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Autore: Kim WinterNight    25/06/2015    8 recensioni
La vita a volte ci riserva meravigliosi incontri che ci fanno riflettere su ciò che siamo e che vogliamo realmente essere.
A volte, basta la presenza di una persona speciale per farci crescere e superare le nostre debolezze.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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La storia partecipa al contest “It's too cliché” indetto da rhys89 sul forum di EFP

http://freeforumzone.leonardo.it/d/11034207/It-s-too-cliché-multifandom-solo-AU-originali-/discussione.aspx/1




Is not really hard to find a solution






Avrei voluto essere a casa a rilassarmi di fronte alla tv, invece i miei compagni di classe avevano insistito per fare quella stupida uscita di gruppo.

Stava per terminare l'anno scolastico, eravamo arrivati quasi tutti illesi in quinta superiore e ci sentivamo sfiniti, nonostante sapessimo di dover fare un ultimo sforzo per l'esame di maturità.

Mi trovavo bene con i miei compagni, non era questo il punto. Il problema era che non amavo le discoteche e i locali troppo affollati, anche se la loro compagnia non mi dispiaceva.

Le mie compagne erano venute in massa a casa mia prima dell'uscita, costringendomi ad infilarmi in un miniabito di satin azzurro elettrico e a sfoggiare tacchi vertiginosi, i quali mi distruggevano letteralmente i piedi. Tuttavia, mi sentivo favolosa e odiavo ammettere che per essere belle bisognava davvero soffrire.

La serata procedeva bene e io me la cavavo abbastanza bene, se evitavo di muovermi troppo o declinavo con successo gli inviti che i ragazzi continuavano a farmi, offrendomi un giro in pista a ritmo delle hit del momento.

Ad un certo punto, Daniele mi si avvicinò sorridendo con fare malizioso. Era uno dei più carini della classe e sapeva sempre come ammaliare una ragazza. Mi ero presa una cotta per lui durante la quarta superiore e da allora speravo che mi notasse, senza mai ottenere grandi risultati.

«Deny, che fai qui tutta sola?» mi domandò, avvicinandosi ancora un po' e guardandomi dritto negli occhi.

«Non sono una grande ballerina, così mi limito a ridere di voi» ribattei, trattenendomi per non lanciare un'occhiata terrorizzata alle zattere che avevo ai piedi.

«Brava. Mi accompagni a fumare?»

Rimasi interdetta per un attimo, poi mi sciolsi in quello che ai suoi occhi doveva essere un sorriso ebete.

«Lo prendo come un sì» aggiunse, offrendomi il braccio.

Saltai giù dallo sgabello e lo afferrai, grata per quel gesto. Avere un'ancora di salvezza in quel momento corrispondeva al più ambito dei miei desideri.

Ci avviammo all'uscita sul retro, senza che nessuno dei nostri compagni si accorgesse di nulla. Tutti erano impegnati a ballare come matti o ad ubriacarsi in qualche angolo della discoteca. La mia parte maliziosa elaborò un pensiero: avrei scommesso qualunque cosa che qualcuno era finito a copulare in un bagno.

Una volta fuori, la fresca brezza di fine maggio mi accarezzò braccia e gambe, rinfrancandomi un po'. Fosse stato per me, sarei rimasta là fuori per tutto il tempo, finché tutta la combriccola non avesse deciso di andarsene.

Osservai Daniele fumare con calma, leccandosi le labbra ad ogni boccata. Era una caratteristica che avevo sempre amato di lui, anche quando ci ritrovavamo tutti insieme sulle scale antincendio, a scuola.

«Denise, hai mai provato?» mi domandò all'improvviso, agitando leggermente la sigaretta.

«Una volta. Stavo per morire soffocata» raccontai con ironia, mentre mi osservavo furtivamente le scarpe. Detestavo il dolore e l'instabilità che mi procuravano, ma ormai era troppo tardi per rimpiangere un paio di sandali raso terra.

«Non mi dire» ridacchiò lui, per poi gettare a terra il mozzicone.

Feci per avviarmi nuovamente verso la porta, ma lui mi afferrò con un gesto fulmineo, stringendomi con forza il polso.

Rimasi impalata a fissarlo, mentre mi rendevo tristemente conto che eravamo completamente soli e che nessuno avrebbe potuto sapere che eravamo lì, insieme. I nostri compagni, tra l'altro, avrebbero senz'altro pensato che ce la stessimo spassando.

«Daniele, che succede?» balbettai, cercando di divincolarmi dalla sua presa.

Per tutta risposta, mi afferrò le braccia con entrambe le mani e mi sbatté al ruvido muro che fiancheggiava la porta, mentre il fiato mi si mozzava in gola.

«Ci conosciamo da molto tempo, Denise... ma solo oggi capisco cosa mi sono perso» mormorò, accarezzandomi una coscia.

Soffocai un grido, sperando che stesse scherzando. Sì, Daniele mi piaceva, ma non avevo la minima intenzione di concedermi così a lui. Non ero pronta per questo!

«Non capisco...» balbettai, cercando di spingerlo via.

«Sei sexy con questo vestito, anzi... direi che sei... scopabile» aggiunse, leccandomi avidamente un orecchio.

«Daniele... forse dovremmo rientrare, gli altri...»

«Oh no, forse dovresti darmela e non fare la preziosa, eh, Denise?»

«No, Daniele!» sibilai, incapace di pronunciare quelle parole con decisione. Ero terrorizzata e mi pentii di avergli sbavato dietro per un sacco di tempo. Non era altro che un verme.

«Ma sì, sta' ferma» ordinò, infilando una delle sue cosce tra le mie per farmele divaricare.

Proprio mentre stava per toccarmi tra le gambe, lanciai un gridolino e tentai ancora di respingerlo. Lui però si opponeva con forza, ridacchiando in maniera disgustosa.

A quel punto udii una voce alle sue spalle.

«Ragazzino, cosa cazzo fai?»

Daniele balzò letteralmente indietro, lasciandomi andare. Io, stravolta e indebolita dal terrore, mi lasciai scivolare contro la parete e fissai dritto davanti a me, abbracciandomi le ginocchia con le braccia.

Un uomo sulla trentina se ne stava in piedi con i pugni serrati, guardando Daniele con fare minaccioso.

«Io... noi... stavamo solo scherzando, non è vero, Deny?» arrancò il mio compagno di classe.

Il mio salvatore mi scrutò, poi colpì Daniele con un pugno in pieno viso. Quello crollò a terra e si premette entrambe le mani sul naso, bestemmiando come un idiota.

