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Autore: Harshlove    29/06/2015    5 recensioni
LAYLOR – anche se a prima vista non si direbbe.
Jane ha ventitré anni. Jane non ha idea di cosa significhi stare nel mondo dello spettacolo, eppure quasi per caso ci finisce dentro e fa amicizia con una serie impressionante di attrici, persone che erano già abituate a tutto quello, compresa una certa Taylor. E, dal punto di vista di Jane, noteremo le dinamiche fra la fredda e furba quanto segretamente frustrata Laura Prepon (credo sia un parere di parte della scrittrice, chiedo venia) e la dolce, folle e lunatica Taylor Schilling. Jane è puerile, insicura, drammatica, paranoica. Troppi pochi peli sulla lingua, secondo la sua stronza madre. E, per quanto io possa odiare dal profondo del cuore la mamma di Jane, Dio, se ha ragione.
Ho provato a scrivere questa storia secondo il punto di vista di qualcun altro, e non Taylor o Laura, per rendere la storia più credibile, meno inverosimile. Sinceramente, so che è una pazzia e mi sto buttando in qualcosa che forse non raggiunge neanche le mie capacità, ma traendo una regale ispirazione da Fitzgerald alle quattro di notte di qualche giorno fa, ecco che è uscita questa ideona.
Enjoy!
Genere: Angst, Comico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Alex Vause, Nuovo personaggio, Piper Chapman, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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I WASN’T READY, TAYLOR!
 
Capitolo 1
Quando da ragazza di periferia vai a New York e non sei Piper Chapman
 

A quei tempi, quando feci i provini per diventare una truccatrice del nuovo, promettente e sfavillante – metaforicamente parlando – show della Netflix, mi aspettavo una crudele serietà.
 
Appena uscita da una cittadina di straordinariamente ordinarie dimensioni, mi fiondai a New York, trepidante ed entusiasta nel mio metro e sessantacinque, in cerca di situazioni stimolanti ed un lavoro che mi permettesse di pagare l’affitto e comprarmi una macchina, con la mia concittadina nonché coinquilina Angelina, con la quale ero stata in buoni rapporti sin dall’adolescenza, lasciandomi alle spalle una vecchia e insoddisfacente vita. Io e Angelina avevamo conosciuto su internet un tizio che ci aveva offerto un affitto davvero buono, e l’appartamento (seppure distante anni luce da New York) ci sembrava davvero perfetto. Ancora meglio era condividere le spese.
Per quanto utopistico mi possa sembrare il pensiero ora, al momento ero davvero, davvero su di giri. Pensavo che stessero aspettando solo me per rivoluzionare il mondo: illusa! Non avevo davvero idea che a New York il pensiero di avere un’automobile fosse da folli sprovveduti che credono nell’esistenza di parcheggi disponibili, così come non avevo idea che per i primi tre mesi sarei rimasta col deretano per terra, sul baratro. Attinsi ai soldi che mi spedivano mensilmente i miei genitori, mesta e isterica quanto imbarazzata. Imbarazzata non perché provocavo grane agli individui che mi avevano cresciuta, bensì perché quando mia madre, cinica donna cinquantenne chiamava al telefono, il suo «te l’avevo detto» mi bruciava così tanto proprio perché nella mia testa ribolliva di verità.
 
Ma poi, tramite Angelina ed un suo gruppo di amiche che gestivano qualche tipo di blog parecchio famoso e dal quale ci ricavavano anche un certo lucro sulle serie tv, ci fu la svolta.
 
Mentre ciarlavano instancabilmente del più e del meno, sentii che si era richiesta una truccatrice tramite audizioni per un nuovo show che avrebbe iniziato le riprese da lì a poco che trattava di lesbiche in prigione. E la paga era minima, quindi nessuna truccatrice professionale o comunque famosa si sarebbe proposta.
C’è da svelarvi che la cosa mi deliziò per diversi motivi: la mia omosessualità repressa era certamente un punto dominante, ma non in secondo piano risulta esserci la mia passione per il make-up, coltivata da quando mi ero resa conto dell’esistenza di internet – più o meno dodici anni. Passare ore e ore davanti a un computer a memorizzare passaggi e tecniche da dedicare a feste a tema o semplicemente per risaltare, vi sembra che non conferisca una certa maestria? Di certo nessun attestato, ma non è tutto oro ciò che è cartaceo e firmato da un timbro imponente, attorniato da parole a caratteri eleganti ed elettronici.
Sinceramente, quando udii il loro parere, non avevo la più pallida idea di quanto rappresentasse per la gente di New York una paga minima. Ma, dopo mesi passati a rinunciare a vestiti e pizze d’asporto, quelle due parole buttate a caso in una chiassosa conversazione dalle amiche di Angelina, che al momento si erano placidamente accomodate sul mio letto come se fosse stata casa loro, risvegliarono in me il leone ruggente che fino a pochi secondi prima si crogiolava nella miseria.
 
