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For the Dead Travel
Fast
La
notte era statica. Il paesaggio autunnale giaceva pietrificato in una
sorta di
strana atmosfera onirica, e se un’anima romantica ne fosse
stata testimone
avrebbe di certo affermato che sullo scenario pareva essere stato
gettato un
incantesimo. Le foglie degli alberi già brillavano dalle
goccioline di brina, e
di tanto in tanto se si tendeva l’orecchio si poteva udire il
tubare di qualche
civetta solitaria; lo scricchiolio di rametti nel sottobosco indicava
che altri
animali notturni erano sgusciati fuori dalle loro tane per la caccia,
ma la
fitta nebbia che si innalzava dal terreno e lì aleggiava
alla stregua di un
fantasma ne celava le impronte. Tra le enormi nuvole nere spuntava ogni
tanto
un raggio di luna a rischiarare il sentiero e far luccicare la foschia,
ma non
c’era abbastanza vento per trascinare via le nubi e
permettere all’astro di
risplendere in pace in un cielo altrimenti terso e stellato.
Poeti
e pittori avrebbero venduto l’anima al diavolo per poter
essere capaci di
imprimere una simile notte su tela o su carta; Emma, per sua sfortuna,
non
aveva il tempo né lo spirito di ammirarla. La sua mente era
occupata da un
unico desiderio – lasciarsi il più presto
possibile il castello e i suoi
abitanti e gli incubi terribili che le aveva causato alle spalle.
Le
sue orecchie erano colme del proprio ansimare angosciato, e sorde ai
rumori
pacifici della natura. Un filo di sudore le colò lungo il
collo giù nell’incavo
tra i seni, gelandosi a contatto con l’aria notturna e
facendole rimpiangere di
non aver indossato qualcosa di più inappropriato per una
fuga in mezzo ai
boschi. Si domandò se aveva già superato i
confini di Pemberley o se era ancora
all’interno della tenuta: non aveva idea di cosa utilizzare
come punto di
riferimento, perché per quel poco che poteva ricordare non
c’era alcuna
recinzione che segnava la proprietà, e i terreni incolti e
inospitali si
limitavano ad allargarsi come una macchia d’olio per tutto il
circondario fino
a fondersi naturalmente con il resto della brughiera.
Il
cavallo aveva rallentato, sbuffando e arrancando attraverso la bassa e
fitta
vegetazione e sbattendo con furia gli zoccoli sul terreno probabilmente
per
scacciare eventuali animali striscianti. Emma faceva del suo meglio per
mormorargli rassicurazioni con voce pacata all’orecchio e
tenere lontani i rami
graffianti perlomeno dal suo muso, ma il destriero si stava facendo
sempre più
irrequieto e incontenibile. Se ci fosse stata un’altra
soluzione l’avrebbe
lasciato libero e avrebbe proseguito a piedi, ma anche se non udiva
più alcun
rumore dietro di sé sapeva di essere
ancora inseguita, e non poteva permettersi di perdere anche il
più piccolo
vantaggio.
Il
pensiero di non sapere nemmeno il nome dell’animale che stava
cercando di
portarla in salvo risvegliò il senso di colpa – e
un sussurro nella sua mente
le insinuò l’idea che potesse essere un cattivo
presagio.
Scuotendo
la testa e premendo i talloni contro i fianchi del cavallo, Emma
scacciò quei
pensieri.
Non c’era tempo, non
c’era tempo – lui la stava raggiungendo.
Sì,
se lo sentiva nelle ossa, anche se era passato parecchio tempo da
quando aveva
udito lo sbuffare di un secondo cavallo alle sue spalle –
come se il suo
inseguitore si fosse dissolto nel nulla a un certo punto durante la
corsa.
Poiché dubitava che Adam, poiché chi altri
avrebbe potuto essere, si sarebbe
rassegnato così in fretta a riacciuffarla dopo tutti gli
sforzi che aveva fatto
per entrare nelle sue grazie, Emma aveva evitato di spingere il proprio
cavallo
a un’andatura più pacata; ma l’assenza
di rumori dietro di sé invece di
rasserenarla le incuteva un maggior terrore, visto che egli conosceva
di certo
il territorio meglio di lei e poteva saltarle addosso da un momento
all’altro,
sbucando da chissà quale cespuglio e stanandole ogni via di
fuga.
Venne
strappata dalla sue riflessioni da un brusco avvallamento del terreno:
il
cavallo scivolò sopra sassi ricoperti da un sottile strato
di muschio e
ondeggiò violentemente prima di sterzare verso destra e
lanciarsi in avanti con
un salto invidiabile, portando via il fiato alla fanciulla e ottenendo
un rauco
grido da parte sua che si perse nel bosco. Emma cercò di
tirare le redini, ma
l’animale era ormai al di là del suo controllo:
con quell’ultimo movimento si
erano spinti fuori dalla vegetazione ed entro un’enorme
radura ricoperta da una
fitta nebbia, e il terrore di essere in una posizione scoperta e
facilmente
individuabile le impedì di rendersi conto di ciò
che si trovava al di sotto
della caligine.
Se
ne accorse soltanto quando gli zoccoli del cavallo aggredirono la
superficie
dell’acqua con furia, e il suo nitrito spaventato e sorpreso
trafisse l’aria
come un fulmine.
Come
per magia, il tempo parve fermarsi: tutto ciò che
seguì Emma lo registrò con
estrema accuratezza, come fosse un occhio esterno che assisteva a
qualcosa che
non stava accadendo a lei in prima persona. L’animale si
ritrovò immerso nel
lago con tutte le zampe, inzuppandole gli abiti in un battito di ciglia
lasciando che l’aria e l’acqua gelida glieli
ghiacciasse addosso; le sue mani,
a loro volta bagnate, persero la presa sulle redini e tentarono
inutilmente di
aggrapparsi alla criniera o al collo del destriero, ma questi, ormai
del tutto
terrorizzato dalla brusca caduta nel lago, si inarcò
ferocemente cercando di
indietreggiare per tornare sulla riva, e a furia di impennarsi e
agitarsi
disarcionò la giovane facendola precipitare
nell’acqua.
In
un turbinio di gonne, alghe e zoccoli, Emma si ritrovò ad
osservare inerme e
con panico crescente le acque nere e immote che si richiudevano sopra
di lei.
Obbedendo
a un istinto antico come il mondo e rifiutando ogni raziocinio, Emma
spalancò
la bocca per urlare in cerca di aiuto, ma così facendo
inghiottì spaventose
boccate d’acqua che la soffocarono e le straziarono i
polmoni, facendole perdere
ogni contatto con la realtà. La mente sempre più
annebbiata, gli occhi
testardamente serrati come se ciò potesse impedire ad altra
acqua di invaderle
il corpo, la ragazza annaspò cercando di risalire a galla,
combattendo con
l’ingombro degli abiti che le pesavano addosso come pietre e
che la
trascinavano a fondo malgrado i suoi sforzi serrati. I capelli le
ondeggiavano
intorno alla faccia, ricoprendole il viso e impedendole di vedere
alcunché, i
piedi sgambettavano grevi in cerca del fondo del lago ma senza riuscire
a
trovare una superficie solida per potersi dare la spinta e riemergere.
I
nitriti laceranti del cavallo continuarono a risuonare come grida
d’allarme
nella notte silenziosa, diffondendosi con un’eco terribile
sulla superficie del
lago. Emma lo udì attutito e lontano attraverso
l’acqua, come in un sogno, e il
pensiero di venire abbandonata anche dall’animale la
riempì di angoscia.
Presto,
però, il liquido gelido l’avvolse in un abbraccio
amorevole, trascinandola
inesorabile verso l’alveo del lago scuro e nero come pece e
privandola di ogni
capacità cognitiva. Emma chiuse gli occhi e smise di
lottare, lasciandosi
trascinare a fondo con la medesima rassegnazione di una nave
inabissata: non
era, dopotutto, una sensazione spiacevole – se avesse dovuto
descriverla con
semplici vocaboli avrebbe detto che era come essere tornate
all’interno del
grembo materno, in quel limbo sospeso tra la vita e la morte dove
sembra che
nessuna minaccia esterna possa mai giungere a turbare la propria
esistenza.
I
polmoni bruciavano, bramosi di ossigeno, e il peso dell’acqua
le comprimeva il
petto con una forza impensata; ma quei dolori erano secondari, non le
appartenevano – sì, sapeva che quel corpo fatto di
carne e sangue stava
soffrendo e pativa le pene dell’affogamento, ma lei non
provava alcun dolore:
tutto era alleviato dalla consapevolezza che ormai non avrebbe dovuto
resistere
oltre. Decise tuttavia che non sarebbe morta con gli occhi chiusi
– voleva
portare con sé un’ultima immagine, un ultimo
ricordo, e catturare magari i
raggi della luna penetrare nell’acqua quasi a volerla
raggiungere.