«Stai bene?»

La voce dell'uomo si era fatta più vicina, così mi resi conto che si stava rivolgendo a me. Spostai i miei occhi su di lui e lo trovai accovacciato di fronte a me che mi osservava con attenzione, esaminando le mie condizioni.

«Sì, credo... oh, non ci credo» blaterai, nascondendo il viso tra le ginocchia.

«Sei da sola con lui?» insistette lui, con tono deciso.

«No. Dentro ci sono i nostri compagni di classe.»

«Vieni» mi incitò, sfiorandomi appena la spalla. D'istinto, mi ritrassi. Non ero smaniosa di essere toccata dopo la brutta esperienza di poco prima.

«Scusami... riesci ad alzarti?»

Annuii, poi raccolsi tutte le mie forze e mi sollevai da terra. Mi spazzolai distrattamente il vestito, ma ero troppo scossa per riuscire a camminare. Sospirando, tesi la mano verso lo sconosciuto, senza mai guardarlo in viso. Ero in uno stato di shock che non mi permise di osservarlo.

Intanto, Daniele aveva smesso di imprecare e stava immobile sul pavimento, con le mani sulla faccia.

Proprio in quel momento, Angelica ed Elena uscirono dal locale e rimasero impalate a fissare la scena.

Non appena si accorsero delle mie condizioni, corsero a sostenermi.

Allora cominciarono a pormi un fiume di domande alle quali non sapevo rispondere, non riuscivo a capire tutto ciò che mi veniva detto e stentavo a reggermi in piedi.

Non so come rientrai a casa quella sera, ma prima di scivolare definitivamente nel sonno, ringraziai mentalmente l'uomo che mi aveva salvato.







Il mio lavoro poteva essere soddisfacente e piacevole, a volte.

In quel caso, infatti, lo sarebbe stato. Mi sentivo bene quella mattina, mentre mi preparavo per recarmi nel posto prestabilito.

Indossai quello che ormai definivo un costume di scena: una lunga parrucca di dreadlocks (sì, avevo trentadue anni e non mi rimaneva un solo capello in testa), un bel cappello da cowboy alla Slash, pantaloni larghi a cavallo basso (comodi e funzionali, ma soprattutto giovanili) e una t-shirt a maniche corte con una stampa appariscente in stile graffito. Ero favoloso!

Il mio fedele amico, nonché autista e accompagnatore, Alessio mi venne a prendere alle otto e mezza e ci mettemmo in marcia.

Non appena giungemmo a destinazione, fissai con curiosità l'edificio di fronte al quale avevamo parcheggiato: le mura grigiastre erano ricoperte di graffiti, mentre non si contavano le scale antincendio e qualche gruppetto di persone intento a fumare e chiacchierare. Il cortile, tuttavia, era semideserto.

Ci trovavamo in un liceo, perciò calcolai che alle nove meno cinque del mattino la maggior parte degli studenti doveva essere in classe.

«Patrizio, andiamo?» mi esortò Alessio, chiudendo a chiave l'auto.

Scrutai il mio amico attraverso le lenti gialle a specchio dei miei occhiali da sole, poi annuii e ci avviammo.

Una volta entrati nell'atrio della scuola, i bidelli sobbalzarono, fissandomi con disappunto.

«Cosa desiderate? Non vogliamo comprare niente» bofonchiò una bidella bassa e grassoccia, notando il borsone che Alessio portava per me. Lì dentro c'era tutto il mio sapere, ciò di cui avrei parlato ai ragazzi di quinta superiore e, in più, qualche omaggio per loro. I fan si conquistano per gradi, uno dei segreti per farlo è coinvolgerli e farli sentire sempre importanti.

«Non siamo qui per offrirvi delle meravigliose calze in spugna» risposi, sfilandomi gli occhiali da sole e sorridendo gaiamente alla donnina. «Salve, bella signora. Siamo qui per il seminario musicale dedicato alle classi quinte. Vorremmo parlare con il professor Carmine Lugli» aggiunsi, stringendo con vigore la mano paffuta della bidella.

Lei mi lanciò un'occhiataccia e borbottò in direzione dei suoi colleghi. Uno tra i più giovani scattò a cercare l'insegnante e io indicai ad Alessio i distributori automatici.

«Prendiamo un caffè?» proposi.

Lui sospirò e si trascinò fin lì, cercando qualche moneta nelle tasche dei suoi consunti jeans.

«Vuoi qualche spicciolo?» domandai, tanto per essere cortese.

«No, no...»

Alessio si fece preparare due caffè dal distributore, poi li sorseggiammo in silenzio.

Nel frattempo, un uomo dall'aspetto eccentrico, i capelli bianchi a spazzola e un sorriso smagliante ci raggiunse, scortato da un trafelato bidello.

«Salve, lei deve essere Patrick the Prince, sono molto lieto di averla qui!» esordì il professore, stringendomi la mano.

«Salve, professor Lugli. Il piacere è tutto mio. Può chiamarmi pure Patrizio e darmi del tuo. Lui è Alessio, il mio fedele braccio destro, mi accompagna sempre durante le serate» spiegai, con tono professionale.

«Anche tu puoi darmi del tu. Piacere, Carmine. Bene, se avete finito la colazione, potete seguirmi. Tra qualche minuto suonerò la campanella e potremo andare insieme nella prima quinta che dovrete visitare.»

«Certo, certo! Alessio, buttami il bicchiere per favore, eh? Andiamo, su!»

Alessio ci seguì controvoglia, dopo aver gettato i rifiuti e aver afferrato il mio borsone.

Chiacchierai per un po' con Carmine, poi la campana suonò e lui ci condusse lungo il corridoio principale, per poi entrare in un'aula spaziosa e ben illuminata.

Gli studenti stavano facendo un baccano infernale, così attendemmo che lui rimettere in riga i ragazzi prima di entrare.

«Bene, vi presento con orgoglio Patrick the Prince e il suo aiutante, ehm... Alessio. Sono qui per parlarci del loro lavoro, di cosa significa fare musica e andare in giro a farla conoscere a tutti. Dategli il benvenuto e fategli un bell'applauso!» tuonò Carmine.

Noi facemmo il nostro teatrale ingresso, mentre uno scrocio di applausi ci accoglieva calorosamente.

Osservai con curiosità la classe: c'era egual numero di ragazzi e ragazze, più o meno. Erano tutti sorridenti dall'aria accaldata. Mi fecero ricordare i tempi in cui anche io ero stato uno studente. I bei tempi dell'Alberghiero...