Seppure era un gelato giorno di dicembre, un formicolio bollente s’impossessò del mio spirito, facendomi schizzare il sangue al cervello come se fossi stata sotto effetto di qualche droga eccitante.
La riccia ragazza occhialuta di cui ignoravo anche il nome che era stravaccata sul mio letto notò la mia espressione da psicopatica. “Tutto bene, alla tua coinquilina?”, chiese rivolta alla ragazza biondissima con la quale condividevo l’appartamento, come se io non fossi stata presente.
 
Prima che tutto ciò accadesse, stavo scrivendo una lettera ai miei zii che risiedevano in Svizzera, illudendoli di aver trovato un’occupazione assurdamente perfetta. Inutile dire che ero stata costretta a far credere di cacciare soldi come se li cagassi a tutti i miei parenti, perché la mia eccitazione riguardo al cambiare città – o meglio, buco – per poi arrivare a New York, aveva fatto sì che spiattellassi ad ogni essere vivente nel raggio di cinquanta chilometri o con il quale avessi perlomeno un rapporto lontanamente confidenziale i piani per i l mio futuro. L’unica che non si trovava d’accordo con il mio cercare di convincere tutti che le cose andavano alla grande era mia madre; non perché lei avesse qualche senso di etica, più che altro perché non vedeva l’ora di sputtanarmi amorevolmente a mezzo mondo. Fatto sta, che i miei zii svizzeri non avevano telefoni cellulari poiché troppo anziani, e le chiamate all’estero costavano troppo per il mio limitatissimo budget. Si sarebbero accontentati così.
 
Ma quando le parole delle ragazze, mischiate a terminologia geek filtrarono attraverso il mio inconscio che stava inventando una gioia non indifferente quanto fasulla, mi bloccai. Sgranai gli occhi, totalmente in trance. Avevo il fastidioso vizio di assumere quel modo di fare ogni qualvolta che pensavo molto intensamente; mi ridestai solo quando capii che ero causa di risatine.
“Dove si svolgono le audizioni?”, chiesi frettolosamente alla stessa ragazza che poco prima si era preoccupata per la mia salute mentale, abbandonando la penna sulla scrivania della stanza che io e Angelina condividevamo.
“Mh”, fece lei, soppesando le sue stesse parole e lasciandomi spietatamente nell’isteria dell’attesa. “Credo”, sottolineò con la sua voce strascicata, “di aver letto su internet che si svolgano vicino a quell’edificio verso il cinema… Angelina!”, chiamò, ammiccando verso di lei. “Spiega a Jane dov’è il cinema, quello dove abbiamo visto quel film con…”. Mi sentii per un quarto di secondo una merda, notando che lei ricordava come mi chiamassi mentre io avrei ignorato addirittura la sua esistenza di lì a poco, persa nelle mie congetture sul futuro. Ma, fortunatamente, ero famosa per il mio senso di colpa dalla vita breve.
 
Angelina fu abbastanza esaustiva sulla posizione del cinema e l’occhialuta cercò di schiarirmi meglio le idee riguardo l’elegante grattacielo dove si sarebbero svolte le inusuali audizioni. Dissero che in realtà era una cosa veramente singolare, siccome di solito si assume un team di truccatori attraverso conoscenze.
Appena dissi che volevo tentare, tutte e tre si ridestarono, dicendo che probabilmente ero davvero una pazza solo a sperarci. Però, Angelina sapeva bene in che condizioni economiche mi trovavo, quindi da parte sua ebbi la spinta più determinante.
“Dicono che ci sia Jenji Kohan in persona – sai, la regista – a decidere chi assumere”, proferì l’altra ragazza dai lunghi capelli castani e ricoperta di piercing, dotata di un’esuberante quantità di anellini argentati alle orecchie. “Dio, se è una cosa strana. Ma è pur sempre la tizia che diresse anche Weeds. Secondo me questa storia della bionda ragazza ricca che finisce dietro le sbarre per colpa della sua ex che trafficava droga… Demolisce un cliché dopo l’altro. Farà successo, sicuro”. La riccia, dal canto suo, si trovò perfettamente d’accordo con il parere di quella che credevo si chiamasse Sarah, o comunque qualcosa del genere. Inutile dire che, prima che quelle due andassero via dal nostro appartamento, cercai ogni sorta di notizia reperibile su internet riguardo quella serie – Orange Is The New Black – che avrebbe davvero iniziato le riprese a giorni. Cercai di informarmi precisamente quando ci sarebbero state le audizioni per i truccatori e urlai assolutisticamente ad Angelina che mi avrebbe accompagnata, o viva o morta. Mi informai sulla trama, più che altro, ignorando totalmente chi si occupava di tutto quello che riguardava la parte tecnica.
 
