Where you are – that's home.
A Sere.
C'era
un cinguettio tranquillo nel bosco ed ad esso si erano uniti ansimi e
imprecazioni strozzate.
Il suono di pelle che sbatteva contro
altra pelle, la schiena ambrata di Ragnar rivolta verso il cielo, a
proteggere il corpo esposto di Athelstan. Quest'ultimo aveva gli
occhi umidi, il labbro inferiore stretto tra i denti e le guance
imporporate e – sorrideva. Il re, sopra di lui, mentre
spingeva,
l'osservava. E in quel viso poté vedere il sole, le nuvole e
gli
alberi.
La mano candida del più giovane si andò a posare
sulla
scapola ampia del re e fu così che lo attrasse verso di
sé e fu
così che ci fu un ennesimo bacio caotico, lingua e denti che
attaccavano, colpivano e si ritiravano.
Era un inseguirsi ed un
cercarsi continuo il loro; era un vivere qualcosa di nuovo ed un
amare intensamente, insensatamente, totalmente.
Tutto era
arrivato come dei cazzotti in pieno stomaco, tra uno sguardo fugace e
un sorriso segreto. Il primo contatto tra le loro labbra li aveva
raggiunti il primo giorno di Yule* e nessuno l'aveva visto arrivare
finché non avvenne.
E poi le rimostranze erano state lasciate
indietro, così come le incertezze.
Fu con un sibilo prolungato
che Ragnar venne, seguito dopo qualche momento dal violento tendersi
dell'altro. Questo pose fine a quello scambio e il re si
accasciò
addosso all'ex monaco, attento a non pesargli – e tuttavia
non ne
uscì. Restò fermo, mentre Athelstan si lasciava
scappare una risata
silenziosa e prendeva a carezzargli con dolcezza la linea definita
della mascella, giochicchiando con la barba folta.
La scusa era
che erano andati a caccia. Ed in effetti avevano abbattuto una cerva
ed avrebbero avuto la possibilità di mettere le mani anche
addosso
ad un maschio, ma i piani erano cambiati non appena Ragnar aveva
deciso che divorare le labbra del compagno era un'attività
più
interessante e – a quanto pareva – anche
più redditizia.
I
due attesero per un po'. Quando erano insieme le concezioni di spazio
e tempo si annullavano e alla fine non avevano così tanta
importanza.
Fu
solo quando l'eccitazione fu scemata del tutto che Ragnar si
allontanò dal corpo caldo dell'altro per stenderglisi
placidamente
accanto, gli occhi chiusi e i tratti distesi – e anche se non
sorrideva, Athelstan poteva vedere sul viso dell'altro tutta la
serenità che provava.
Il vichingo si fece più vicino e posò
una mano sulla pancia nuda dell'altro, così da non perdere
il
contatto tra loro e poi approfittò della sua posizione
supina per
posargli la testa sulla spalla, il viso ora immerso nella piega del
collo di Athelstan.
Restarono zitti, perché era così che
funzionava tra loro due. In così tanti anni di vicinanza e
profonda
amicizia evolutasi poi in qualcos'altro, avevano imparato a
conoscersi e a riconoscere il nervosismo quando taciuto e il
benessere quando non ovvio.
Athelstan prese a carezzare con fare
distratto i capelli dell'altro, ruvidi contro il suo palmo segnato
dal chiodo di Cristo. Nonostante questo taglio gli piacesse, gli
mancava la treccia con cui l'aveva conosciuto.
Il ragazzo si
sarebbe potuto aspettare che da un momento all'altro Ragnar
cominciasse a fare le fusa, per quanto rilassato lo stesse
percependo. E tuttavia, non poté impedirsi di schiudere le
labbra e
dar voce a ciò che gli ronzava in testa da giorni.
“Non esiste
un aldilà, per noi due”
Ragnar tracciava distrattamente cerchi
e ghirigori sul suo stomaco nudo. Le gambe intrecciate, il sole che
filtrava tra le foglie e che creava giochi di luce sui corpi dei due
amanti distesi tra gli arbusti del sottobosco.