Ma
quando sollevò le palpebre non vide che il buio tutto
intorno a lei, una densa
oscurità priva di qualsiasi granello di luce, e se avesse
potuto avrebbe
strillato. E nello stesso momento qualcosa le afferrò
bruscamente le braccia, e
poi la vita, stringendola fino a privarla del poco fiato che le era
rimasto – e
che lei inconsciamente aveva conservato con parsimonia – per
poi trascinarla a
fatica verso su, verso chissà dove, con una violenza tale
che quasi Emma
avrebbe voluto divincolarsi, preferendo lasciarsi affogare. Non
comprese in che
modo ebbe raggiunto la superficie e l’aria gelida della notte
che il suo corpo
accolse con esultanza; ogni cosa era confusa, e lei era ancora in quel
limbo
dove il dolore si alterna al freddo che le aveva raggiunto le ossa,
ghiacciandola così profondamente che Emma non
poté fare a meno di chiedersi
come faceva a non essere morta, oppure, se quella era
la morte, che cosa aveva fatto per meritarsi un simile
tormento.
Si
lasciò prendere e spostare come un burattino senza fili e
senza volontà; forse
venne distesa, i bottoni del cappotto strappati – se ne rese
vagamente conto
perché il vento notturno le gelò il petto,
facendola tremare – e poi venne
voltata su un fianco, e qualcosa inizio a premere e massaggiarle la
schiena con
una ferocia disperata: fu un’esperienza terribile, come se
l’interno del suo
corpo venisse riversato all’esterno, e la gola le bruciava e
gridava pietà
eppure la pressione continuava, obbligandola a rigurgitare fino
all’ultima
goccia d’acqua che aveva ingerito.
Lo
shock fu tale che svenne subito dopo, stremata e infreddolita.
Emma
riprese i sensi nel salottino della notte prima, semidistesa su una
poltrona
trascinata di fronte al camino acceso. La luce delle fiamme fu
così improvvisa,
dopo l’oscurità, che dovette stringere gli occhi e
distogliere lo sguardo;
stava ancora tremando, benché fosse avvolta da una coperta
pesante, e la testa
le girava così vorticosamente da farle venire la nausea.
Maledizione, imprecò in silenzio,
serrando le
palpebre. Sono di nuovo nel castello.
Aveva
appena finito di formulare quel pensiero quando udì una
porta aprirsi e
richiudersi con un tonfo, e dei passi pesanti avanzare
all’interno della stanza
fino a fermarsi a breve distanza da lei. D’istinto
sollevò lo sguardo appannato
sulla ben nota presenza, notando vari piccoli dettagli come i suoi
vestiti
ancora bagnati e stropicciati, macchiati di fango ed erba, e i capelli
corvini
che gli ricadevano in ciocche umide ai lati della maschera; sembrava
che fosse finito nel lago anche lui,
pensò distratta, riportando l’attenzione sul fuoco.
L’uomo
sbuffò, per nulla contento di venire ignorato.
«Siete sveglia», sbottò, con
quella voce attutita che stava ormai imparando a conoscere bene. A
giudicare
dal tono, egli doveva essere ben oltre la soglia della semplice
arrabbiatura:
Emma trovò quasi strano che non l’avesse caricata
di peso su una spalla e
gettata in qualche segreta, per punirla.
Poiché
lei non rispondeva, Adam continuò, sempre più
iroso e con la voce che
s’ingrossava minacciosa parola dopo parola. «Ah,
non parlate? Mi tenete il
broncio? Come se aveste ragione a trattarmi così…
Vi ho salvato la vita,
rammentate? ...per la seconda volta! Forse avreste preferito annegare
nel lago?
Gran bella fine, avreste fatto! E per cosa? …per cosa! Per
la soddisfazione di
farmi un torto!»
«Non
tutto ruota intorno a voi, signore», ribatté
allora Emma ignorando la gola che
le doleva, senza neppure alzare lo sguardo. «Ma se siete
così arrabbiato,
perché non mi lasciate andare? Che cosa sperate di ottenere,
obbligandomi a
tenervi compagnia?»
«Dannazione
a voi! Vi ho già spiegato le mie… Mi avete dato
la vostra parola che non
avreste cercato di fuggire! Valgono così poco le vostre
promesse, milady? Cosa
devo fare per essere sicuro che rispettiate la vostra parte
dell’accordo?
Legarvi, forse?»
Emma
dovette resistere al maleducato impulso di roteare gli occhi.
«Non potete
biasimarmi se ho colto al volo l’opportunità di
andarmene. Di certo avrete
capito che mi state trattenendo qui contro la mia volontà,
voglio sperare?»
Domandò sarcastica, odiando la propria voce roca.
«Siete
mia ospite», sibilò lui furioso. «E
avete dei doveri verso di me, come li ho io
verso di voi!»
«Questo
è certamente discutibile, ma siete libero di credere pure
ciò che più vi
aggrada.»
«Siete
una donna impossibile!» Ruggì Adam, sbattendo un
pugno con forza sul bracciolo
in legno della poltrona in cui era rannicchiata e facendola suo
malgrado sussultare.
«Forse che vi ho fatto mancare qualcosa? Vi ho trattato male,
io? Non mi pare!
Potrò non essere un uomo di mondo, signora, ma di sicuro
sono un gentiluomo;
eppure voi riuscite nella difficile impresa di mettere a dura prova la
mia
pazienza!»
«Parlate
come se io vi avessi imposto la mia presenza»,
sibilò Emma, incredula. Si voltò
verso di lui, lasciando la propria rabbia libera di manifestarsi, e
continuò.
«Siete voi che mi avete voluto qui, e adesso vi comportate
come se mi doveste
tollerare a malincuore! Che diritto avete di arrabbiarvi? Da
ciò che mi avete
detto, neanche volevate ospiti nel castello!»
«Ma
ora siete qui, e non morirete mentre siete sotto la mia
responsabilità! Né
proverete a scappare una seconda volta», aggiunse con fare
minaccioso. «Di
questo me ne assicurerò personalmente. Dio, ma avete almeno
riflettuto prima di
attuare questa vostra fuga? Scappare di notte, da sola, in mezzo alla
brughiera, e impropriamente vestita! Nel migliore dei casi sareste
morta di
freddo, e nel peggiore… Non sapete che ci sono ladri e
briganti in queste
terre? Animali selvaggi? Anche se i terreni circostanti appartengono a
Pemberley, non sono recintati; chiunque vi avrebbe potuto catturare, e
vi
assicuro, milady, che esistono persone ben peggiori di me!»
Emma
continuò a tenere ostinatamente gli occhi chiusi,
stringendosi la coperta
addosso e tremando ancora leggermente. Non aveva bisogno che
quell’uomo le
facesse la predica, pensò infastidita, sapeva benissimo che
la sua fuga non era
stata pianificata a dovere ed era stata più che altro uno
sparo nel buio; ma
aveva dovuto tentare, perché una
simile occasione non sarebbe ricapitata una seconda volta –
poco importava che
le circostanze fossero poco favorevoli per la sua riuscita.
Doveva
ammettere, tuttavia, che l’idea di finire in pasto a lupi o
delinquenti era
agghiacciante.
Si domandò poi se
fosse un destino preferibile al rimanere al castello con
quell’uomo…
Il
suo silenzio dovette protrarsi troppo a lungo per i gusti del padrone,
poiché
Adam perse la pazienza. «Diamine, parlatemi
almeno!»
In
un impeto d’ira le afferrò le mani, ed Emma
spostò gli occhi su di lui con aria
sorpresa e spaventata insieme: era la prima volta che la toccava
– perlomeno
mentre lei era cosciente, pensò con un brivido – e
in più l’assenza di guanti e
il fatto di sentire la consistenza della sua carne sotto il palmo le
fece realizzare
con un lampo di lucidità il rischio che aveva corso. Aveva
rischiato di morire,
per l’amor di Dio, e tutto perché non era stata
capace di aspettare il momento
giusto e avere il sangue freddo di ideare un piano migliore…
Cosa sarebbe
successo a suo padre se fosse morta anche lei? Gli occhi le si
inondarono di
lacrime al pensiero di infliggergli un simile colpo e distolse lo
sguardo,
senza tuttavia fare cenno di volersi liberare dalla stretta
dell’uomo.
«Non
so cosa dirvi», fu la sua laconica risposta, mormorata con un
debole
autocontrollo.
Ma
Adam non l’ascoltava più; nel toccare la sua pelle
si era irrigidito,
sinceramente sconcertato dal fatto che lei glielo avesse lasciato fare,
e allo
stesso tempo preoccupato dalla sua temperatura corporea. La giovane
scottava
come un carbone ardente, stava chiaramente male, eppure non aveva detto
una
sola parola al riguardo.
«Dio
mio, state bruciando», sussurrò, la voce
improvvisamente ingentilita. In un
attimo il suo tocco si fece da minaccioso a gentile, e una mano si
sollevò per
sfiorarle delicatamente anche la fronte e le guance. «Avete
la febbre, e io qua
a urlarvi addosso… Perché non avete detto niente?
Sciocca ragazza… venite con
me, è meglio che vi mettiate a letto. Riuscite ad alzarvi?
…a camminare?»
Emma
lo fissò per un lungo istante con sguardo perso, come se non
comprendesse ciò
che le stava chiedendo; infine batté le palpebre e si
guardò intorno, afferrò i
braccioli della poltrona e si alzò lentamente, sforzandosi
di recuperare
l’equilibrio e il controllo sul proprio corpo. Ma
quest’ultimo era così provato
e indebolito dalla sua recente avventura che non riuscì a
reggerla in piedi, ed
Emma si accasciò sulle proprie gambe tremanti come un
bamboccio privo di fili;
le braccia di Adam l’afferrarono prima che potesse crollare
per terra, e
d’istinto lei vi si aggrappò apprezzando il calore
che proveniva da un altro
essere umano – poco importava che si trattasse
dell’uomo che la teneva
prigioniera.