Poi i miei occhi si posarono su una ragazza minuta e in disparte, che indossava abiti sportivi e sfoggiava una coda di cavallo.

La mia mente la riconobbe all'istante, mentre i ricordi mi appannavano la mente: la rividi stravolta, con un abito blu che la copriva a malapena, dei tacchi su cui non sapeva camminare e un'espressione terrorizzata a distorcere il bel viso.

Istintivamente, cercai con lo sguardo il suo aggressore e lo trovai stravaccato su una sedia, con un cerotto sul naso e l'aria indifferente di chi riesce ad ottenere sempre ciò che vuole.

Il sangue mi ribollì nelle vene e tornai a concentrarmi sulla ragazza. Qualche ciuffo dei suoi capelli castani ricadeva sul viso, facendola sembrare triste e sconsolata. Doveva essere provata dall'esperienza di pochi giorni prima, perché sollevò a malapena il viso quando salutai e ringraziai Carmine per l'invito.

Notai che la sua compagna di banco, una biondina con un po' troppa ricrescita corvina, le sussurrava qualcosa all'orecchio. La mora sollevò il suo sguardo su di me, ma non parve riconoscermi.

La cosa mi ferì, però tentai di non pensarci troppo e mi concentrai su ciò che dovevo fare.

«Bene ragazzi, ho portato qualcosa per voi» cominciai, senza degnarla più di uno sguardo.







«Deny, mi sembra di averlo già visto quello... mamma, come ti guardava!» mi bisbigliò Elena, mentre il tizio che il prof Lugli aveva contattato per il seminario musicale blaterava su quanto fosse stancante la sua vita all'insegna di viaggi, concerti e ore in studio di registrazione.

Ci aveva da poco distribuito delle stupide cartoline con la sua faccia da ebete stampata sopra e io non ne potevo più di ascoltarlo. In più, sentire quel cretino di Daniele sghignazzare dall'altra parte dell'aula mi dava letteralmente sui nervi.

Una cosa positiva di quel Patrick fu che non perdeva mai l'occasione di punzecchiare Daniele, come se l'avesse preso in antipatia fin da subito e non sopportasse a priori il suo modo di fare. Per questo, guadagnò un punto nella scala della mia scarsa sopportazione.

«Deny!» sibilò ancora la mia amica, dandomi un leggero colpetto sulla spalla.

Mi voltai a guardarla, sbuffando.

«Non mi interessa, può anche evitare di guardarmi. Dopo la storia con il troglodita non ne voglio sapere. In più, è davvero ridicolo, andiamo! Hai visto quei capelli?»

«Oh, sono sexy. Stanno bene con quel cappello da film western e i jeans da gangster» ridacchiò, strizzandomi l'occhio.

Mi venne da ridere, perché in effetti consideravo quel bell'imbusto un personaggio più che ridicolo. Alcuni miei compagni sembravano conoscerlo e apprezzarono molto la sua presenza e i suoi piccoli regali.

Quando il seminario terminò, tirai un sospiro di sollievo e mi preparai per andare a recuperare la prima dose di caffeina della giornata.

Mi alzai, mentre rovistavo distrattamente nel portamonete e chiesi ad Elena se aveva voglia di accompagnarmi.

«Andiamo, prenderò un tè, così ti faccio compagnia.»

Uscimmo dall'aula poco prima che lo facessero Patrick e il suo aiutante, che intanto erano stati fermati da una piccola folla di fan che speravano di sapere qualcosa in più rispetto a ciò che lui aveva già raccontato. Qualcuno chiedeva di poter fare qualche foto con lui o di avere un suo autografo.

«Ele, penso che saresti dovuta nascere in Inghilterra. Non tutti sono predisposti ad assumere teina come fai tu» commentai, prendendo Elena sottobraccio.

«Me lo dici sempre, amore, penso che prima o poi mi trasferirò.»

Ridendo, continuammo a camminare, finché non udii qualcuno che gridava alla mie spalle e ciò mi indusse ad arrestarmi di botto. Mi voltai, spaesata, scrutando lungo il corridoio, e notai Patrick che si sbracciava nella mia direzione, camminando a passo svelto verso me ed Elena.

Io e lei ci scambiammo un'occhiata interrogativa, corrugando la fronte.

«Scusate, scusate se vi interrompo!» esordì lui, fermandosi a pochi passi da noi.

Elena ridacchiò, lisciandosi una ciocca di capelli biondi.

Osservai il nostro interlocutore, confusa, non sapendo esattamente cosa dirgli.

«Potrei parlare con te?» mi domandò, facendo scontrare i suoi occhi scuri con i miei.

Se escludevo il resto, quelle iridi non erano niente male. Però, a livello estetico, non era decisamente il mio tipo. Mentre lo esaminavo, una domanda pigra e maliziosa mi attraversò la mente: chissà se quei capelli erano veri...

«Con me? Perché, scusi?» mi informai, mentre notavo Elena soffocare una risata.

Lui annuì, senza aggiungere altro.

«Ehm... okay, mi dica» gli concessi.

Patrick lanciò uno sguardo eloquente ad Elena, la quale smise di ridere e sgattaiolò verso i distributori automatici, lasciandoci soli.

Ancora non capivo cosa volesse da me, dal momento che non ci conoscevamo e che non ero io ad essere la star, fino a prova contraria.

«Volevo soltanto chiederti se ti ricordi di me» disse infine lui, dopo qualche attimo di silenzio.

Scossi il capo, sconsolata. Non avevo idea di chi fosse fino a quella mattina, ma la cosa non mi importava poi tanto.

«Mi dispiace, non la conosco.»

«Non darmi del lei, del resto ho solo trentadue anni e non mi piace sentirmi vecchio. Sono Patrizio, piacere» ribatté, tendendomi la mano.

Gliela strinsi con cautela, trovando in essa una strana sensazione di conforto e di tranquillità.

«Io sono Denise. Ma, ehm... dimmi, come mai dovrei ricordarmi di te? Ci conosciamo? A me non sembra» mi affrettai a chiarire, senza lasciar andare la sua mano.

Lui mi guardò negli occhi e mi sentii avvampare. Non capivo esattamente cosa stesse accadendo, comunque cercai di mantenere la calma.

Allora Patrizio compì un gesto che mi lasciò sbalordita: mi accarezzò con estrema delicatezza il dorso della mano, prima di mollare la presa.