Nei giorni che seguirono, con il fedele aiuto della metropolitana (sempre sia lodata), ci recammo all’edificio che avrebbe poi cambiato la mia vita. Le piante tropicali che si trovavano a New York, anche in mezzo alla strada, erano sempre stata fonte di interrogativi. La gente non poteva proprio fare a meno di cercare di mettersi in mostra in tutti i modi possibili, e probabilmente cercare di far credere alle persone che in quel momento ti trovi a San Francisco, immagino fosse una scelta ben strutturata. Ma, le piante tropicali che ci ritrovammo io e la mia amica stangona al fianco del grattacielo mi stupirono a tal punto che persino Angelina reputò lecito fare qualche foto per poi postarla sul suo profilo Instagram. Non avevamo davvero idea di che nome avessero, né eravamo sicure di averle già viste precedentemente. Il fatto più strano è che non deperivano neanche nel periodo più freddo dell’anno.
Poi, quando entrammo all’interno dell’edificio, ci trovammo ancora più spaesate. Metal detector ci perquisirono appena varcammo la soglia, e ci rendemmo conto che c’erano guardie addobbate con smoking e auricolari situati in ogni buco di quel posto, un immenso salone incredibilmente alto. Alle estremità delle sale erano posti lunghissimi divani in pelle bianca, mentre mastodontiche scalinate che puntavano a fare solo scena attorniavano l’ascensore, posta all’esatto centro della sala – seriamente, chi avrebbe mai preso le scale con più di cento piani? Probabilmente terminavano nel muro.
 
Da semplici ragazze di periferia, in quei tre mesi non eravamo state ancora capaci di abituarci allo sfarzo petulante con il quale New York City annebbiava le nostre menti, lasciandoci di stucco come bambini alla vista di Babbo Natale. Ma, esattamente come quei bambini andavano a trovare un Babbo Natale diverso in ogni negozio di giocattoli, che nascondeva ogni volta uomini frustrati di mezza età che restavano tutto il giorno su uno scomodo trono natalizio fingendo gentilezza solo perché erano stati pagati per farlo, allo stesso modo l’apparenza della Grande Mela, la metropoli che non taceva mai, aveva gli stessi connotati dei falsi Babbo Natale. E, come genitori premurosi, nessuno voleva realmente avvisarci che il lusso non fosse che una facciata.
 
Mentre proseguivamo entrambe a passi incerti, un alto trentenne con un corpo muscoloso fasciato da abiti eleganti e con un auricolare penzoloni al suo orecchio sinistro si avvicinò a noi in una maniera considerevolmente felpata, che ci fece trasalire appena ce lo ritrovammo piazzato davanti.
“Posso aiutarvi, signorine?”. Lo sguardo ghiaccio restò impassibile, e la sua mascella squadrata produsse un movimento e nient’altro. Nessuna parvenza di sorrisi di benvenuto, niente di niente.
“Buongiorno. Ecco, sono Jane Holden, sono qui per il provino di truccatrice per Orange Is The New Black, la nuova serie di Netflix… Ehm… Non so a che piano sia”, ammisi francamente, guardando contrita l’omaccione di bella presenza. Lui alzò un sopracciglio.
“Avete preso un appuntamento, quindi?”.
Io rivolsi una fugace occhiata ad Angelina al mio fianco, in tralice, sperando che almeno lei riuscisse ad interpretare i geroglifici sonori di quell’uomo. Ma purtroppo, anche lei era profondamente perplessa. Senza indugiare ancora, ritornai con lo sguardo alla guardia. “No, niente del genere”, dissi, con la voce incrinata. Lui non sembrava dare alcun segno di vita, mentre ci fissava austero. Quindi, mi sentii in dovere di aggiungere un «mi dispiace», anche se in quel momento non mi sembrò propriamente un’idea brillante. Eppure, forse fu la goccia che fece traboccare il vaso, siccome sospirò, chiudendo gli occhi. Quando li riaprì, un atteggiamento quasi da adulto apprensivo s’impossessò meccanicamente di lui. Sospirò, alla vista di due ventenni che gli sembravano palesemente senza speranza.
“È al quindicesimo piano”, disse solamente, per poi girare i tacchi ed andarsene. Io e Angelina ci scambiammo due sorrisi eccitati, per poi dirigerci immediatamente verso l’ascensore. Inutile dire, probabilmente, che anche quella era imponente. Quel posto era così largo e lungo che era difficile credere che avesse una fine.
 