«Non
importa, vi porterò io», decise Adam bruscamente,
prendendola con un’insolita
gentilezza tra le braccia a mo’ di sposa, e cullandola,
quasi, mentre se la
stringeva al petto. «Reggetevi a me. Ecco…
così», la incoraggiò, quando Emma
sollevò d’istinto un braccio dietro il suo collo
per non scivolare; egli parve
irrigidire leggermente al tocco inaspettato, ma lady Moore era troppo
stanca
per farci caso.
Uscirono
dal salotto senza che fosse pronunciata un’altra parola, e
probabilmente
durante il tragitto lei dovette cedere alla stanchezza, cullata dal
movimento e
dal tiepido calore di un corpo contro di sé,
perché quando riaprì gli occhi si
ritrovò di nuovo nella camera da letto che aveva lasciato
poche ore prima in
compagnia di Noah.
Emma
aveva creduto che nulla avrebbe più potuto sorprenderla,
ormai, ma dovette
ricredersi nel momento in cui varcò nuovamente la soglia
della stanza che Adam
le aveva assegnato – e nella quale credeva di non dover
più mettere piede – per
trovare ad attenderli una pallida e nervosa Mrs. Duncan. La donna,
malgrado si
stesse torcendo le mani e sembrasse preda di chissà quale
malessere, non parve
particolarmente scioccata alla vista della sua padrona tra le braccia
di uno
sconosciuto mascherato; anzi, se il pensiero non le fosse sembrato
ridicolo,
Emma avrebbe quasi potuto giurare che le era parsa sollevata
nel vederla con lui…
Adam
la depose gentilmente per terra, rimanendole accanto con un braccio
intorno
alla vita per reggerla qualora dovesse perdere l’equilibrio,
e la rilasciò solo
per affidarla alle braccia della governante, che in quel momento
apparivano
ancor meno invitanti di quelle dell’uomo. Tuttavia Emma non
si oppose, poiché
era davvero troppo stanca e confusa per poter intavolare una
discussione e
sperare di uscirne vincitrice; così si lasciò
condurre senza protestare nella
piccola stanza da bagno adiacente alla camera, e quando la porta si
richiuse
dietro le due donne, oscurandole alla vista dell’uomo, Emma
sentì le proprie
spalle rilassarsi appena.
Neppure
Mrs. Duncan pareva aver molta voglia di parlare. Probabilmente temeva
che Adam
potesse sentirla – Emma si domandò se quella
reticenza fosse dovuta al fatto
che fosse stata lei ad istruire il figlio, Noah, affinché
l’aiutasse a lasciare
il castello – e non voleva aumentare l’ira del suo
padrone; giacché ormai non
aveva alcun dubbio al riguardo, lady Moore non era, ai suoi occhi,
più padrona
di lei di Pemberley.
Sempre
senza dire una sola parola, la governante aiutò Emma a
spogliarsi e a entrare
nella vasca, già precedentemente riempita con acqua calda;
gentilmente le versò
sui capelli dell’acqua tiepida, per poi prendere a
pettinarglieli e a liberarli
ciocca per ciocca da ogni traccia di fango e putridume raccolta nel
lago. Passò
poi a strofinarle la schiena e ripulire quasi con affetto materno i
graffi e le
ferite che si era procurata durante la cavalcata, trattenendo il fiato
quando
notò quelli più gravi che avevano iniziato a
sanguinare a contatto con l’acqua
calda. Durante l’intero procedimento la giovane ereditiera
rimase in silenzio,
troppo stanca per provare disagio o imbarazzo ad essere accudita come
una
bambina da una donna per cui non nutriva al momento troppa stima, la
mente
troppo impegnata a combattere la febbre e le riflessioni tormentose
riguardo la
sua più che sfortunata situazione per articolare un solo
pensiero.
L’unica
cosa per cui avrebbe potuto ringraziare Mrs. Duncan fu
l’assenza di vuote
rassicurazioni che non avrebbero avuto altro risultato se non quello di
renderla
ridicola; avrebbe dovuto domandarle se fosse stato il figlio a dirle
della sua
fuga, o se la donna l’avesse scoperto da sola e fosse poi
andata ad avvisare
Adam – il che portava ad altre mille domande, la prima delle
quali riguardava
il genere di rapporto che legava l’anziana governante di
Pemberley Manor al
misterioso uomo mascherato che si spacciava come suo proprietario. Ma
saziare
una curiosità avrebbe portato inevitabilmente a volerne
saziare delle altre, e
in quel momento Emma non era assolutamente pronta a scoperchiare quella
scatola
di Pandora.
Così
lasciò perdere, sforzandosi di non crollare addormentata
nella vasca da bagno e
dimostrare di essere ancora più debole di quanto non avesse
già dimostrato.
Quando
Mrs. Duncan la riaccompagnò nella stanza, un braccio intorno
alla vita per
tenerla in piedi, Emma notò che l’uomo aveva fatto
del suo meglio per rendere
l’ambiente il più confortevole possibile: i
cuscini del letto apparivano
sprimacciati, le coperte divelte ordinatamente da un lato in attesa che
lei vi
trovasse rifugio, alcune candele scacciavano il buio insieme al camino,
che era
stato appena acceso. Il responsabile di tutto ciò attendeva
in piedi come una
sentinella a lato del talamo, le braccia dietro la schiena e, come al
solito,
un’aria resa imperscrutabile dalla maschera.
Emma
si divincolò debolmente dalla gentile stretta della signora
Duncan e si sforzò
di raggiungere il tanto desiderato letto da sola, sulle sue gambe
tremanti, ma
con schiena dritta e sguardo deciso – o perlomeno questa era
l’impressione che
avrebbe voluto dare, anche se dubitava che i suoi occhi resi lucidi
dalla
febbre potessero impressionare qualcuno. Si sedette dunque sul bordo
del
materasso e sospirò, lasciandosi finalmente catturare dalla
spossatezza e
infilandosi con gratitudine sotto le trapunte.
Avrebbe
voluto solo chiudere gli occhi e consegnarsi all’oblio, ma
avrebbe dovuto
immaginare che il suo carceriere era ben lontano da lasciar cadere
così la
questione.
«Avevate
dato la vostra parola che mi avreste concesso sette giorni, milady, e
alla
prima occasione voltate le spalle e cercate di fuggire»,
affermò lui quindi
piuttosto freddamente, osservando con affettata noncuranza Mrs. Duncan
che
tamponava la fronte di Emma con un panno bagnato e che le rimboccava le
coperte
per cercare di farle smettere di tremare. Quando fu deciso che la
cerimonia
fosse conclusa egli congedò la governante con un secco cenno
del capo, e la
donna sparì dalla sua vista talmente in fretta che si
sarebbe detto fosse fatta
di aria.
Emma
attese finché la porta non si richiuse dietro di lei prima
di rispondere. «Mi
sembra di ricordare di non aver mai acconsentito a quella ridicola
messinscena», fu la sua gelida replica.
L’uomo
la fissò come se si fosse solo allora reso conto che, in
effetti, nessun
accordo era stato sancito tra i due, e che egli stesso aveva ammesso
che la sua
risposta non importava, e che si sarebbe fatto ciò che aveva
deciso lui in ogni
caso.
«Ad
ogni modo», ribatté, decidendo suo malgrado che
per il momento le avrebbe concesso
quella piccola vittoria. «Come vi ho già detto
è stato a dir poco sconsiderato
da parte vostra uscire dal castello nel cuore della notte, considerando
la
vostra scarsa conoscenza del territorio e di ciò che vi
sarebbe potuto
capitare, e vi sarei grato se in futuro vi asteneste dal rifare una
cosa del
genere.»
E
all’improvviso l’entità di
ciò che era accaduto tornò a crollarle addosso
con
la violenza di una valanga, mettendo a tacere qualsiasi cosa avrebbe
voluto
dire all’uomo che le stava di fronte con le braccia
incrociate e l’aria di chi
è appena stato tradito. La sua mente cercò di
ribellarsi a ciò che l’evidenza
le aveva messo davanti, ma non ottenne risultati: invece, un debole
pallore le
portò via quel poco di sangue che le era affluito in viso,
ed Emma si ritrovò a
sgranare gli occhi e a boccheggiare priva di fiato in cerca di qualcosa
da
dire.
Buon Dio, mormorò silenziosamente come un
mantra, sentendosi tremare. Buon Dio, era
quasi morta!
Sarebbe
bastato per Adam arrivare pochi secondi più tardi, e sarebbe
stato impossibile
riportarla a galla e riuscire persino a svuotarle i polmoni
dall’acqua del
lago… Era arrivata a un soffio da una dipartita sciocca e
priva di senso, ed
era grazie ad Adam se… grazie ad Adam…
I
suoi occhi d’un tratto ricolmi di lacrime si sollevarono sul
padrone, ma lo
shock di ciò che aveva appena realizzato le
impedì di notare il suo improvviso
irrigidirsi e la preoccupazione malcelata nel suo sguardo.