Poi sganciò la bomba: «Ero io, l'altra notte. Quando quel ragazzo cercava di... insomma, ero io».

Rimasi interdetta. Non sapevo se mi avesse spiazzato maggiormente la sua carezza o le parole che l'avevano seguita.

L'unica cosa che riuscii a farfugliare fu: «Ah, eri tu?».







Non saprei spiegare neanche a me stesso cosa mi spinse, quel giorno, ad aprirmi così tanto con Denise.

Forse aveva diciotto anni, ma non ne ero certo. Era pressoché una bambina, eppure mi sentivo in qualche modo in dovere di proteggerla. Non mi era mai capitato di assistere ad una tentata aggressione, né tantomeno di riuscire ad interromperla.

Perciò, raccontai a Denise, mentre sorseggiavamo un caffè, chi ero veramente.

«So che ti viene difficile credermi, ma quella sera non avevo la parrucca. Be', sì... è imbarazzante, non ridere! Il fatto è che non mi è rimasto più neanche un capello in testa, così – per sembrare un po' più simile e vicino ai miei fan, che sono essenzialmente ragazzini – ho trovato quest'alternativa.»

«Quindi quella sera eri in... borghese?» domandò, stringendo con forza il bicchiere di plastica tra le mani.

«Brava. In borghese. Solo chi mi conosce davvero, può riconoscermi quando non sono Patrick the Prince.»

Denise scosse energicamente il capo, poi finì di trangugiare il suo caffè e sospirò.

«Ma è una cosa tremendamente stupida!» esclamò infine, lanciandomi uno sguardo colmo di pietà.

«So che può sembrarlo, ma...»

«Lo è, punto e basta» tagliò corto, per poi andare a gettare il bicchiere vuoto.

Quando tornò da me, aveva stampato in viso uno strano sorriso, difficile da decifrare.

«Grazie comunque, se non fossi arrivato tu, Daniele... non mi aspettavo sarebbe arrivato a tanto» affermò con rabbia.

«Ma non è successo, questo è l'importante» la rassicurai. Impulsivamente, le lasciai una carezza sul capo, sistemandole una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

Lei si ritrasse e mi fulminò con lo sguardo.

«Scusa, scusa... okay, be', sono contento di averti conosciuto, Denise.»

«Anch'io. Parlare con te non è poi così male.»

Rimasi piacevolmente sorpreso da quelle parole. Stavo per ribattere, quando la sua amica biondina la raggiunse, incitandola a tornare in classe con lei perché si era fatto tardi.

«Devo andare» mi disse Denise, sorridendomi.

«Se ti va, sabato ho una data qui vicino. Mi farebbe piacere vederti tra il pubblico» le proposi. Poi aggiunsi: «Cercami su facebook con il mio nome d'arte, così ti spiego tutto».

Lei sollevò il pollice in segno di assenso e corse via insieme alla sua compagna, ridendo e animando il corridoio con la sua voce dolce e melodiosa...

«Patri, non è che ti sei preso una cotta per quella bambina?» mi apostrofò Alessio, poi afferrò il mio borsone e insieme raggiungemmo nuovamente Carmine, mentre io borbottavo indignato per la bassa insinuazione del mio braccio destro.







E così giunse sabato.

Alla fine, avevo cercato Patrizio su facebook e avevamo parlato della serata a cui mi aveva invitato. Inizialmente non ero tanto sicura di volerci andare, poi ne avevo parlato con Elena e Angelica e loro non avevano voluto sentire storie: dovevamo assolutamente esserci!

Quindi, mi ero infilata in un paio di jeans, avevo indossato una camicetta leggera a maniche corte e affidato i miei piedi alle mie fedeli scarpe in tela rosse.

Quando le mie compagne di classe mi videro, scossero sconsolate il capo, poi osservarono con disgusto il mio abbigliamento, per poi sorridere nel rendersi conto che il loro look era – fortunatamente – appropriato.

L'evento si teneva all'aperto. Più precisamente, era stato organizzato dai gestori di un chiosco situato all'interno di un bel parco.

Una volta giunte a destinazione, notammo subito una figura familiare che giocava a palla con un bambino. I finti capelli di Patrizio erano inconfondibili, perciò lo riconobbi all'istante.

Facendo in modo che non mi notasse, trascinai le mie amiche su una panchina poco distante, che rimaneva in una zona in ombra e lontana dai lampioni disseminati qua e là nel parco.

Tutte e tre ce la ridemmo, mentre notavamo Patrizio divertirsi e complimentarsi con il piccolo, che doveva avere al massimo sei anni. Mi domandai pigramente se fosse suo figlio, ma su facebook non avevo trovato niente che lo collegasse ad una compagna o ad una paternità. Chissà chi era quel delizioso marmocchio.

Dopo un po', udii una bella canzone reggae in sottofondo e ciò mi fece venir voglia di ballare. Quel ritmo era trascinante e bellissimo. Avevo ascoltato qualcosa di Patrick su YouTube e mi ero resa conto che la sua musica non era niente male. Aveva una bella voce e cantava su splendidi ritmi reggae e di vari sottogeneri. Era stato anche questo a convincermi a partecipare a quella serata.

Dopo qualche minuto, decisi di andare a salutarlo, incoraggiata da quelle perfide delle mie amiche.

«Sì, va bene, vado! Noiose!» borbottai, alzandomi dalla panchina e avviandomi con calma verso Patrizio e il suo piccolo compagno di giochi.

Proprio in quel momento, una pallonata calciata dal bimbo mi colpì in pieno viso e mi fece barcollare. Imprecando, mi portai le mani a tastarmi il sopracciglio destro. Mi accorsi che stavo perdendo sangue e imprecai nuovamente.

In quel momento, Angelica, Elena e Patrizio mi circondarono, preoccupatissimi.

Cominciarono a chiedermi come stavo, mentre io cercavo a stento di non piangere. Il dolore era abbastanza forte, ma non era il caso di farne una tragedia, così sollevai le mani in segno di resa e scossi il capo, indietreggiando.

«Basta, calmatevi! Sto bene!» sbottai.

Le mie amiche si scambiarono un'occhiata, poi Elena parve illuminarsi e afferrò Angelica per un polso.

«Andiamo al bar a prendere del ghiaccio» ordinò, e insieme partirono di corsa verso il chiosco.

In quel momento mi accorsi che Patrizio mi stava stringendo la mano con apprensione, scrutandomi in viso.

«Sicura che sia tutto a posto?»