Arrivate al quindicesimo piano, dopo circa venti secondi di claustrofobia, appena aperta l’ascensore ci ritrovammo in questo posto così stile barocco che per mezzo secondo mi accecò.
Un tappeto rosso si estendeva per diversi metri, ed era interamente occupato da circa una trentina di donne e molti meno uomini, alcuni di loro con atteggiamenti estremamente femminili – uno sfoggiava una bandana Versace come se avesse avuto un pennuto che non smetteva di muoversi in testa, e la diceva davvero lunga. Le pareti di questo piano erano state occupate quasi interamente di quadri dell’Impressionismo, alcuni che si ispiravano senza pudore a Monet; mi sembrò di essere stata convocata alla mietitura di Hunger Games, solo in un contesto molto più raffinato.
 
All’estremità opposta del piano, si poteva notare un piccolo gruppo formato da cinque persone: tre sembravano dei portatori di scartoffie e una sola ragazza vestita in maniera più elegante rispetto agli altri, gironzolava intorno al gruppo di speranzosi. Mentre anche da lontano si poteva notare una massa di tinti di blu con delicate sfumature, appartenenti a una donna formosa e con gli occhiali. Pensai che probabilmente erano solo gli addetti a quella follia.
 
“Hanno affittato un intero piano”, sentii bisbigliare da Angelina, che anche se era parecchio alta, sembrò improvvisamente minuscola dinnanzi a quell’atmosfera borghese.
“Ehi”, abbozzò poi dopo, con un tono che esprimeva tutto il suo disagio. I suoi infantili tratti del viso, che la facevano scambiare con chiunque per una quindicenne con le ossa più lunghe della media, furono temporaneamente distorti dalla sua espressione. “Ti dispiace se torno al piano terra? Ci vediamo quando hai finito qui”. Lei, che era stata sempre più suscettibile di me, probabilmente si ritrovò immensamente fuori posto, altrimenti tutto ciò non le avrebbe scatenato una reazione così esagerata. Oppure aveva visto qualcosa di così carino da farle venire voglia di vomitare. La faccia era quella.
“Certo”, risposi. Ma dentro di me mi stavo letteralmente cagando addosso. Ci salutammo velocemente e lei non aspettò neanche un secondo a prendere l’ascensore.  La seguii con lo sguardo come un cane che viene abbandonato sul ciglio dell’autostrada, pregando fino all’ultimo che il padrone torni indietro. Ma le porte metalliche si richiusero, lasciando solo il fantasma di uno pseudo sorriso incoraggiante della mia coinquilina.
 
Girandomi nuovamente verso il gruppo, notai che il chiacchiericcio iniziale si era totalmente spento; ora, la donna all’estremità opposta parlava con una voce chiara e sicura, facendo le congratulazioni a coloro che erano passati all’ultima selezione. Il mio cervello reagì immediatamente, ponendomi tremila domande e tutte sature d’ansia.
Selezione? Quale selezione? Io ero semplicemente arrivata lì. Mi ridestai in tempo per sentirla dire: “E ancora una volta, congratulazioni ai trentasette aspiranti del team di Orange Is The New Bla--”. Una voce calma e giovanile la interruppe. Quella ragazza che prima osservava gli aspiranti truccatori come vacche da macello mi stava fissando. Osservai il suo labiale. Mimò trentotto, troppo piano affinché io potessi distinguere i suoni limpidamente, ma abbastanza forte per far capire a tutti a chi si riferiva.
La folla di newyorkesi si girò quasi totalmente in sincronia verso di me.
“Un’imbucata!”, sentii urlare sguaiatamente in modo sprezzante dalle prime file; dopodiché, le risate furono fragorose almeno quanto la portata dei commenti al loro seguito.
Mentre succedeva tutto questo, i tre individui con le mille scartoffie in mano, sottobraccio e, se ne avessero avute le capacità, anche in testa, fecero per avviarsi verso la mia esile figura con sguardi furibondi, ma la donna con i capelli fluo fece loro un segno e bastò quello per farli indietreggiare docilmente, per permettere poi alla donna di dirigersi verso di me con la stessa sicurezza con la quale aveva parlato, a passi ampi e spediti.
 