«Mi
avete salvato la vita», sussurrò scioccata,
stringendo le dita intorno alla
coperta che l’avvolgeva alla ricerca di un oggetto tangibile
che l’aiutasse a
non perdere il contatto con la realtà. «Se non
fosse stato per voi, io… io…»
Non riuscì a completare quel pensiero, ma non distolse gli
occhi da lui. «Vi
ringrazio», concluse miseramente a mezza voce, sperando
ch’egli cogliesse la
sincerità delle sue parole e le perdonasse la mancanza di
eloquenza.
Adam
parve preso alla sprovvista: evidentemente non si aspettava che il suo
gesto
venisse riconosciuto, e di sicuro non si aspettava da lei alcuna forma
di
gratitudine. «Non serve che mi ringraziate», fu
dunque tutto ciò che riuscì a
rispondere. «Ho fatto solo il mio dovere.»
C’era
qualcosa, nel suo tono di voce… Emma non riuscì a
definire esattamente cosa…
che le provocò una debole fitta nel petto e che le fece
provare un misto di
senso di colpa e svogliata gratitudine nei confronti di
quell’uomo che prima l’aveva
rapita, poi l’aveva trattata come ospite, poi
l’aveva sgridata amaramente per
il suo tentativo di fuga e infine era apparso sinceramente provato dal
pericolo
che lei aveva corso, e fu l’insieme di tutto questo che la
costrinse suo
malgrado ad addolcire lo sguardo e accennare un debole sorriso.
Egli
impietrì e non fu capace di aggiungere altro: quel sorriso
lo aveva disarmato.
Rimase al suo fianco finché lei non si fu addormentata, e
solo allora osò
volgerle le spalle e andarsene; chiuse a chiave la porta della stanza
più per
abitudine che precauzione – dove sarebbe potuta andare in
quelle condizioni,
anche volendo? – e rilasciò un sospiro che non si
era accorto di aver
trattenuto fino a quell’istante. Abbassò lo
sguardo sulle proprie mani,
accorgendosi non senza una buona dose di sconcerto di star tremando, e
fu
costretto ad ammettere, perlomeno a sé stesso, di essere
stato terrorizzato
all’idea di perderla.
Non
sapeva ancora bene a che cosa fosse dovuta quella sensazione, ma decise
che la
serata era stata già fin troppo movimentata per aggiungerci
anche una scomoda
analisi di sensazioni e sentimenti. Inoltre l’alba iniziava
ad approcciarsi, e
lui non chiudeva occhio da quasi due giorni – e se continuava
così, prima o poi
sarebbe crollato sfinito ed esausto, e ciò avrebbe lasciato
via libera all’altro…
No, non poteva permetterlo. Non ora.
Adam
si lasciò rapidamente alle spalle la camera da letto,
attraversando il lungo
corridoio con lunghe falcate come se desiderasse mettere più
distanza possibile
tra sé e la fanciulla, prima che perdesse del tutto il
controllo. La tentazione
di tornare da lei e usare le maniere forti fino a spingerla a giurare
su quanto
di più sacro ci fosse al mondo che non avrebbe
più messo piede fuori dal
maniero senza la sua approvazione era troppo forte da ignorare,
soprattutto
sentiva che non proveniva da lui, e per questo motivo
accelerò ulteriormente il
passo.
Era
stato a un tanto così dal crollare, quando Mrs. Duncan
l’aveva avvertito
dell’improvvisa fuga di lady Emma; non riusciva a crederci, dopo
tutte le promesse era scappata lo
stesso?
Faust
era stato pressoché incontenibile; tuttora lo sentiva
aggirarsi come una belva
in gabbia entro i confini della sua mente, lo udiva tremare di una
rabbia cieca
e furente e la sua presenza era come un tremore minaccioso appena sotto
la
pelle che prometteva di esplodere da un momento all’altro.
Aveva dovuto
ricorrere a tutto il suo autocontrollo per impedirgli di prendere il
sopravvento – non osava immaginare che cosa avrebbe potuto
fare alla ragazza
una volta riagguantata, se gli avesse ceduto – e soltanto la
consapevolezza che
fosse ancora troppo presto per far conoscere a Emma l’orrenda
furia del suo
mostro era riuscito a mantenerlo in sé.
Ma
anche se costretto entro le mura della psiche che condividevano, Faust
poteva
pur sempre far udire la sua voce, i suoi pensieri, la sua collera. E
Adam ne
aveva avuto paura, non per la prima volta, poiché
ciò che gli stava sussurrando
era talmente terribile che dubitava di poter tornare a guardare Emma
negli
occhi senza che certe immagini gli offuscassero la vista, tentandolo
con
promesse inesaudibili.
Era
stato terribilmente difficile contenere la furia di Faust e procedere
poi a
racimolare sufficiente presenza di spirito per preparare un cavallo e
lanciarsi
all’inseguimento della ragazza; e quando infine
l’aveva fatto, i suoi pensieri
e quelli del mostro avevano coinciso miracolosamente fondendosi in
un’unica
preoccupazione: trovare Emma e riportarla a Pemberley.
E adesso che l’hai
riportata a casa, che cosa conti di fare?
Adam
quasi inciampò sui suoi stessi passi quando udì
il sibilo feroce del mostro
rimbombare all’improvviso nella sua testa.
(Nulla),
ribatté a sua volta, stringendo con furia le mani a pugno.
(È mia ospite. E
verrà trattata come tale!)
Sei così debole, si prese gioco di lui
Faust, con
il suo odioso tono mellifluo. Ti fai
trattare come il più insulso degli insetti. Sei un disonore
per il nome che
porti!
(Che
cosa vorresti fare? Punirla, forse? E questo non sarebbe un disonore?)
Non hai mai trovato
disonore in ciò che abbiamo fatto in passato.
Se
avesse potuto, Adam avrebbe ringhiato.
(Non
osare riversare su di me la
responsabilità delle tue azioni! Io non avevo alcuna voce in
capitolo, lo sai
benissimo!)
Mi fai così pena, mio
povero Adam. Dopo tutto questo tempo non hai ancora capito
nulla…
Preferì
non rispondergli; non era in vena di discutere con quella voce odiosa
che non
lo lasciava in pace neppure nell’incoscienza. E poi, che cosa
avrebbe potuto
replicare? Per sua sfortuna, e non lo avrebbe mai ammesso neanche nelle
profondità della sua psiche, Faust aveva ragione:
c’erano cose, nel suo passato,
che avrebbero sconvolto la più abietta delle anime, e non
osava immaginare come
avrebbe potuto reagire una come Emma se ne avesse avuto anche solo un
assaggio.
Ma di una cosa era sicuro, avrebbe impedito a Faust di farle del male
anche se
gli fosse costata la sua stessa sanità…
Esausto
e miserabile, Adam trovò rifugio in una vecchia stanza
abbandonata. Strappò con
furia il lenzuolo impolverato che ricopriva un letto scricchiolante che
non
veniva utilizzato da decenni e crollandovi sopra a peso morto,
consegnandosi
misericordiosamente all’oblio e seppellendo nel sonno le
minacce di Faust e
tutto lo sfinimento che aveva accumulato negli ultimi due giorni.
La
camera da letto nella quale era confinata non le dava alcun tipo di
sfogo. Si
sentiva troppo stanca per alzarsi e curiosare tra i vari oggetti che la
circondavano – senza contare che non si trovava
particolarmente a suo agio
adesso che aveva la certezza di trovarsi nella stanza del suo
carceriere, i
ritratti che aveva fatto di lei erano artisticamente piacevoli ma la
loro
presenza la inquietava – e sentiva la mancanza della finestra
della sua camera,
dalla quale poteva ammirare il paesaggio esterno senza neppure lasciare
l’alcova.
Emma
sospirò, posandosi il dorso della mano sulla fronte e
gemendo nel trovarla
ancora rovente. Non poteva che biasimare sé stessa per
quella situazione – se
solo non fosse stata tanto sciocca da attraversare il bosco nel cuore
della
notte, e se non avesse costretto il cavallo fuori dal sentiero,
spingendolo nel
lago… Forse adesso sarebbe stata salva a casa di sir
Carlisle, e non sarebbe
stata stordita dalla febbre. Come se non bastasse, era terribilmente
preoccupata per miss Radcliffe: la povera donna adesso era interamente
sotto le
cure della governante di Pemberley, e visto come Mrs. Duncan era parsa
a
conoscenza di parecchie cose, la notte prima, Emma dubitava che fosse
una
persona a cui affidare la vita della donna che l’aveva
cresciuta.
D’altra
parte, cosa poteva fare? Era prigioniera in quella stanza di cui solo
Adam
possedeva le chiavi, e l’infreddatura la costringeva a letto
– aveva provato ad
alzarsi, certo, ma una forte ondata di nausea e un feroce pulsare alle
tempie
le avevano fatto cambiare rapidamente idea, costringendola a rintanarsi
sotto
le coltri. Aveva potuto abbandonare il letto soltanto quando la
governante
arrivò a portarle la colazione e il pranzo –
malgrado i sentimenti contrastanti
che provava nei confronti di Mrs. Duncan, Emma si ritrovò
grata per la
familiare presenza di un altro essere di genere femminile al suo fianco.