Annuii, incapace di dire qualsiasi cosa. Ero sotto shock, mentre la tempia mi pulsava.

«Elia, vieni qui!» gridò una voce femminile.

Il bambino che giocava poco prima con Patrizio ci raggiunse, trafelato.

«Ti sei fatta tanto male?» mi chiese, guardandomi con gli occhi appannati per le lacrime. Evidentemente si sentiva in colpa e la cosa non mi piacque affatto.

«Elia, andiamo!» strillò ancora la donna, con voce stridula.

Patrizio regalò al piccolo Elia un bel sorriso, scompigliandogli i capelli.

Io gli accarezzai con delicatezza il visetto liscio e paffuto e non potei fare a meno di sorridere.

«Non ti preoccupare, sto benissimo. La prossima volta però voglio la rivincita, va bene?» gli sussurrai.

Lui scoppiò a ridere, poi scappò via, raggiungendo la madre che si sbracciava da qualche minuto. Quella continuò ad inveire contro il figlio, mentre lasciavano il parco.

Io e Patrizio ci fissammo, poi all'unisono esclamammo: «Povero Elia!».

«Comunque sto bene, non sento più alcun dolore» aggiunsi, perché si era creato uno strano silenzio tra noi.

Patrizio allungò con cautela una mano e mi toccò leggermente il sopracciglio. Non mi ritrassi, ipnotizzata dai suoi occh fissi sui miei.

«Tra poco le tue amiche porteranno il ghiaccio e guarirai più in fretta» disse, con dolcezza.

«Patrizio?»

«Sì?»

«Vorrei proprio vedere come sei, senza quella parrucca. Non ricordo granché di quella sera» ammisi, senza neanche accorgermene.

Patrizio rimase per un po' in silenzio, poi lasciò andare la mia mano e indietreggiò.

Inizialmente non compresi cosa fosse successo, poi le mie amiche ci raggiunsero con in mano un grosso involucro poco promettente.

Angelica me lo premette con delicatezza sulla parte lesa e io strinsi i denti.

«Ti fa male?» domandò Elena, con tono colmo d'apprensione.

«Un po'» mormorai.

Patrizio si schiarì la gola e disse: «Vado, tra poco cominciamo. Ciao ragazze, a dopo».

Era diventato improvvisamente freddo nei miei confronti e io lo osservai andar via con nel cuore una punta di tristezza.







Non sapevo se fossi davvero pronto a rivelarmi a Denise per come ero realmente. Mi sentivo sempre inadeguato e meno sicuro, senza la mia corazza protettiva.

Era come se i miei continui travestimenti mi facessero davvero sentire come una persona completamente diversa dal banale Patrizio. Con la mia parrucca e tutto il resto avevo la spavalderia di Patrick the Prince, ero aperto e sfacciato, in grado di fare battute e di parlare con tutti. Quando poi rientravo a casa e nel buio mi svestivo per andare a letto, non avevo il coraggio di guardarmi allo specchio. Mi sentivo ridicolo nell'accorgermi di non essere niente di tutto ciò che mostravo e mi inventavo con il mondo esterno.

Mentre salivo sul palco, quella sera, non pensavo a Patrick, ma a Patrizio con tutta la sua inutile normalità e monotonia. Trovavo me stesso noioso e controproducente, concludendo che senza il mio alter ego non avrei fatto niente di ciò che stavo facendo e in cui mi ero impegnato fino a quel momento.

Eppure, Patrizio aveva salvato Denise da q uel depravato diciottenne in crisi ormonale. Io l'avevo aiutata, senza parrucca, né altri artifici.

Ma lei si era dimenticata di me, non mi aveva riconosciuto e ora voleva da me qualcosa che non sapevo come affrontare.

Intanto, pensai a sfogarmi con le mie canzoni, senza degnare nessuno di uno sguardo. Mi esibii nei soliti discorsi di circostanza ma non badai troppo al pubblico che assisteva allo show. Il tempo trascorse velocemente, e quasi senza accorgermene mi ritrovai ad un lato del palco che rovistavo nel mio borsone alla ricerca di un asciugamano e di una maglia pulita. Stavo sudando tantissimo, l'energia e la carica della musica mi faceva sempre un effetto devastante.

Dopo aver rivolto un cenno ad Alessio, mi diressi verso il bagno e comiciai a rinfrescarmi, per poi cambiarmi la t-shirt. Sfilai la parrucca e mi tamponai la fronte e il capo, senza spostare minimamente lo sguardo dal pavimento.

Poco prima di rimettermi la parrucca, però, mi fermai e sospirai, ripensando a ciò che mi aveva detto Denise.

Forse avrei potuto pensare alla sua proposta, o meglio, al suo candido desiderio. Era una ragazza sensibile e badava poco alle apparenze, per quanto potessi giudicarla. Da quando mi aveva aggiunto su facebook, avevo dovuto lottare con me stesso per non mettere “mi piace” ad ogni sua fotografia e per non cercarla freneticamente in chat. C'era qualcosa in lei che mi piaceva, mi attirava e mi affascinava.

Quindi, non c'era niente di male a mostrarle la mia pelata. Lanciai una furtiva occhiata allo specchio, poi scossi il capo e tornai ad indossare quei capelli tremendamente falsi e non miei.

Per la prima volta, li sentii estranei alla mia persona e ne fui quasi disgustato.

Ero certo che Denise guardasse oltre, che vedesse qualcosa in me che, forse, neanche io riuscivo a scorgere.

Sgattaiolai fuori dal bagno e uscii furtivamente sul retro del chiosco, cercando un angolino tutto per me dove fumare in pace. Non ne potevo più di quella lanugine informe sulla testa e volevo trovare un posto dove poterla scaraventare da una parte. Quel giorno non avevo proprio voglia di stare sul palco ad animare la serata mentre i dj selezionavano ancora della musica per far ballare i più temerari. Quella sera volevo stare per i fatti miei.

Mi appollaiai su un muretto, lontano da tutto e tutti, gettai la parrucca da una parte e cominciai a fumare freneticamente. Sì, mi sentivo proprio un idiota, un fallito e un buono a nulla. Avevo costruito la mia fama e la mia carriera su bugie e illusioni, e ora ne pagavo le conseguenze.

E tutto per colpa di una ragazzina di diciotto anni che aveva rischiato uno stupro e che l'aveva scampato grazie a me.

Ancora stentavo a crederci.

