di Kendo, stringendola dolcemente in un abbraccio che non aveva bisogno di parole. Kazuha sorrise piano, ricambiando la stretta.

“D’accordo, sei perdonato.” Esclamò d’un tratto Kazuha, sciogliendo piano l’abbraccio e voltandosi in direzione del ragazzo. Heiji non era mai così affettuoso con nessuno, detestava le smancerie in pubblico, ma con lei non gli era mai importato di un abbraccio dato in mezzo ad una folla di gente disinteressata.

Con lei ogni cosa andava bene.

“Comunque, non dovevi portare quella valigetta a tuo padre?” chiese subito dopo, indicando la ventiquattro ore stretta tra le mani del ragazzo. Heiji annuì, ricordandosi il motivo per cui anziché diretti verso la loro scuola, avevano dovuto compiere quella piccola deviazione verso le torri. Quella mattina, uscendo di casa per andare al lavoro, suo padre aveva dimenticato in cucina la valigetta contenente diversi documenti importanti  per il suo lavoro in ufficio e rendendosi conto di tale dimenticanza, Heiji aveva deciso di compiere una gentilezza nei riguardi del burbero genitore, portandogli la ventiquattro ore direttamente nella sua sede lavorativa.

Heiji e Kazuha osservarono intimiditi le due grandi torri gemelle. Mille volte ci erano passati davanti, sapendo che all’interno di quella meridionale vi era l’ufficio del padre di Heiji, da quando il signor Toyama si era invece trasferito in una sede più distante. Non erano mai entrati lì dentro e l’immagine di gente vestita di tutto punto con giacca e cravatta provocò loro un enorme senso di impotenza dinanzi a tutta quella professionalità.

“Bene, vado a portare questa a mio padre e torno. Aspettami qui, okay?” esclamò Heiji, voltandosi verso la ragazza. Kazuha annuì, continuando a fissare i due edifici.

“Sì, ma vedi di non combinare danni come tuo solito!” lo rimbeccò divertita, lanciandogli un’occhiata canzonatoria. Heiji ridacchiò, incamminandosi verso l’ingresso dell’edificio. Si voltò poco dopi attimi, gridando in direzione di Kazuha:

“Tranquilla, me la so cavare da solo!” con tono divertito, regalandole un sorriso piccolo e rilassato, uno di quei mezzi sorrisi che Kazuha aveva sempre adorato. Kazuha ricambiò il sorriso, osservando il cappello bianco con la scritta SAX sul capo di Heiji allontanarsi insieme al suo proprietario per poi sparire dietro le porte d’ingresso dell’imponente torre.
 

Kazuha abbassò lo sguardo in terra, osservando con indicibile interesse le ballerine marroni della sua divisa scolastica. Con noncuranza si passò una mano sulla gonna blu, lisciandola incurante, per poi posare la cartella in terra e portare entrambe le mani ai capelli, stringendo leggermente la coda di cavallo raccolta in un delizioso fiocco rosso, come sempre.
Heiji era entrato nella torre da mezz’ora ormai e lei cominciava a spazientirsi. Sapeva che fosse complesso riuscire a trovare un ufficio tra tutti quei piani uguali, ma accidenti, si vantava o no di essere un grande detective?

Sbuffò annoiata, riafferrando da terra la sua cartella colma di libri. Kazuha alzò lo sguardo verso il cielo pieno di nuvole,prevedendo a breve un temporale. Estraniandosi dal caotico vociare della gente attorno a lei, fissò le nuvole in silenzio, riflettendo tra sé sulla ramanzina da rifilare ad Heiji una volta uscito di lì.

D’un tratto, in mezzo alla confusione, udì qualcosa. Un fischio prolungato, come di un oggetto che precipita. Aguzzò l’udito, percependo il rumore farsi sempre più vicino. Proveniva dall’alto, dal cielo.

Un oggetto che precipita … un aereo che precipita. Si voltò di scatto in direzione delle torri dove aveva udito il fischio intensificarsi. Spalancò gli occhi smeraldini, sentendo la presa delle proprie mani intorno alla cartella abbandonarla.

“Ma cosa …” balbettò vedendo due veivoli dirigersi a velocità sempre maggiore contro le due torri.

“NO! Allontanatevi! Via di lì!” udì dietro di lei grida di gente terrorizzata, probabilmente si era accorti anche loro di quei due aerei. Kazuha abbandonò la cartella in terra, incapace di muoversi dinanzi allo spettacolo di quei due mezzi ormai a pochi metri dalle torri, sentendo l’ansia e la consapevolezza di ciò che stava per accadere montarle dentro.

“Vieni via di lì, spostati!” si sentì gridare contro, ma non mosse un muscolo, incapace di farlo. Si sentì d’un tratto afferrare da un paio di braccia forti e portare via di peso, verso il marciapiede antistante le torri, pochi secondi prima che gli aerei arrivassero agli edifici.