La
donna si era ostinata a non voler parlare, e le sue visite nella stanza
si
riducevano a mormorii di parole di incoraggiamento e di vane
assicurazioni che
nulla le avrebbe fatto del male. Come se avesse potuto fidarsi!
Immersa
com’era nel silenzio, Emma si ritrovò a
considerare che, se solo l’approccio di
Adam fosse stato differente – se, tanto per cominciare,
avesse palesato sin da
subito la sua presenza, e se le avesse chiesto gentilmente e non
tramite
minacce e imposizioni di essergli amica – probabilmente non
si sarebbe sentita
in dovere di ribellarsi per principio, né avrebbe cercato di
fuggire. Difatti, malgrado
la sua tenacia nel volerla privare della vista del suo aspetto, Adam
sembrava
una persona intelligente, un gentiluomo – quando non tentava
di tiranneggiare
sulla sua vita – un uomo di cultura con cui intrattenere una
conversazione non
pareva difficile né spiacevole; ma tutti questi tratti
evaporavano nel nulla
davanti al comportamento che egli aveva scelto di sfoderare nel
trattare con
lei, e che la facevano sentire né più
né meno che una prigioniera privata del
libero arbitrio. E, dovendo essere onesta, Emma era stanca di avere
uomini
intorno che si arrogavano il diritto di decidere per lei.
Con
uno sbuffo assai poco signorile, si domandò fino a quando
egli aveva intenzione
di portare avanti quella farsa, e se il fatto di avere tra le mani una
giovane
donna influenzata e con i nervi a fior di pelle sarebbe servito a far
rinsavire
il padrone del castello – quanto la irritava riconoscergli
quel titolo – e a
fargli realizzare che non era in suo potere trattenerla a lungo
rinchiusa tra
quelle quattro mura.
Come
se non tutto ciò non fosse di per sé abbastanza,
gli incubi continuavano a
tenerla sveglia per tutta la notte. Ogni volta che riusciva
faticosamente a
chiudere gli occhi, immagini terribili di figure spettrali insanguinate
e
fiamme e scuri abissi la tormentavano fino a farla risvegliare in
lacrime, con
la testa che le pulsava dalla febbre e dalle visioni, lasciandole
addosso
un’orribile sensazione di sventura. Erano trascorsi tre
giorni dalla fatidica
notte in cui aveva visto quelle creature aggirarsi per il castello
– o
perlomeno così credeva: di recente aveva perso la cognizione
del tempo – e
ancora non aveva la più pallida idea di chi o che cosa
fossero, e soprattutto
che cosa volessero da lei.
Fantasmi, le sussurrava debolmente una voce
all’interno della sua testa. Ma la sola idea era talmente
ridicola che
preferiva fingere di non udirla, preferendo accantonarla in favore di
ipotesi
più razionali; non era più una bambina che teneva
una candela accesa accanto al
letto per timore del buio, per l’amor di Dio!
L’unica
volta in cui aveva racimolato sufficiente coraggio per chiedere
spiegazioni ad
Adam, durante la loro prima e unica cena, egli si era rifiutato di
fornirle
anche la più piccola spiegazione, la qual cosa non
contribuiva certo a
migliorare l’opinione che aveva di lui. Che senso aveva
tenerla all’oscuro,
farla vivere nel terrore, se egli era davvero sincero quando diceva di
non
volerle alcun male, e che anzi sperava di avere la sua amicizia?
Emma
aveva paura, ma a questo punto non sapeva più di cosa.
Al
suo sempre più crescente senso di timore, si aggiungeva
inesorabile tutto il
peso dell’irrequietudine: non era abituata a rimanere a lungo
senza impiegare
il suo tempo in qualcosa di utile e costruttivo, e limitarsi a giacere
a letto
oziando dalla mattina alla sera – pur ammettendo che la
febbre avrebbe potuto
giustificare tranquillamente il suo riposo – iniziava a darle
sui nervi. Per
questo motivo accolse con qualcosa simile a sollievo l’arrivo
di Adam
nell’ormai sua stanza da letto, grata della distrazione
ch’egli portava alle
sue turbolente riflessioni.
Sollevò
lo sguardo su di lui quando il suo volto mascherato apparve sulla
soglia della
porta, ma fu ciò che teneva tra le braccia che
attirò la sua attenzione
strappandole un verso sorpreso e un’espressione di quieta
ammirazione. Il
guaito dell’animale la fece sorridere subito, e
d’istinto allungò le braccia
verso di lui: nel vederlo, Emma non aveva potuto fare a meno di provare
un’imbarazzante senso di colpa: come aveva fatto a
dimenticarsi del suo adorato
Aramis?
Senza
dire una sola parola Adam attraversò la camera e si
fermò accanto al letto,
chinandosi per deporle il cagnolino in grembo.
«Ho
pensato che potesse farvi piacere, avere il vostro amico»,
fece a mezza voce,
osservandola mentre era tutta intenta a coccolare Aramis, che ansimava
e
scodinzolava felice, strofinandole il muso contro le mani e il ventre.
«Sì,
io… ah… grazie», mormorò,
sollevando appena lo sguardo per incontrare il suo. Adesso
era perplessa: se si trovava in quelle condizioni, febbricitante e
costretta a
letto, la colpa era da far ricadere unicamente su di lui…
Eppure ecco che lo
ringraziava per la seconda volta, ecco che lo lasciava restare nella
stanza
insieme a lei a prender parte a un momento di intimità che
non credeva di dover
condividere.
Mentre
coccolava il suo cucciolo, che palesemente aveva sentito la sua
mancanza, notò
con la coda dell’occhio Adam che spostava alcuni mobili, tra
cui una sedia e un
tavolino da gioco portato da chissà quale altra stanza,
proprio vicino al suo
letto. A questo punto si voltò per osservarlo
deliberatamente, guardandolo
mentre si sedeva in modo da esserle di fronte e inarcando un
sopracciglio
all’inattesa vicinanza.
L’uomo
ricambiò allora il suo sguardo, e il modo in cui i suoi
occhi chiari
luccicarono attraverso i buchi della maschera le fece sospettare che le
stesse
sorridendo.
«Sapete
giocare a scacchi?» Domandò gentilmente, come se
fosse una cosa del tutto
normale da chiederle in quel frangente.
«Mi
piace pensare di sì, signore», rispose cauta,
cercando di capire a cosa doveva
l’improvvisa curiosità.
Egli
si limitò ad annuire, e da dietro la schiena tirò
fuori una scacchiera e un
sacchetto di velluto contenente, a giudicare dal rumore, le pedine del
gioco.
Prese a disporli sul tavolino con precisione e, senza quasi rendersene
conto,
l’ombra di un sorriso apparve sul viso di Emma.
«Se
vi avessi detto che non ne ero capace, che cosa avreste tirato
fuori?» Gli
chiese con appena l’accenno di un tono scherzoso.
Sorpreso
ma intimamente compiaciuto dal tono della sua voce, egli le rispose in
eguale
maniera. «Sempre una scacchiera, milady: non ho ancora
imparato trucchi di
prestigio. E ad ogni modo vi avrei insegnato a giocare,
perché sarebbe stata
una lacuna imperdonabile da parte vostra.»
Emma
confermò con un lieve cenno del capo e un ancor
più debole sorriso la verità
della sua affermazione, e rimase ad osservare in silenzio mentre
l’uomo finiva
di sistemare con cura le pedine sul campo da gioco.
Parlò
solo per domandarle quale colore preferisse. «I
bianchi», rispose subito lei.
«Hanno il privilegio di muovere per primi.»
La
maschera celò ancora l’ennesimo breve sorriso che
apparve sul volto di Adam.
Emma
non si era accorta di quanto desiderasse una qualsiasi forma di
intrattenimento
fin quando non iniziò a muovere un pedone dopo
l’altro, studiando attentamente
l’andamento del gioco come suo padre le aveva insegnato sin
da quando era stata
abbastanza grande da poter stare seduta composta su una sedia. Aramis,
riconoscendo la concentrazione della sua padrona poiché
diverse volte in
passato aveva assistito a simili passatempi, rimase quieto al suo
fianco,
raggomitolato sopra la coperta e sonnecchiando tranquillo.
Quando
si trattava degli scacchi, sapeva di essere feroce; e quello svago
capitava
proprio in un momento in cui aveva decisamente bisogno di sfogare in
qualche
modo tutta la tensione accumulata. E Adam, seppure in silenzio e senza
quasi
respirare, era un degno avversario ben capace di sostenere la sua
sfida; per
cui decise di liberare la mente da qualsiasi altro pensiero, e di
occuparla
unicamente nella ricerca di strategie di vittoria.
All’improvviso,
però, il suo avversario dovette decidere che il silenzio era
durato abbastanza.
«So
di avervi spaventato», esordì in un mormorio.
Emma
sollevò lo sguardo dalla scacchiera, sorpresa, posandolo su
quella maschera
bianca che ormai pareva essere espressiva quanto un volto vero. O forse
era
solo lei che aveva imparato a conoscere ogni sfumatura della sua voce
tanto da
poter chiaramente decifrare i suoi sentimenti… Decise di
ignorare quell’inutile
riflessione, e osservò di sbieco il suo anfitrione in attesa
che proseguisse
con il suo discorso.