Trovatasi a una manciata abbondante di centimetri di distanza dal mio viso sconvolto e funereo – ebbi l’impressione di svenire o di farmela sotto dalla paura, oppure entrambe le cose contemporaneamente – mi squadrò con fare inquisitorio. Anche dal suo atteggiamento, quella donna riluceva di carisma.  Sebbene fosse più bassa di me, sembrava che mi sovrastasse di diversi metri.
“Chi sei tu?”, mi chiese. Mi stupii di quanto persino il suo tono di voce, anche se per esempio l’avessi ascoltata ad occhi chiusi, rivelava la sua immagine per nulla omologata. L’espressività che vi trovai in quella voce, però, mi stupii più di tutti i suoi dettagli messi assieme. Al momento, portava una maglia bianca di un tessuto simile alla seta con fasulli gioielli stampati vicino al colletto, con un elegante cardigan nero con qualche punto luce qui e lì e una lunga gonna dello stesso colore, che proseguiva dritta sulla sua figura.
 
Prima di risponderle, mi guardai intorno più intimorita di prima. Sembrava che mille paia di occhi si fossero soffermati su di me, chi scettico, chi annoiato, chi con un’evidente forma di misantropia stampata in faccia, come mai prima d’allora avevo visto fare da una popolazione che in realtà era talmente abituata a vedere cose assurde poiché terribilmente multiculturale. Eppure, mi sentii un alieno.
 
“J-Jane Holden, signora”. Risposi nervosamente, come un cadetto, con lo sguardo fisso a terra, incapace di reggere ancora quello della donna. Il mio terrore ed il mio incespicare nelle parole generò altre risate arroganti, ma bastò che colei che era davanti a me si girasse – probabilmente con un’occhiata truce – per metterle a tacere.
“Non mi pare di averti già vista alle selezioni”, osservò, e con la coda dell’occhio notai che aveva incrociato le braccia. Nonostante ciò, non sembrava infastidita o altro. La sua aveva più la parvenza di una semplice costatazione, come se avesse voluto semplicemente esporre il suo parere sul tempo atmosferico. Ma non potevo esserne certa, siccome non vedevo la sua espressione.
“Perché non c’ero… signora”. Ribadii quel nome subito dopo che cercai di alzare lo sguardo, ma inutilmente. Infine sospirai, e mi feci forza, fissandomi nello sguardo cioccolato che aveva un fare inquisitorio ma non invadente.
“E come hai fatto ad arrivare qui?”.
“Sono semplicemente arrivata… e poi ho preso l’ascensore”. Indicai la figura imponente e metallizzata alle mie spalle, cercando disperatamente di essere convincente, mordicchiandomi nervosamente il labbro.
Paradossalmente, la donna scoppiò in una risata deliziata, come se avesse appena udito una battuta molto divertente. Non la smetteva assolutamente di ridere, e io ci restai di sasso. Rideva di me?
“Semplicemente arrivata”, citò, con le lacrime cristalline che s’intravedevano oltre la montatura ad occhio di gatto nera. Poi, asciugò accuratamente le lacrime con il dorso delle dita, cercando di non rovinarsi il trucco. “Allora, tanto vale che resti… signorina Holden, giusto?”. Annuii con convinzione, sentendomi nuovamente una bambina lentigginosa in un vestitino smesso a pois rosso e bianco che cercava di farsi piacere agli adulti.
 
La donna si girò, prendendo a camminare di fianco alla trafila a passo ritmato, alzando un braccio e incitandoci con la mano a seguirla. Non avevo davvero idea se fosse stata seria o no sul mio restare, ma nel dubbio, avanzai.
Cercai di non curarmi degli sguardi delle persone che erano davanti a me e maledissi mentalmente Angelina per non avermi fatto da spalla in un momento così critico. Da alieno, ora quelle persone mi guardavano come una busta di spazzatura fatiscente buttata barbaramente su quel tappeto così costoso. Invece, non fui capace di ignorare gli sguardi sconvolti e contrariati dei portatori di scartoffie, così come non riuscii ad ignorare totalmente lo sguardo della ragazza che mi aveva portato allo scoperto. Mi guardava incuriosita, ma non urtata. Davvero, niente di più. E non staccava un attimo gli occhi da me.
L’avevo vista, quella.
Era Natasha Lyonne, la futura Nicky Nichols. 
   
 
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