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Autore: whitemushroom    28/06/2015    6 recensioni
[...] to Oscar Vessalius, the man who loved and forgave everything, farewell.
Una storia breve dedicata al mio personaggio preferito di questa fantastica serie.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Oscar Vessalius
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Broken Clock'
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Eppure di invidia si trattava ...

“Signor Oscar, mi permetta di dire che stavolta ha seriamente esagerato!”
“Esagerato? Suvvia, signora Kate …”
La verità è che avrebbe preferito non coinvolgere quella vecchia rompiscatole della signora Kate. Però era stato inevitabile. In totale vi erano quattro vestiti da passeggio, un paio di stivali, tre mantelli, una scatola con cinquanta soldatini di piombo, tre trottole –non poteva escludere Gilbert e Ada dai giochi, no?-, un nuovo set di penne, una scatola di latta con pastelli di ogni colore, un flauto traverso, dieci birilli intagliati, una palla, la miniatura di un drago e del suo cavaliere, una clessidra con della sabbia azzurra, una spada di legno, una lente d’ingrandimento e soprattutto quel fantastico trenino che aveva visto nella bottega di un giocattolaio nel quartiere orientale di Reveil. Era rimasto incollato al vetro del negozio per un tempo indefinito, cercando di capire come facesse quella locomotiva a muoversi per così tanti minuti senza che qualcuno lo caricasse con una molla, più estasiato dei bambini. E ovviamente lo aveva acquistato subito, già pregustando di vedere la stessa espressione estatica sulla faccia di Oz. A conti fatti non sarebbe mai riuscito a tenere nascosti tutti quei regali nello stesso posto senza che la zelante governante lo venisse a scoprire semplicemente riordinando la sua stanza, dunque si era arreso all’evidenza dei fatti e le aveva fatto vedere l’armadio strabordante di pacchi sperando nella sua collaborazione o almeno nel suo silenzio. “… non si compiono tredici anni tutti i giorni, giusto?”
La donna sospirò e gli lanciò un’occhiataccia, ma non poteva sperare di ottenere di più. Prima che lei chiudesse le ante del mobile la fermò, perché mancava ancora un pacchetto. Il più importante di tutti, ovviamente. Quello che il suo Oz avrebbe dovuto vedere per primo.
Era da almeno due settimane che il ragazzo non stava più nella pelle, aveva persino scritto una lettera al suo libraio di fiducia per farsi recapitare subito la primissima copia del nuovo romanzo che attendeva con ansia da chissà quanto tempo: lettera che Oscar aveva intercettato e fatto sparire, perché non aveva la benché minima intenzione di lasciar a qualcun altro il piacere di consegnare il quarto volume di quella serie (Holy Knight? Holy Night? … non riusciva mai a ricordare il titolo esatto) al suo preziosissimo nipote. Stava per posizionare il pacco verde e oro bene al centro della composizione quando la porta alle sue spalle sbatté con una violenza inaudita, la signora Kate cadde nel silenzio più assoluto e lui fermò il regalo a mezz’aria: non aveva di certo bisogno di voltarsi per sapere chi fosse la persona appena entrata in quella stanza.
“Sprechi il tuo tempo, Oscar”.
“Sopravvivrò a questa tragedia, Zai” rispose. Con la coda dell’occhio vide la gonna grigia della signora Kate sparire in direzione dell’ingresso, lasciandolo solo con la figura dietro di lui e con il familiare suono del bastone da passeggio che puntava sul pavimento quasi a volerlo disintegrare. “Ah, visto che ci sei … bentornato!”
“Mpf”.
Oscar si voltò, con il libro incartato ancora in mano.
Suo fratello aveva la pessima abitudine di tornare senza farsi annunciare. Non che fosse un suo ben preciso dovere –era il granduca, dopotutto-, ma a Oscar sarebbe piaciuto che ogni tanto Zai rendesse partecipe il resto della famiglia delle sue attività. O almeno sapere in anticipo il giorno di un suo eventuale arrivo per preparare Oz. Si accorse in quel momento, osservando il cappello scuro, le scarpe ed il mantello da viaggio ben saldo alle sue spalle, che qualunque rumore nella villa era cessato. I bambini non stavano più ridendo nel giardino. Non si sentiva più nemmeno la voce di Ada. “Solo una sosta per cambiare i cavalli. Ripartirò non appena gli stallieri avranno finito”.
“Ah …”
Sì, in effetti era inutile farsi delle illusioni. Ma la speranza lo aveva sfiorato per un istante. Cercò di mettere sul viso l’espressione più conciliante che possedeva, liberando dalle labbra la domanda che ripeteva come un disco rotto da tredici, bellissimi, lunghissimi anni. “Non rimani per il compleanno di Oz?”
“Non ti sei ancora stancato di sentire la mia risposta?”
“Certo che mi sono stancato” sospirò. “Ma non lascio mai nulla di intentato. Specie quando si tratta di lui”.