Così
egli fece, modulando magistralmente la voce come si fa con la creta.
«Sì, anche
se forse non ci credete. Lo so. Non avreste provato a fuggire nel cuore
della
notte, altrimenti, senza neppure soffermarvi a riflettere su
ciò che stavate
facendo», chiarì, con quella che le parve una
sorta di amara dolcezza. «Mi
rincresce avervi ispirato un terrore tale da farvi ritenere che
perdervi nella
brughiera al gelo e senza idea di dove andare fosse un destino
preferibile al
rimanere in mia compagnia un minuto di più. So di meritare
il vostro astio e
probabilmente persino la vostra diffidenza, poiché non vi ho
dato modo di
fidarvi di me… E per questo motivo vi porgo le mie
più sincere scuse.»
Se
c’era qualcosa che Emma non si sarebbe aspettata di ricevere,
era una richiesta
di perdono; e il tono sinceramente contrito con cui gliela aveva
offerta non
faceva che aggravare la sua incredulità. Che cosa avrebbe
dovuto rispondere? Si
aspettava che scrollasse le spalle e respingesse le sue parole con un
gesto
della mano, fingendo che non fossero necessarie? O forse doveva
limitarsi a
chinare il capo, accettarle e continuare a comportarsi come se
l’uomo fosse
innocente e lei non fosse la vittima della situazione?
Emma
poteva apprezzare il gesto – non vi avvertiva alcuna malizia,
in fondo – ma non
aveva idea di che farsene. Aveva l’acuta sensazione, ormai
era anzi quasi una
certezza, che il padrone stesse cercando di accattivarsela in tutti i
modi
possibili, cercando di giungere con le buone maniere ove le minacce non
avevano
sortito il loro effetto, e la giovane temeva di poter dire o fare
qualcosa che
rassicurasse Adam di esservi riuscito. Non voleva che egli si trovasse
eccessivamente a suo agio in sua compagnia, ma d’altro canto
le pareva poco
gentile non riconoscere i suoi sforzi e ammettere che il suo modo di
comportarsi improvvisamente amichevole e affettuoso aveva buone
possibilità di
riuscire nel suo intento.
Come
le accadeva spesso quando si trovava in situazioni particolari per la
prima
volta, Emma volse i propri pensieri a miss Radcliffe, e si
domandò mestamente
che cosa la sua istitutrice avrebbe avuto da dire al riguardo.
Probabilmente le
sarebbe venuta una crisi di nervi al suo posto, e l’avrebbe
supplicata di non
comportarsi in maniere che potessero danneggiare la sua reputazione
– benché ci
fosse poco che potesse fare a proposito, dato che si trovava alla
mercé di un
uomo che non conosceva, in camicia da notte e senza alcuno chaperon;
detto ciò,
era possibile che neppure la donna, nella sua saggezza, avrebbe potuto
consigliarla sulla condotta migliore da adottare.
La
decisione spettava dunque unicamente a lei, e sotto questo peso ella
prese un
profondo respiro.
«Se
vinco», esordì dopo un silenzio tanto lungo da far
credere che non ci sarebbe
stata alcuna replica alla confessione di Adam. «Se vi batto a
scacchi, mi
lascerete nuovamente libera di gironzolare per il castello?»
L’uomo
la osservò con aria sorpresa e vagamente perplessa, cercando
un collegamento
con ciò che le aveva detto e con la risposta che aveva
ottenuto; ed era
probabile che alla fine dovette trovarlo, perché i suoi
occhi assunsero una
sfumatura divertita poco prima ch’egli annuisse sorridendo.
«Naturalmente,
milady. Avete la mia parola.»
«Bene»,
fu tutto ciò che la giovane disse, e da quel momento in poi
la partita proseguì
nel più assoluto silenzio.
Quando
infine Emma fece scacco matto, neanche un’ora dopo, Adam
accettò la sconfitta
con un elegante cenno del capo. Ma per qualche strana ragione la
vittoria non
fu troppo soddisfacente – aveva la strana sensazione che lui
gliel’avesse
concessa soltanto per farsi perdonare.
C’era
qualcosa che non riusciva a togliersi dalla mente da diverse settimane,
ormai,
e vista la nuova direzione che stava prendendo la sua relazione con
Adam –
benché tale definizione suonasse strana se riferita a loro
– Emma aveva deciso
che valeva la pena introdurre il discorso e vedere cosa avrebbe potuto
ricavarci.
Si
trovavano nella biblioteca; quella mattina Emma si era svegliata senza
tremori
né febbre, e dopo un rapido controllo di Mrs. Duncan e la
conferma da parte sua
che l’influenza era passata, aveva chiesto al suo ospite se
le era possibile
uscire finalmente da quella camera da letto, come da promessa, ed egli
aveva
sorprendentemente acconsentito proponendole di prendere il
tè nella biblioteca.
Ritrovarsi
nuovamente in quell’ambiente accogliente e familiare ebbe su
di Emma un ottimo
effetto: vedere la luce entrare dalle immense vetrate, inspirare il
profumo dei
libri e dei fiori freschi che la governante aveva preso a disporre
nella stanza
per sua disposizione, persino sedere per terra di fronte al camino con
Aramis
accucciato ai suoi piedi servì a calmarla e a metterla a suo
agio come non lo
era stata da giorni. E stranamente non era disturbata dal fatto che
stavolta
Adam si trovasse in quello che lei aveva iniziato a considerare il suo
piccolo
angolo privato del castello – benché trovasse
inevitabile rimanere all’erta
vicino a lui, vederlo seduto su una poltrona a pochi passi da lei era
in un
certo qual modo rassicurante.
Così,
cullata dall’atmosfera pacifica del momento, Emma decise di
indulgere nella
propria curiosità.
«Se
permettete, c’è qualcosa che vorrei
chiedervi», esordì, continuando ad
accarezzare il morbido capo del suo cucciolo con fare distratto. Prese
nota di
avere l’attenzione dell’uomo sotto forma di un
lieve cenno d’assenso, e decise
di proseguire prima di perdere il coraggio. «Riguarda un
diario che ho trovato
settimane fa, mentre curiosavo per il castello…
Nell’ala Ovest, per la
precisione.»
Con
la coda dell’occhio notò il lieve irrigidirsi del
suo compagno, ma poiché egli
non diede mostra di voler interromperla – forse anche lui
peccava di curiosità,
in fondo – Emma andò avanti. «Era di un
certo dottore, un tale Murray, mi pare…
E volevo chiedervi per quale motivo fosse in vostro possesso, visto che
non mi
risulta che ci fosse alcun Murray recente nell’albero
genealogico dei Rochester
o dei Pemberley. Ho trovato i registri alcune settimane fa»,
spiegò quando lo
vide piegare appena il capo di lato con aria interrogativa.
«E ho scoperto
anche che il titolo dei Rochester risale all’epoca di Enrico
VI, e non ci sono
Murray per generazioni. Ad ogni modo, da quanto ho potuto leggere
chiunque
abbia scritto quel folle diario non pareva essere imparentato con
alcuna
famiglia nobile, o avrebbe di certo lasciato il suo stemma o il suo
titolo da qualche
parte tra le pagine. Insomma, ho trovato curioso che quelle memorie
fossero nel
castello senza che ci fosse nessun legame apparente con i precedenti
proprietari; voi avete idea di chi si tratti?»
Adam
non le disse che non avrebbe dovuto leggere quel diario in primo luogo
e che
avrebbe dovuto evitare di ficcare il naso in faccende che non la
riguardavano,
per il semplice motivo che stava cercando di comportarsi in maniera
decente e
degna di un qualsiasi altro gentiluomo dell’alta
società. Dopotutto, poteva ben
capire che la giovane doveva essersi annoiata parecchio per essersi
ritrovata a
vagare per l’Ala Ovest senza conoscere il luogo e rischiando
dunque di perdersi
nella stessa casa in cui ora abitava; e d’altronde che male
poteva esserci se
saziava la sua curiosità al riguardo? Non c’era
bisogno di rivelarle grossi
segreti – avrebbe potuto parlare del dottor Murray senza far
trasparire nulla
più che una semplice e frammentaria conoscenza.
Decisione
presa, raccolse le idee e le rispose.
«Per
quel poco che so, il dottor Murray era un amico del conte di
Rochester», iniziò
a mezza voce Adam, scegliendo con cura le parole.
«Benché discendesse da una
famiglia ricca e rispettata, non godeva di una fama altrettanto
gentile, e per
lo più conduceva una vita solitaria e appartata,
ostracizzato dalla società
londinese. Per via di alcune sue discutibili ricerche, i suoi stessi
colleghi
iniziarono a considerarlo un pazzo, un folle visionario… Un
eretico,
addirittura. Non so tramite quale connessione avesse sviluppato
un’amicizia con
il conte, e non conosco neanche la vera natura di questo rapporto, ma a
quanto
pare rimasero in contatto fino alla morte di entrambi. Se avete letto
attentamente il diario, di certo converrete che il dottore era incapace
di
ragionare in modo coerente.»
«Certe
riflessioni erano molto elusive», mormorò Emma con
delicatezza. «Ma mancano
diverse pagine, e forse ho perso qualche collegamento
nell’intero discorso.