L’impatto fu violentissimo. In un solo secondo, Kazuha vide una delle due torri sbriciolarsi davanti a sé come se fatta di sabbia, come se inesistente. Intorno a lei si sentì circondata da grida ed urla disperate, o forse erano le grida di coloro che stavano morendo là dentro, non l’ avrebbe mai capito. Osservò con occhi sgranati la torre crollare dinanzi a lei e in un attimo realizzò che lì, dentro a quella torre, c’era Heiji.

D’un tratto i muscoli ripresero a funzionare. Kazuha si accasciò in terra, sentendo le gambe cedere. Restò per numerosi secondi con lo sguardo rivolto verso il vuoto, respirando a fatica e percependo gli occhi riempirsi.

“Heiji …” sussurrò afona tra sé.

“H – Heiji …”ripeté un po’ più forte, in un tono di supplica forzata.

“N – no … Heiji! Heiji!” gridò d’un tratto, come se avesse appena riacquistato la voce dopo attimi di coma interiore.

“Heiji!” gridò con tutte le forze che aveva, sbattendo i pugni in terra con violenza, facendosi male ma fregandosene del dolore. Percepì altre grida più potenti sovrastarsi alle sue di ragazzina innamorata che si è
appena resa conto di aver perso la propria ancora di salvezza, la sua Ikigai*. Aveva perso se stessa, nella maniera più crudele e inspiegabile che possa esserci.
Si accasciò su di sé singhiozzando violentemente, alla ricerca di un perché di una morte così. Cosa aveva fatto Heiji? Compiere un gesto di affetto nei confronti di un padre meritava ora la morte?
Sentì alcune mani premurose sostenerla, afferrarle le spalle, scuoterla per risvegliarla da quell’incubo troppo tangibile, troppo vero. Kazuha allontanò tutte quelle mani sconosciute con rabbia, desiderando solo due mani calde e scure stringerla con delicatezza,come avevano sempre fatto. Alzò per un attimo lo sguardo, scoprendo ciò che restava di quelle che fino a nemmeno venti minuti prima erano state il simbolo dell’economia americana. Non vi erano più centinaia di piani a svettare su verso il cielo carico di nuvole, ma solo cemento distrutto accatastato per terra, macerie come tomba di centinaia di persone, tra cui il suo Heiji. D’un tratto, in mezzo al grigiore desolante delle macerie, scorse in lontananza qualcosa di bianco e piccolo svettare tra il resto. Assottigliò gli occhi gonfi di lacrime nel tentativo di scoprire di cosa si trattasse, sentendosi mancare nel momento in cui realizzò che quello era un cappellino da baseball. Bianco, con la scritta SAX difficile da vedere a quella distanza eppure cucita nella sua memoria. Kazuha osservò il cappellino di Heiji, sentendo alle sue spalle gente parlare, gridare, muoversi, correre alla ricerca di aiuto, chiamare ambulanze e vigili del fuoco. Lei invece rimase immobile, senza muovere un muscolo. Fissò il cappellino di Heiji senza parlare, senza alzarsi, senza muoversi. Piangendo solamente, come non aveva mai fatto in tutta la sua vita.
 

 
“Kazuha!”

Kazuha corse nella propria stanza, sbattendo la porta alle sue spalle con forza. Appoggiò la schiena al muro, lasciandosi scivolare fino a trovare il pavimento dove si sedette sconfitta.

Non ce l’aveva fatta. Era scappata via dalla chiesa piangendo, correndo per le strade senza mai alzare gli occhi, rischiando di venire investita da un momento all’altro.

Non era riuscita ad ascoltare le parole del prete che non ne sapeva niente in realtà. Non era riuscita a sostenere lo sguardo impietosito della gente che indicava prima la bara e poi lei, parlottando tra loro.

Non era riuscita a guardare la bara di Heiji. Aveva tenuto sempre lo sguardo basso, dal momento in cui era entrata in chiesa fino ad allora. Per un attimo, solo per un istante, durante il discorso del sacerdote a  cui non aveva prestato la minima attenzione, aveva cercato timidamente di alzare gli occhi verso l’altare, e quello era stato il suo errore più grande. Aveva intravisto prima la bara scura di Heizo Hattori, grande e pesante. Poi, al suo fianco, la sua.

Heiji amava i fiori di ciliegio. Le ciliegie erano il suo frutto preferito e sua madre aveva deciso quindi di donargli per la sua sepoltura una bara in legno di ciliegio. Era chiara, levigata e ben rifinita, con numerosi mazzi di fiori posati sopra. Aveva per un attimo immaginato Heiji, il suo allampanato e bellissimo Heiji, chiuso lì dentro, con gli occhi chiusi, immobile per sempre. E non ce l’aveva fatta.
Aveva stretto con forza il suo cappellino bianco che era riuscita a farsi dare dalle mani di un vigile del fuoco impietosito dalle sue lacrime, e si era alzata di scatto, correndo via dalla chiesa. Sua madre subito si era voltata e probabilmente doveva averla seguita, ma non le era importato in verità, perché in quel momento voleva solo sfuggire da quel luogo sacro, da quei nuvoloni scuri e da quella pioggia di settembre che aveva sempre odiato, ora più che mai.