Immerso com'ero nei miei pensieri, non mi accorsi di qualcuno che avanzava con cautela verso di me, così non feci in tempo ad indossare la parrucca. La afferrai con un gesto veloce, ma una voce familiare mi fece immobilizzare e gelò il sangue nelle mie vene.

«Non lo fare!» sibilò Denise, annullando la distanza tra di noi in un attimo che mi tolse il fiato. Afferrò la parrucca e la nascose dietro la sua schiena, mentre percorreva con calma il mio viso con i suoi occhi attenti e indagatori.

Le iridi verdi screziate di marrone scintillarono mentre mi guardava.

Per un attimo fui invaso dal panico: senza quella parrucca mi sentivo perso. Mi alzai e, barcollando, allungai un braccio con l'intenzione di riprendermela. Dovevo essere proprio disperato, perché mi ritrovai premuto contro di lei, tentando di strapparle quella roba dalle mani.

«Smettila, non ti serve questa schifezza, Patrizio!» sbottò lei, spingendomi con forza e costringendomi così ad indietreggiare.

Denise esaminò con aria disgustata la parrucca, poi la lasciò cadere a terra.

Feci per chinarmi, ma lei mi afferrò per i polsi e me li strinse. Non avrei mai immaginato che possedesse una forza tale da provocarmi dolore.

«Mi fai male, ragazzina!»

«E tu fai male a te stesso, idiota! Mi fai davvero incazzare, lo sai?»

«Senti, ma chi ti credi di essere?»

Denise sollevò il mento con fierezza e mi lasciò andare, sprezzante.

«Ma guardati. Sei ridicolo, non te ne rendi conto? Vai in giro con in testa una fottuta parrucca, ti vesti come un quattordicenne che finge di provenire dal ghetto e ti dai arie da grande artista! Ma cosa sei, in fin dei conti? Sei una persona insicura e incapace di stare al mondo!»

Il suo tono mi ferì più delle parole che aveva appena pronunciato, così rimasi immobile a fissare il vuoto, incassando con più dignità possibile il colpo.

Fu orribile rendermi conto che aveva pienamente ragione. Quelli erano gli stessi pensieri che mi avevano tormentato da quando lei aveva espresso il desiderio di vedere il vero Patrizio. E ora si stavano srotolando di fronte a me, materializzandosi come un incubo troppo vero per considerarlo tale.

Mi sentii invadere da un senso di inadeguatezza senza eguali e mi lasciai cadere sul muretto, scalciando via la parrucca che, ormai, si era riempita di polvere e altre schifezze.

«Patrizio...» mormorò Denise, facendo un passo avanti.

«Lasciami stare.»

«No, senti... non volevo offenderti» attaccò, sfiorandomi timidamente una spalla.

«Vattene e lasciami in pace, hai capito?» sbottai, sollevando il capo per sfidarla con lo sguardo.

Lei non si mosse di un millimetro e rimase a fissarmi senza battere ciglio.

Poi, si accovacciò di fronte a me.

«Non fare lo stronzo, tu non hai bisogno di questo per essere apprezzato. E non hai bisogno di una parrucca, possibile che non te ne rendi conto? Non volevo offenderti, ma detesto chi finge di essere ciò che non è. Specialmente quando non ha motivo per farlo.» Denise mi prese la mano tra le sue e proseguì: «Stai tranquillo, Patrizio. Nessuno ti può giudicare se sei semplicemente te stesso. E sappi che io apprezzo quel poco che conosco del vero Patrizio, lo apprezzo più di tutta la facciata che hai costruito con il principe Patrick e tutte queste stronzate».

Non potevo credere alle mie orecchie. Mai avrei immaginato che potesse esistere qualcuno in grado di leggermi così tanto nel profondo in così poco tempo. In quel momento, non avvertii la differenza d'età che intercorreva tra me e Denise, sentii soltanto quanto potesse essere bello parlare con una donna in grado di comprendere che anche un uomo aveva le sue debolezze e che non sempre era in grado di nasconderle o superarle.

«Grazie» sussurrai, incapace di dire qualcosa di meglio.

«Sei uno stupido. Perché ti vergogni? Stai molto bene senza quell'orribile medusa di lana in testa» commentò Denise, regalandomi un magnifico sorriso colmo di dolcezza e di sincerità.

Poi, allungò una mano verso il mio viso, titubante.

Fremetti, non sapendo quali fossero le sue intenzioni.

Mi sfiorò la fronte, poi mormorò: «Posso?».

Annuii senza neanche accorgermene e lei prese ad accarezzare dolcemente il mio viso, poi il capo, regalandomi una sensazione di beatitudine mai provata prima di allora. Non avrei mai creduto che qualcuno potesse trovare affiscinante la mia nuca, ma mentre Denise mi toccava, compresi che doveva essere proprio quello ad averla affascinata, non tanto in quanto particolarità fisica; lei riusciva a scorgere il disagio che provavo nell'aver perso prematuramente i miei capelli e stava cercando in qualche modo di confortarmi, facendomi capire che quello non era un problema e che per lei io ero interessante a prescindere da quel dettaglio insignificante.

«Wow. Non avevo mai toccato la testa di un calvo» ridacchiò Denise, dandomi un colpetto sulla mano che ancora stringeva nella sua.

«Mi prendi in giro, ragazzina?» mi infuriai, senza però arrabbiarmi davvero. Avevo intuito il tono scherzoso della sua voce e non potei fare a meno di ridacchiare.

«Ah, sta' zitto» mi rimbeccò, rimettendosi in piedi.

La guardai dal basso verso l'alto, trovandola bella, illuminata dalla timida luce della luna. Incrociai il suo sguardo e mi ci persi, prima di riuscire a mettermi in piedi a mia volta.

Le scostai dal viso una ciocca di capelli e, stregato dal suo viso dai lineamenti delicati, mormorai: «Credi che potresti uscire con me, ragazzina?».

«Tu che dici?» ribatté. Poi si sollevò sulle punte dei piedi e mi regalò un piccolo e fugace bacio a fior di labbra.

Non ebbi neanche il tempo di realizzare ciò che era appena successo, che lei era già corsa via ridendo.

Prima che scomparisse dalla mia vista, la sentii gridare: «Scrivimi!».







Angelica mi sistemò con aria soddisfatta il vestito che si era premurata di portarsi dietro, quando le avevo chiesto aiuto.