Narrava anche di particolari esperimenti sugli esseri umani, credete
sia
possibile che li abbia fatti davvero o si trattava solo di semplici
vaneggiamenti?»
«Ritenete
impossibile che li abbia compiuti, milady? Rimarreste scioccata nello
scoprire
di che genere di barbarie è capace l’essere
umano», replicò egli a mezza voce,
il viso rivolto verso le fiamme del camino. Nel suo tono vi era
qualcosa che la
costrinse a sollevare lo sguardo su di lui, ma con quella maledetta
maschera
era impossibile comprendere davvero che cosa gli passasse per la testa.
Eppure
non osava domandargli di levarla, memore del loro primo incontro e
della
veemenza con cui l’aveva avvertita al riguardo; e, per
rispetto di quella
strana quiete che si era venuta a formare tra loro, Emma aveva deciso
di
lasciar perdere.
«Trovo
solo strano che un uomo di scienza come egli si definiva potesse
ricorrere a
biechi mezzi per l’unico scopo di saziare qualche dubbio
filosofico», fu la sua
prudente risposta. «Insomma, stiamo parlando di qualcosa
avvenuta poco più di
dieci anni fa a Londra, per l’amor del cielo, una
città i cui abitanti vantano
un certo grado di civilizzazione. Pensare che qualcuno possa aver
trattato un
altro essere umano alla stregua di una cavia da laboratorio…
Non so, è
terrificante.»
«Mh.
Terrificante, invero.» La voce di Adam fu un sussurro a
malapena udibile al di
sopra del crepitio delle fiamme del camino. «Ma forse il
dottore si nascondeva
dietro una maschera di modernità e progresso con la speranza
che il marcio del
suo animo rimanesse ben lontana dalla luce… Avete mai letto
Il ritratto di Dorian Gray, milady?» Emma fece un
breve cenno
di diniego del capo: suo padre le aveva proibito la lettura della
maggior parte
delle opere di sir Wilde, ma ora sperava che il suo ospite potesse
sopperire
alla sua mancanza. «No? Un romanzo terribile nella sua
bellezza. Malgrado le
disgrazie che capitavano intorno al protagonista, nessuno avrebbe mai
potuto
dubitare della sua buonafede, per il semplice fatto ch’egli
fosse di
bell’aspetto, di discreta educazione ed estrazione sociale e
che avesse un
particolare affetto per le arti; era un così ottimo esempio
di ciò che il
gentiluomo inglese deve essere che nessuno avrebbe mai creduto che le
sue mani
fossero lorde di sangue. Non è su ciò che si basa
la società londinese, forse? Sulla
repressione di ogni forma di istinto naturale affinché
soltanto il perfetto e
distaccato involucro dell’apparenza sia tutto ciò
che viene giudicato dal
prossimo? Probabilmente voi avete avuto la fortuna di crescere in un
ambiente
sereno di questo tipo, protetta da ogni genere di oscenità,
e non posso
biasimare di certo i vostri genitori per avervi tenuto alla larga
dall’orrido;
ma posso assicurarvi che Londra è tutto fuorché
una città tranquilla una volta
che si esce dagli eleganti salotti dell’aristocrazia. E il
dottor Murray… Ammetto
di aver letto anche io il suo diario, e devo dire che mi sorprende che
un
elemento del genere non sia stato rinchiuso in qualche
istituto… Ebbene, per
essere stato bandito da ogni casa rispettabile doveva aver assunto un
comportamento davvero impossibile da ignorare, anche secondo i canoni
più
tolleranti dell'epoca. Dovreste sapere che se c'è qualcosa
di cui sono ben
capaci gli inglesi, è il conservare rancore come fosse un
gioiello prezioso.»
Emma
avrebbe quasi potuto giurare ch'egli parlasse per esperienza
strettamente
personale, e per un lungo momento dopo che l'uomo ebbe concluso il suo
breve
discorso rimase in silenzio, incerta e insicura su ciò che
avrebbe potuto
offrirgli in risposta senza rischiare di offenderlo.
Alla
fine, decise di ritornare al principio della conversazione.
«Da come ne parlate
sembra quasi che voi abbiate conosciuto quest’uomo, e che non
ne aveste neppure
un’opinione tanto gentile», osservò
quasi con noncuranza.
«Perdonate
la mia veemenza», si affrettò a scusarsi,
voltandosi subito verso di lei. «Le
mie sono solo deduzioni e riflessioni ad alta voce. Ho letto spesso
quel diario
e lo conosco quasi a memoria, e ormai mi pare di conoscere chiunque
l’abbia
scritto come fosse un mio intimo conoscente. Ma dubito che, avendone
avuto
l’occasione, avrei potuto instaurare una relazione di alcun
genere con un uomo
del genere – neppure io sarei stato capace di tollerare
qualcuno che spaccia
per scienza gli esperimenti di uno squilibrato. Un macellaio che finge
di
essere un dottore… Certe maschere sono impossibili da
comprendere e
giustificare.»
Ancora
quella parola, ancora quell’esempio; Emma inarcò
perplessa un sopracciglio. «Devo
dire, signore, voi avete una certa ossessione per le
maschere.»
Adam
emise una sorta di sbuffo sarcastico. «Voi dite? Non
più del resto del mondo,
direi. Io ho semplicemente il buon gusto di denunciare la mia e non
spacciarla
per vera.»
Era
una buona risposta, quasi filosofica, ed Emma si ritrovò ad
annuire,
riconoscendola e persino condividendola. Eppure, dava adito a tante
altre
domande, e lei non resistette dal porgergliene ancora una.
«Allora chi siete
voi, veramente?»
Egli
parve rifletterci sul serio, e la giovane notò che si stava
sforzando di non
incrociare il suo sguardo come se temesse, in caso contrario, di dire
qualcosa
di cui si sarebbe pentito. Fissava con insistenza le fiamme del camino,
come se
in esse ci fosse la risposta ai quesiti
dell’umanità, e tamburellava le dita
della mano destra sul bracciolo della poltrona. La pendola ticchettava,
ed Emma
attendeva.
Alla
fine, dopo un silenzio innaturalmente lungo, sospirò
rassegnato e scosse appena
il capo. «Adam. Sono solo Adam»,
sussurrò.
La
risposta non era esattamente soddisfacente, né tantomeno
esaustiva. Egli amava
parlare ma non di sé stesso, ed Emma non poté
fare a meno di chiedersi, per
l’ennesima volta, quale fosse il segreto che si sforzava di
nascondere con la
stessa estenuante ferocia di chi cela il peccato. Chi era Adam? Chi era
l’uomo
dietro la maschera? Più ripeteva allo strenuo quei quesiti
tra sé e sé, più
realizzava che vi era ancora molto che non sapeva; se davvero egli era
“solo Adam”, per quale motivo i
domestici, e una donna severa e autoritaria come Mrs. Duncan per di
più,
chinavano il capo e gli obbedivano senza discutere e tremavano persino
al solo
accenno del suo nome? Era forse pericoloso? Era un criminale che aveva
stabilito la sua dimora a Pemberley e minacciava l’anziana
coppia di custodi
costringendoli a trattarlo da piccolo lord?
Nelle
mani di chi era finita, per l’amor del cielo? E
perché era così difficile
ottenere delle risposte in quel castello dimenticato da Dio?
Osservò
con aria pensosa Adam che poneva bruscamente fine alla loro
conversazione
alzandosi dalla poltrona e attraversando la biblioteca per raggiungere
il
pianoforte, sedendovisi di fronte e sollevando il copri tastiera con
una cura
reverente. Continuò a guardarlo mentre si sfilava i guanti
un dito per volta
per poi posarli accanto a sé sullo sgabello, e i suoi occhi
seguirono i
movimenti delle sue mani callose mentre apriva lo spartito e cercava
una
qualche pagina in particolare.
Non
appena le sue dita sfiorarono l’avorio dei tasti, la musica
sgorgò dallo
strumento con l’entusiasmo e la forza di una mareggiata,
mettendo a tacere
qualsiasi altro suono o pensiero estraneo. Era magnifica, straziante e
dolorosa, commovente e drammatica, ondeggiava tra note invadenti come
bufere e
note delicate e leggiadre come amare carezze. Ed era,
sorprendentemente,
familiare.
Emma
riconobbe immediatamente quella musica.
«Avrei
dovuto immaginare che foste voi l’autore
misterioso», mormorò a mezza voce,
posando il mento sul palmo della propria mano e lasciandosi incantare
dalla
musica sapientemente composta. Egli fece un breve cenno
d’assenso col capo
nella sua direzione per confermare la sua gentile accusa, e continuando
a
suonare per il resto del mattino rese superflua ogni altra forma di
conversazione.
Chiunque
fosse questo Adam, egli doveva aver di sicuro ricevuto
un’educazione degna del
più nobile tra gli aristocratici; e ciò non
faceva che infittire il mistero che
lo circondava.
Lawrence
Alexander Moore, quarto conte di Grantham e onorevole membro della
Camera dei
Lord, dimostrava ormai ben più dei suoi cinquantasei anni.
Gli ultimi mesi
erano stati una prova difficile tanto per la figlia quanto per lui, e
adesso
molto più bianco si era aggiunto ai suoi capelli, ed era
dimagrito al punto da
essere diventato la metà dell’uomo che era un
tempo.