Chiusa nella sua stanza,Kazuha reclinò il capo all’indietro, piangendo senza singhiozzare. Strinse con forza il cappellino da baseball di Heiji, rievocando allora per la prima volta un episodio che la distrusse ancora di più.
 


“Heiji! Heiji, accidenti, vuoi aspettarmi?!” il bambino dalla carnagione olivastra sbuffò spazientito, fermandosi comunque ad attendere la propria migliore amica rimasta indietro per l’ennesima volta.

“Sei sempre la solita lumaca.” La rimbeccò non appena Kazuha lo ebbe raggiunto. La bambina incrociò le braccia al petto, stizzita.

“E tu sei sempre il solito idiota!” esclamò di rimando la piccola. Guardandosi poi intorno, si stupì del paesaggio che li circondava. Un ruscello, piccolo ma colmo di acqua limpida, scorreva in mezzo al bosco rigoglioso dove Heiji l’aveva portata quel pomeriggio di fine estate. Il riverbero calante della luce solare si insinuò tra le fronde dei rami, creando giochi di luce e d’ombra sui volti di quei due piccoli bambini di appena otto anni.

“Che bello qui!” esclamò Kazuha sognante. Heiji ridacchiò, annuendo piano.

“Ovvio che è bello, ti ci ho portato io!” esclamò trionfante, prima di ritrovarsi stretto in un abbraccio forte ma al tempo stesso delicato.

“Grazie.” Sussurrò Kazuha, stringendolo piano. Heiji arrossì di colpo, borbottando qualcosa di incomprensibile che doveva risuonare come un “non c’è di che.” Poi, staccandosi di colpo, Kazuha afferrò il cappellino bianco che Heiji aveva in testa, indossandolo lei stessa e prendendo a correre.

“Prendimi,se ci riesci!” gridò ridendo. Heiji, fingendosi arrabbiato,la rimproverò, cercando di afferrare il cappello.

“Kazuha, ridammi il cappello!”
“Perché, mi sta così bene …” rispose con finta ingenuità. Heiji sbuffò esasperato, alzando gli occhi al cielo.

“Ascolta, facciamo così; se un giorno deciderò di non volere più quel cappello, lo regalerò a te, va bene?” propose. Kazuha sgranò gli occhi, sorridendo entusiasta.

“Va bene, ci sto.”

“Bene, e ora ridammelo …”

“Ho detto che ci sto, non che ora ti do il cappello. Se lo vuoi, vieni a prenderlo!” esclamò ridendo, riprendendo a correre.

“Kazuha!” gridò Heiji inseguendola, non evitando però di ridere.

 
 

“Kazuha!” la signora Toyama si avvicinò alla porta chiusa, poggiandovi una mano con delicatezza.

“Kazuha … va tutto bene?” chiese con voce tremante.
 Dall’altra parte della porta Kazuha serrò gli occhi, avvicinando il cappellino di Heiji al viso e affondandovi il volto.

“Lasciatemi in pace …” sussurrò sconfitta.

“Lasciatemi in pace, vi prego …” ripeté a voce più alta, in una sorta di supplica.

“Ma, Kazuha …”

“Basta! Andate via, via! Voglio stare da sola!” gridò piangendo con voce arrochita, inondando il cappellino di Heiji di lacrime.

“Kazuha …” sussurrò la signora Toyama attonita. Kazuha puntò gli occhi alla finestra della sua stanza, osservando le gocce  schiantarsi con violenza sul vetro. Ingoiò un enorme groppo di saliva, maledicendo dentro di sé quei kamikaze, la ventiquattro ore di Heizo, le torri gemelle, la pioggia e settembre, che le avevano portato via la sua ancora di salvezza. Sentì la gola secca bruciarle terribilmente, come se non bevesse da anni. Con mano tremante portò il copricapo alla sua testa, abbandonandolo blandamente lì, sui suoi capelli scuri e scompigliati, sfuggiti al solito fiocco rosso.

 Quanto era grande quel cappello per lei …

“Per favore, lasciatemi stare … svegliatemi quando finisce settembre …” sussurrò a mezza  voce, fissando i nuvoloni scuri e la pioggia che cadeva dalle stelle di quella sera d’ inizio autunno.

 
 

*Ikigai: termine giapponese che indica la ragione per cui ci alziamo ogni mattina, la nostra ragione di vita, insomma.

Nota autrice:
E per la serie “Non è colpa mia, ma dei Green Day” sono tornata con una nuova one shot ispirata da una canzone di quei tre scapestrati!
Okay, “Wake me up when september ends” è la mia canzone preferita dei Green Day. Billie Joe l’ha scritta in onore del padre, morto di cancro quando lui era solo un bambino. A settembre.
Credo che sia la prima AU che scrivo su Heiji e Kazuha (se AU si può considerare, ho cambiato solo l’ambientazione da Osaka a New York per le esigenze della storia) e anche se SkyDream mi ucciderà per questa cosa (che forse non sarà peggio di “If you say so” ma siamo più o meno lì) spero vi sia piaciuta.
Alla prossima!
TWOTS
   
 
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Detective Conan / Vai alla pagina dell'autore: The Writer Of The Stars