Giugno era cominciato da pochi giorni e io ero emozionata. Quella sera sarei uscita con Patrizio e ancora stentavo a credere di averlo baciato. Non che quello che gli avevo dato potesse essere definito un vero e proprio bacio, ma comunque avevo superato un limite e stranamente non me n'ero pentita, come capitava spesso quando facevo qualcosa di avventato e fuori dal mio solito e noioso razionalismo.

«Oh, sei una dea, se Elena fosse qui diventerebbe lesbica solo a guardarti!» esclamò Angelica, con la sua solita delicatezza.

Sbuffai, sollevando gli occhi al cielo. Però, nonostante non volessi ammetterlo, mi sentivo favolosa: guardandomi allo specchio, notai le mie gambe insolitamente lunghe e affusolate, sovrastate da un abito che arrivava sopra il ginocchio di un delizioso color porpora. La gonna scampanata scendeva morbida lungo le cosce e il corpetto aderiva ai fianchi e al seno, mentre le spalline sottili ricoperte di un sottile strato di pizzo erano impreziosite da minuscole rose nere.

Le scarpe erano abbinate alle decorazioni delle spalline, con un tacco non troppo alto e grosso. Mi ero rifiutata di usare i trampoli della volta precedente, nonostante Angelica se la fosse tentata. Io, però, ero stata categorica.

I capelli mi ricadevano sciolti e mossi sulle spalle, mentre la mia amica aveva insistito per truccarmi un po'. Avevamo raggiunto un compromesso, così il trucco risultò leggero e fresco, proprio come piaceva a me.

«Sì, sei una favola. Oh, aspetta, scatto qualche foto e poi la mando ad Ele, impazzirà!» cinguettò Angelica, afferrando il suo smartphone.

La lasciai fare, assumendo qualche posa da cretina e facendo smorfie e linguacce in direzione dell'obiettivo.

«Un book fotografico degno di nota» commentò lei, esaminando gli scatti. «Meno male che abbiamo la stessa taglia, uh, quel vestito ti calza a pennello!»

Mi arresi all'evidenza che la mia amica fosse completamente andata e afferrai la mia borsetta nera, ficcandoci dentro un copri spalle abbinato.

«Andiamo» conclusi, sottraendole il cellulare, al che lei mugugnò e mi seguì all'esterno.

Salutai velocemente i miei e raggiunsi con Angelica la piccola piazza situata non molto lontano da casa mia.

Qualche minuto dopo, la figura alta e snella di Patrizio comparve dall'altro lato della strada. Sapevo che non aveva la patente e sicuramente l'aveva accompagnato Alessio.

Angelica, al mio fianco, soffocò un'imprecazione e mi mollò una gomitata sulle costole, strappandomi un gridolino.

Forse avrei dovuto avvertirla della vera natura di Patrizio, però non ci avevo proprio pensato e non sapevo neanche se lui desiderasse essere riconosciuto senza la parrucca.

«Ma è... è... il tizio che ti ha aiutato con Daniele. O sbaglio?» bisbigliò Angelica, io annuii.

«Ciao» esordì Patrizio, una volta giunto di fronte a noi. Sorrise ad entrambe e io ricambiai, sentendomi così felice all'idea che fosse lì, di fronte a me, senza nessuna maschera o travestimento.

«Bene... io vi lascio, divertitevi, eh!» fece Angelica, poi girò sui tacchi, mi stritolo velocemente una mano e se ne andò di tutta fretta.

Patrizio la osservò, sconcertato, poi mi lanciò un'occhiata interrogativa. Infine domandò: «Non gliel'hai detto?».

Scossi il capo e feci spallucce.

Poi notai i suoi occhi posarsi su di me, esaminare il mio abbigliamento e indugiare un istante sulla scollatura rotonda e deliziosamente decorata da roselline identiche a quelle delle bretelle.

Mi sentii avvampare, poi notai il suo sorriso allargarsi.

Scosse il capo e ridacchiò.

«Lo prendo come un complimento, Patrick» lo apostrofai, per poi prenderlo sottobraccio.

«Dove andiamo?» domanai.

«Ti va una pizza?» propose, sorridendo.

Annuii, grata che non avesse pensato a una cena elaborata in qualche posto troppo chic e alla moda per me.







Dopo cena, andammo a sederci sulla terrazza esterna alla pizzeria.

Mi sentivo estremamente bene quella sera, non avevo alcuna barriera a separarmi da Denise e dalla sua bellezza.

Ormai non potevo più negare di esserne attratto, specialmente dopo quel bacio che si era permessa di rubarmi. Avrei voluto approfondire quel contatto nel momento stesso in cui era avvenuto, ma lei era fuggita e io non avevo fatto altro che pensarci finché non l'avevo pregata di uscire con me quella sera.

E così, aveva accettato e la serata si stava svolgendo nella maniera giusta ed era estremamente piacevole stare in sua compagnia.

Il vestito che Denise indossava era perfetto per lei, le conferiva un'aria raffinata e più matura, nonostante in quanto ad intelligenza non avesse niente da invidiare a molte delle mie coetanee.

Mentre sedevamo su un divanetto di vimini situato in un angolo del terrazzo, intrecciai le mie dita alle sue e la guardai negli occhi.

«Sei contenta di essere qui o ti annoi?» le domandai, accarezzandole il viso con la mano libera.

«Quanto sei insicuro da uno a dieci, Patri?» mi canzonò, per poi accostarsi di più a me. Mi circondò il collo con le braccia e premette la fronte contro la mia, scuotendo leggermente il capo. «Io credo... almeno... venticinque» sussurrò, prendendosi beatamente gioco di me.

Punto nel vivo, la attirai bruscamente a me, sentendo un desiderio quasi incontrollabile di baciarla.

Lei parve sorpresa, ma non si ritrasse e sollevò leggermente il viso verso il mio, per potermi osservare meglio.

«Ne sei certa?» feci, poi la baciai, non potendone più di quell'attesa. Desideravo farlo da troppo tempo e non mi curai minimamente delle differenze che c'erano tra noi. Avrei voluto che Denise fosse mia, che divenisse la mia donna e la mia compagna, perché era stata l'unica a comprendere quelle che erano le mie difficoltà ed era stata da subito determinata a farmi superare ogni mia insicurezza.

Lei non perse tempo e approfondì il nostro contatto, come se fosse impaziente quanto me.

Giocai per un po' con la sua lingua, poi mordicchiai il suo labbro inferiore e mi scostai per riprendere fiato.

Osservai attentamente la sua reazione e mi sentii al settimo cielo quando la trovai che sorrideva. Prese ad accarezzarmi il capo, stringendosi al mio corpo.