E la tempesta era lì. Ferma, nera, con piume color della notte che volavano nell’aria. Conosceva bene il temporale nella voce di Zai, ma questo non impediva alle sue gambe di tremare tutte le volte che affrontavano la sua collera ed il suo disprezzo. Prenderlo di petto era il miglior modo per farlo infuriare … ma anche l’unico modo per ottenere l’attenzione di quegli occhi stanchi e furiosi, che si nascondevano sempre sotto il cipiglio delle pessime occasioni o sotto la falda del suo cappello. “Lui? Quella … cosa … ti sta aspirando il cervello, Oscar. Svegliati!”
Poi, con tutto il disprezzo che aveva nel petto, fece cadere il colpo basso. Quello che Oscar conosceva meglio di chiunque altro e che in tutti quegli anni non era mai riuscito a parare, schivare o almeno incassare. Quello che puntualmente lo colpiva come mille e più coltellate. “Quello sgorbio non è tuo figlio. E non lo sarà mai”.
Certo. Era vero, dopotutto.
Era dannatamente vero.
Oz non era suo figlio.
Sospirò, accendendo una sigaretta senza aprire la finestra o preoccuparsi dell’ennesimo sguardo di disapprovazione che Zai gli stava mandando da sotto il cappello. Il sapore contro il palato lo aiutava sempre, il familiare bruciore lungo le guance aveva qualcosa che gli ricordava i baci di Sara.
Espirò lentamente, scacciando con il dorso della mano la sensazione di avere gli occhi lucidi.
Qualche volta si era ritrovato ad invidiarli, tutti quanti. Lui, che per oltre trent’anni era vissuto senza invidiare niente e nessuno. Men che mai Zai.
Eppure di invidia si trattava. Sottile come un lastra di cristallo, fragile come le tazze di porcellana che le Rainsworth stringevano tra le loro dita bianche ad ogni festa, lasciandosi ammirare nella loro nobile ed incantata perfezione. Gli stessi occhi, gli stessi capelli, gli stessi vestiti a balze: le vedeva ad ogni festa, la nonna, la madre e la bambina, perfette e compite come tre bambole di un altro secolo, lo stesso identico mignolo che si sollevava dal manico della tazza come imponeva il migliore galateo di Reveil. Le mani intrecciate sul grembo in maniera identica quando lo salutavano, chiedendogli con tutta l’educazione del mondo quando avrebbe portato la piccola Ada nel loro salotto per un the.
Eppure di invidia si trattava. Feroce quando desiderava esserlo, tagliente come gli occhi di Bernard e Bernice Nightray. O forse erano i propri occhi ad essere taglienti quando l’arcigna granduchessa gli rivolgeva il saluto tessendo ogni volta le lodi dei suoi eredi, quei cinque figli sani e forti che la accompagnavano in qualsiasi occasione come le perle di una collana indosso alla donna sbagliata, la stessa collana che avrebbe voluto offrire a Sara e farla risplendere come un diamante in mezzo a quelle signore nobili e grigie. Lady Bernice diceva di avere ancora abbastanza forze da dare alla piccola Vanessa una sorellina.
A lui ne sarebbe bastato uno. Una bella bambina da viziare e coccolare tutto il giorno, da riempire di vestitini e bambole come la minuscola Sharon. O anche un maschietto tutto pepe e argento vivo –e tutto suo padre- come l’ultimo dei Nightray, di quelli che vanno inseguiti mattina e sera perché si arrampicano sugli alberi, scappano dalle governanti e tornano a casa sporchi di fango e con un barattolo di vetro pieno di ranocchi.
Una bambina come Ada. O un maschietto come Oz.
Perché era lui la persona che invidiava davvero. L’uomo che avrebbe potuto camminare a testa alta davanti a tutta la nobiltà di Reveil, perché nessun bambino del mondo aveva la sguardo curioso ed intelligente di Oz, la sua furbizia, quel sorriso luminoso che gli accendeva il cuore tutte le volte che gli saltava al collo e gli chiedeva “Vuoi giocare con me, zio Oscar?”. Quel bambino che si applicava con costanza in tutto, che stupiva i precettori per lo studio costante che forse, nei suoi occhi innocenti, sarebbe servito a mostrare a suo padre quanto fosse bravo e diligente. Quanto fosse degno di un suo sorriso. Invidiava Zai perché aveva tutto, e quel tutto …
Si ritrasse appena in tempo. La bestia nera lo scavalcò in un istante, scagliandosi contro l’armadio con tutta la forza che aveva. Una zampa calò sul legno e scardinò le ante, mandando le schegge in qualunque angolo del salone; travolse tutto, piantando nei minuscoli regali e nella carta il suo becco, stracciandoli con gli artigli fino a non lasciare nulla di intatto. Un ultimo movimento e ciò che rimaneva del mobile venne scagliato contro un’altra parete, distruggendo in mille pezzi il vecchio orologio a pendolo che si trovava in quella stanza sin da prima della sua nascita. La bestia mandò un verso alto e di vittoria, fissandolo con la stessa espressione di sfida dipinta negli occhi di suo fratello, le ali spiegate così enormi da doversi piegare contro il soffitto.