Mangiava
saltuariamente, più per abitudine e per mettere a tacere le
proteste del suo
maggiordomo che per vero bisogno, e aveva raddoppiato la sua dose
giornaliera
di brandy e sigari: il suo bicchiere era sempre pieno, e nel suo studio
aleggiava sempre l’odore acre del fumo – sarebbe di
certo morto asfissiato se
di tanto in tanto non fosse entrata una cameriera a spalancare
misericordiosamente
le finestre. Dormiva poco, e quando cedeva alle lusinghe di Morfeo non
riusciva
a riposare – il letto era troppo vuoto per ospitare una sola
persona, e per
questo aveva iniziato ad appisolarsi sulla poltrona dello studio o nel
lettino
dello spogliatoio, dove talvolta la sua povera sposa lo costringeva a
dormire
se durante il giorno avevano avuto un alterco particolarmente
appassionato. Se sua
figlia Emma lo avesse visto in quel momento, dopo quasi due mesi di
lontananza,
lo avrebbe di certo rimproverato; ed era questo uno dei motivi per cui
aveva preso
la decisione di spedirla in campagna – non voleva che la
ragazza trascorresse
il duro periodo di lutto a preoccuparsi ulteriormente per lui, non era
quello
il suo scopo, e il conte non voleva diventare un peso o una vergogna
per la
giovane ereditiera.
Per
quanto desiderasse avere la figlia al suo fianco, non le avrebbe mai
permesso
di assistere alla lenta autodistruzione dell’un tempo
onorevole e fiero conte
di Grantham.
Anche
per questa ragione il conte continuava a rimandare e rimandare il
giorno in cui
avrebbe dovuto raggiungerla nella loro proprietà del Nord
Yorkshire – avrebbe
voluto raggiungerla già alla fine del primo mese, ma quando
aveva visto le
conseguenze della sua solitudine e della sua disperazione, aveva
preferito
attendere di essere nuovamente in forze, o perlomeno decentemente
presentabile.
Per il momento, sfortunatamente, la sua situazione era solo peggiorata
invece
di migliorare, ed era stato con immenso sollievo che aveva accettato la
proposta del giovane Caledon di passare a trovare la sua promessa
sposa; il
ragazzo era stato persino tanto gentile e considerato da prendersi il
tempo di
spedire una lettera al futuro suocero in cui gli raccontava della
visita – di
come miss Radcliffe fosse momentaneamente influenzata, di come
ritenesse che il
castello fosse troppo grande per avere soltanto tre domestici, di come
la
proprietà intera gli avesse lasciato speranze per il
prossimo futuro in cui
avrebbe potuto, magari, con la sua benedizione, prendervi residenza
dopo il
matrimonio. Ma soprattutto gli aveva parlato di Emma in toni
così gentili e
affettuosi che il conte si ritrovò a provare pena per lui,
poiché sapeva bene
che i sentimenti della figlia ancora non riuscivano a eguagliare quelli
del
fidanzato; gli disse di averla trovata in salute, riposata, e che
malgrado la
preoccupazione naturale per la sua istitutrice e il peso del gestire da
sola
una simile magione, Emma stava gestendo bene la situazione e a suo
parere stava
riuscendo pian piano a digerire il lutto.
E
dunque con quale coraggio avrebbe potuto raggiungerla? Sarebbe andato a
portarle la sua sempre vivida afflizione proprio quando lei ne stava
appena
guarendo, e al dolore della scomparsa della madre avrebbe solo aggiunto
l’apprensione per la condizione fisica e mentale del padre.
No, non poteva;
avrebbe aspettato ancora, avrebbe cercato di riprendersi, e solo allora
l’avrebbe raggiunta. Si fidava di lei e della donna alle cui
cure l’aveva
assegnata, e benché conoscesse solo tramite corrispondenza
gli attuali custodi
e domestici di Pemberley, poteva dire di trovarli adeguati e degni a
loro volta
di fiducia.
Sua
figlia era quindi in buone mani, ed era lieto di non doversi crucciare
anche
per lei.
Era
attualmente impegnato a redigere dei documenti riguardanti le
proprietà della
sua defunta moglie, quando il suo lavoro venne interrotto da un leggero
bussare
alla porta dello studio. Sulla soglia apparve quindi la figura rigida e
impettita di Mr. Logan, il maggiordomo di Hambleton che lo aveva
accompagnato a
Londra come consuetudine, con un piccolo vassoio tra le mani su cui il
conte
poté notare una lettera.
«Perdonate
il disturbo, milord», esordì Logan, con il suo
solito cipiglio severo. «È appena
arrivato un telegramma per voi.»
Mettendo
da parte i vari documenti egli fece cenno al maggiordomo di
avvicinarsi,
prendendo un affilato tagliacarte dalla scrivania e usandolo per aprire
la
busta della lettera. Quindi l’avvicinò alla
lampada a gas e, inforcati gli
occhiali sulla punta del naso, lesse.
Telegramma di Sir
Arthur Carlisle al Conte di Grantham
Milord: ho ragione di
credere che vostra figlia sia in grave pericolo STOP Impossibile
raccontare
ogni cosa per lettera STOP Raggiungete Pemberley Manor il prima
possibile STOP
In fede, un amico.
«Che
diavolo», borbottò sconcertato il conte,
rileggendo un altro paio di volte il
curioso messaggio. «Quando è stato
spedito?»
Mr.
Logan diede una rapida occhiata al retro della busta.
«Pare… quattro giorni fa,
milord. Strano che sia arrivato così in ritardo»,
rispose, per poi scrutare
brevemente il volto rannuvolato del suo padrone. «Va tutto
bene, milord?»
Il
conte esitò un momento, le dita ancora strette su quel
foglio in sé privo di
valore. «Non ne sono molto sicuro, Logan, in
realtà», rispose, mentre una
gelida apprensione si faceva largo nelle sue ossa. «Credo che
sia ora di
organizzare il mio viaggio a Pemberley Manor, dopotutto. Iniziate a
dare
disposizioni, vi dispiace? Ho intenzione di partire il prima possibile.
Ah, e…
Logan?»
«Sì,
milord?»
«Informatevi
su questo Arthur Carlisle e procuratemi il suo indirizzo. Voglio
parlarci.»
Il
maggiordomo annuì, conscio dell’improvvisa
serietà della faccenda.
«Subito,
milord.»
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¹ «I
morti viaggiano veloci.» Verso tratto dalla Lenore
di Gottfried August Bürger
(1747-94), noto poeta tedesco. La ballata canta la fuga di Lenore con
lo
spettro del suo amante defunto.
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Note
dell’Autrice.
Chiamatemi Lazzaro
– sono resuscitata!
Davvero, non ci sono
abbastanza parole per
chiedervi scusa. Dopo quasi nove mesi di attesa, partorisco un capitolo
riflessivo, uno dei più difficili in assoluto che mi sia mai
ritrovata a
scrivere, e dove succede poco e niente – però i
nostri due protagonisti si
limitano ad imparare a conoscersi l’un l’altro, e
una conversazione circa-meno-quasi
civile è capace di fare miracoli, no?
Parlando brevemente della
digressione
filosofico/letteraria su Dorian Gray a fine capitolo: chiedo perdono se
è
confusa, errata o sconclusionata; l’ho scritta pensando a
come un personaggio
come Adam avrebbe potuto interpretarlo, dunque non la voglio spacciare
per
vera, sbagliata o altro. E in ogni caso l’arte è
relativa e soggettiva, e
ognuno la elabora e la comprende a seconda di quali sono le sue
esperienze di
vita.
E abbiamo anche conosciuto,
finalmente, il padre
di Emma: spero che non sia uscito come il peggior padre
dell’anno, e che le sue
ragioni per aver lasciato finora la figlia da sola e a mille miglia da
casa
siano, se non valide e giustificabili, perlomeno comprensibili?
Come al solito, i
ringraziamenti sono d’obbligo. Le
vostre recensioni sono sempre meravigliose e le leggo e rileggo in
continuazione quando sono bloccata e non so cosa scrivere
perché mi tirano su
il morale e mi spingono ad andare avanti anche se con i miei tempi
lentissimi,
e quindi sono sempre ben accette! Un enorme grazie, dunque, a Sylphs,
k_Gio_, Sissi Bennett, Jolly
J, NinaTheGirlWithTheHat e Se7f
per aver recensito con splendide parole lo scorso capitolo, e
ovviamente un
bacio e un abbraccio enorme a tutti coloro che continuano a leggere,
instancabili
e fiduciosi, e ad aggiungere la storia a Preferiti e Seguiti!
Non posso farvi promesse
per il prossimo capitolo,
vi posso dire solo di rimanere collegati e di pregare tutti i santi che
conoscete xD Se vi consola io ho il mio bel diavoletto che mi
punzecchia con la
sua forca e mi fa scrivere fino a non farmi più sentire le
dita – o perlomeno
ci prova – e sì, Christine23,
sto
guardando proprio te. ù_ù
Come al solito, per
qualsiasi domanda, dubbio,
curiosità o semplicemente per un ciao,
trovate tutti i link che volete al mio profilo!
E ora vi lascio alla vostra
estate con un bacio,
un altro abbraccio e tante care cose ♥
Sempre la vostra
Niglia.