«Tu non hai bisogno di qualcuno che giudichi le tue apparenze. Sarebbe bello se potessi accettare la mia presenza nella tua vita» sussurrò, affondando il viso sul mio petto.

La strinsi con forza, desiderando di non lasciarla andare per nessuna ragione al mondo. Mi sentivo in pace con il mondo e sapevo che con Denise avrei potuto superare qualunque ostacolo.

«Non potrei accettare» risposi, accarezzandole un fianco, «di perderti. Fai già parte della mia vita, non ho fatto altro che pensare a te da quella sera, da quando quel bamboccio ti ha messo le mani addosso e io mi sono sentito morire».

«Daniele è solo un cretino, non pensarci più, capito?» mi rimproverò, cercando nuovamente il mio sguardo.

Annuii, anche se avrei volentieri impedito che quel demente importunasse qualcun altro per il resto della sua vile esistenza.

«Patri, adesso baciami e non pensare a niente» mi ordinò Denise, strizzandomi l'occhio con espressione maliziosa.

Mi gettai a capofitto sulle sue labbra, senza pensarci due volte.

Il mondo sarebbe potuto finire in quel momento che non me ne sarei minimamente reso conto, tant'ero felice e innamorato.







Se fino ad allora avevo creduto che l'amore non esisteva, mi ero sbagliata.

Da quando io e Patrizio stavamo insieme, avevo rivalutato tutti gli standard e i paletti del mio razionale cervello.

Non riuscivo a trascorrere troppo tempo senza vederlo e accoccolarmi tra le sue braccia. Lo seguivo ad ogni concerto e non facevo altro che sostenerlo, cercando di fargli capire che anche al suo pubblico sarebbe piaciuto il vero Patrizio, che avrebbe conquistato chiunque senza quella dannata parrucca. Tuttavia, non potevo impedirgli di indossarla nelle occasioni di lavoro, ma lo minacciai di morte se solo avesse provato a mettersela in mia compagnia. Lui aveva accettato di buon grado, segno che con me si sentiva a suo agio.

La cosa mi faceva immensamente piacere, anche perché non avrei mai pensato di colpire in quel modo un uomo di trentadue anni. Io ne avevo diciotto e mi ero appena diplomata. Da quando io e Patrizio eravamo usciti per la prima volta, era trascorso quasi un mese e il caldo torrido di luglio mi stava letteralmente facendo impazzire.

Una sera andai con lui ad una serata e, mentre cenavamo con un panino offerto dai proprietari del chiosco, notai che era piuttosto pensieroso.

«Patri, che c'è?» gli domandai, preoccupata.

Mi posò distrattamente una mano sulla coscia e scosse il capo.

Non riuscii a curarmi particolarmente di quel suo gesto, perché il suo silenzio colmo di tensione mi metteva ansia. Afferrai la sua mano e la strinsi tra le mie, cercando di confortarlo.

«Vuoi dirmi che succede?» insistetti.

Si voltò per guardarmi e io cercai di ignorare la parrucca, anche se ormai ci avevo fatto l'abitudine e non gli dicevo più niente quando la indossava durante i concerti.

«Pensavo di non usare questa, oggi» ammise infine, sfiorando la parrucca con la mano libera.

Sgranai gli occhi e dovetti fare del mio meglio per non saltargli addosso e festeggiare in maniera poco casta quella rivelazione.

«Dobbiamo festeggiare!» esclamai, concedendomi uno dei suoi magnifici baci.

Quando mi staccai da lui, lo trascinai in piedi e mi diressi verso il bagno degli uomini, sotto lo sguardo interrogativo dei presenti. Non me ne fregava niente.

Una volta dentro, gli strappai via la parrucca e gli gettai le braccia al collo, baciandolo con rinnovato trasporto.

«Attenta, ragazzina, prima dovrei esibirmi» mormorò con tono sensuale, mordicchiandomi il labbro, per poi passare al lobo dell'orecchio.

Mi lasciai sfuggire un piccolo gemito e lo spinsi via, ridendo.

«Dopo, festeggeremo dopo» lo ammonii, poi indicai la porta e aggiunsi: «Andiamo. Vai vedere a tutti chi sei, Patri. Sei una persona speciale e io temo di essermi innamorata di te, com'è possibile?».

Il mio tono voleva sembrare scherzoso, però Patrizio si fece terribilmente serio e mi spinse contro la parete, fissandomi dritto negli occhi.

«Io mi sono innamorato perdutamente di te, Deny. Fattene una ragione.»

«Sciocco» sussurrai, baciandolo con dolcezza.

Scosse il capo e mi prese la mano, poi insieme uscimmo dal bagno, lasciando la parrucca dentro il cesto dei rifiuti.

Sapevo che quello sarebbe stato un meraviglioso cambiamento per lui e io gli sarei stata accanto, comunque fosse andata. Ormai ero la sua compagna e non avevo la minima intenzione di abbandonarlo.

Fu uno spettacolo esplosivo. Molti dei suoi fan sembravano sorpresi, ma per altri non cambiò essenzialmente nulla. Furono felici di accoglierlo e tutti insieme ci divertimmo a ballare e cantare con Patrick the Prince.

Quando, qualche ora più tardi, ci ritrovammo a casa sua, ero così felice ed euforica che non gli lasciai via di scampo.

Lo trascinai sotto la doccia e mi presi cura di lui, lasciando che lui facesse lo stesso. Il sesso tra noi era stato magico fin da subito, ma quel giorno c'era davvero tanto da festeggiare e io mi impegnai affinché quella serata fosse fantastica per lui.

«Mi hai reso la donna più orgogliosa di questo mondo» gli sussurrai all'orecchio, mentre lo spingevo dolcemente sul materasso, dopo averlo asciugato con cura.

Lui si preoccupò di slacciarmi l'asciugamano che avevo legato attorno al corpo e io feci lo stesso con il suo, lasciandolo cadere sul pavimento.

Mi stesi sopra di lui e lo baciai con passione, desiderando che mi facesse sua al più presto.

Ci rotolammo sotto le lenzuola per un po', mentre io impazzivo per ogni suo piccolo gesto e per il modo buffo e sexy in cui gemeva: la sua voce assumeva sempre una nota disperata mentre facevamo l'amore e io adoravo sentire quella disperazione, perché sapevo che celava un piacere immenso e solo nostro.

Quella notte lo amai intensamente e seppi di appartenergli come non avrei mai creduto possibile.

  
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