“Oscar, fammi un favore …”
La creatura nera si avvicinò a Zai, agitando la coda in segno di trionfo. “Se proprio non riesci a mettere a freno il tuo istinto paterno trovati una donna come si deve e mettila incinta. Non è una cosa complicata, fidati! Evidentemente quella lì non era buona a fare nemmeno quello …”
“Sara non …”
“E smettila di fare regali inutili. Quella cosa non si merita niente. NIENTE!”
La bestia gli fece il verso un’ultima volta, poi svanì in un vento di piume nere. Oscar provò a rispondere, a dire qualunque cosa che facesse tornare Zai sui suoi passi, ma la lingua gli rimase incollata al palato, immobile come se la creatura potesse tornare di nuovo e strappargliela dalla bocca. Non riuscì a dire nulla che potesse trattenere suo fratello o farlo riflettere; rimase immobile a guardarlo sbattere la porta, a sentire i suoi passi furenti lungo le scale e poi un ultimo, più moderato rumore come segnale che i servitori avevano richiuso il portone della villa al passaggio del loro granduca. Il suo cuore riprese a battere solo quando il familiare cigolio della carrozza si perse in lontananza e la casa riprendeva vita.
A terra erano rimasti solo brandelli di carta colorata. Il trenino, il bellissimo trenino non si riusciva più a riconoscere, al massimo un pezzo di legno laccato di rosso della scatola che lo custodiva. Lo vedeva ancora davanti agli occhi mentre si muoveva oltre la vetrina, allegro e fumante, chiedendo a qualche genitore di comprarlo per rendere felice il proprio bambino anche solo per un giorno.
Si portò la mano al petto, rendendosi conto solo in quell’istante che l’unico sopravvissuto a quella tempesta lo stava chiamando. L’incarto verde e oro era un po’ sgualcito ma la forma era ancora lì, contro il suo corpo, quasi a nascondersi per la paura di quell’uomo che aveva dimenticato cosa volesse dire amare.
Oz avrebbe avuto il suo regalo.
E quella era l’unica cosa che contasse. Il suo sorriso, il suo bellissimo sorriso, quegli occhi che lo guardavano dal basso in alto e quelle piccole braccia tese per stringere la sua mano vecchia e fredda.
Avrebbe voluto cambiare le lancette del tempo. Avrebbe voluto svegliarsi, trovare Sara nel suo letto ed Oz in quella culla che aveva fatto costruire con sei mesi d’anticipo. Avrebbe voluto fotografarlo mille e una volta, ogni giorno, ogni compleanno fino a tappezzare ogni parete della villa con foto di loro tre sorridenti, felici. Organizzare feste strepitose per mostrare a tutta la nobiltà il suo bambino meraviglioso che avrebbe superato qualsiasi Barma in intelligenza, qualsiasi Rainsworth in bellezza e qualsiasi Nightray in forza, portarlo al lago a pescare, a caccia e poi a scuola ed ascoltare le lezioni di storia e letteratura fino ad addormentarsi lui stesso e svegliarsi di nuovo e …
E la sua era solo invidia.
Ma la conosceva. Ed era stato proprio il suo nipotino ad insegnargli come conviverci, a mandare giù l’amaro ogni giorno, a trasformare il dolore nel sentire quella piccola mano nella sua in qualcosa di dolce. Oz lo aveva salvato da quel mondo nero. E Ada. E Gilbert.
Strinse il volume contro il cuore, fissando la porta chiusa con tutta la violenza e l’odio che un uomo potesse mai provare. Forse formulò il pensiero ad alta voce, ma la persona che avrebbe dovuto o potuto sentirlo era distante, seduto su una carrozza lontana da lì ormai molte miglia, dove non l’avrebbero raggiunto né le parole di suo fratello o le lacrime del suo bambino. “Eppure il regalo più grande potresti farglielo soltanto tu …”





N.d.W.Ringrazio molto l'autrice DearAgony che mi ha stimolata per la creazione di questa storia. Forse non è un gran che, forse non è ai livelli del grande fandom, ma non potevo esimermi dal narrare almeno una storia breve sul mio personaggio preferito di tutta la storia, perché tutti noi vorremmo uno zio come Oscar, che si veste da studente per scoprire chi sia il nostro misterioso spasimante, che ci spinge ad ubriacarci anche se siamo minorenni e che è dalla nostra parte in ogni luogo, in ogni momento, anche quando siamo convinti che il mondo ci stia crollando addosso. Dedicata ad Oscar Vessalius, l'uomo che tutto ha amato e tutto ha perdonato.
  
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