E tuttavia, quei
teneri gesti si interruppero non appena il significato di quelle
parole fece presa nel cervello del re.
Quello della religione,
nonostante tutto, restava un argomento difficile da affrontare, tra i
due. Perché i loro dei ancora non erano diventati amici e
forse non
lo sarebbero mai diventati.
Ragnar fece schioccare le labbra tra
loro e poi strusciò il naso contro la guancia dell'altro.
“Esiste
l'ora”
Sussurrò, lasciandogli un bacio sull'angolo delle
labbra.
Sapevano perfettamente entrambi che l'ora prima o
poi sarebbe finito e che di tutto quello non sarebbe rimasto niente,
ma la verità era che non c'era altro che potessero fare. Ed
anche
quello lo sapevano entrambi.
“E poi potrei andare a Hel** e non
nel Valhalla e tutto questo sarebbe vano.”
Soggiunse poi,
mentre si appoggiava su un gomito e sovrastava Athelstan,
l'espressione seria sotto di sé.
“Tu non andrai a Hel. C'è
molta più probabilità che io finisca all'Inferno,
messa in
quest--.”
La frase morì a metà. Si bloccò.
Così.
Gli
occhi brillanti dell'ex monaco si sgranarono, mentre socchiudeva le
labbra e un rivolo di sangue gli macchiava il mento.
Ragnar entrò
nel panico, la serenità di poco prima immersa
improvvisamente nel
sangue dell'altro. La mano che gli teneva sullo stomaco
diventò
improvvisamente viscosa e appiccicosa e, osservandola, la
poté
vedere grondante di sangue, mentre una ferita che era più
simile ad
una voragine si spalancava nel corpo del compagno.
“No, no, no,
no! Cosa--?! Athelstan!”
Il ragazzo l'osservava con espressione
stralunata, si sforzava di respirare con rantoli brevi e veloci
mentre il sangue continuava a uscire a fiotti dalle labbra
cianotiche. Lo squarcio continuava ad aprirsi sotto gli occhi
stravolti del re, che frenetico si era tirato a sedere e ora
tamponava il sangue che ormai gli aveva raggiunto le ginocchia, lo
sentiva salire di livello e solo quando poté vedere la vita
di
Athelstan strappata via gli venne dato un colpo alla testa e tutto si
spense.
C'era
odore di bruciato e puzza di morto e il sapore ferroso in bocca lo
stordiva. Un dolore sordo lo fece voltare a fatica verso la sua fonte
e si rese conto dell'ascia piantata nella sua spalla, ad intaccare la
clavicola e la scapola.
Fu all'improvviso che si ricordò della
battaglia appena combattuta, dello slabbro che gli avevano provocato
all'altezza dei lombi e delle gambe che cedevano sotto il peso
insopportabile del suo corpo e dell'armatura leggera. Si rese conto
che tutto ciò che aveva visto e vissuto con Athelstan non
era altro
che una proiezione dell'inconscio e che quella non era stata che
l'ennesima battaglia combattuta in Francia.
Ed a quanto pareva gli
dei avevano voluto fermarlo. Ed in fondo andava bene.
Sentì una
lacrima scendergli lungo lo zigomo macchiato di sangue e terra,
mentre la voce di Bjorn, da lontano, lo chiamava. La disperazione era
chiara nel tono del giovane.
“Padre-”
Si chinò su
Ragnar, le mani che tremavano, le labbra socchiuse.
Il re,
grandioso anche così ridotto, poteva avvertire la vita
scivolargli
via di dosso. E pensò che era stato battezzato e
pensò che
l'affermazione di Athelstan non aveva più valore.
“Ti voglio
bene, figliolo.”
Soffiò a stento, un sorriso piccolo e
sforzato sulle labbra, e Bjorn dovette chinarsi sul corpo del padre
per poter sentire quelle parole.
Gli occhi del giovane si
riempirono di lacrime mentre Ragnar, una volta per tutte, smetteva di
respirare.
Il grande re era finito.
Una
sala enorme d'oro fu tutto ciò che poté vedere,
in un primo
momento.
Una cupola di cui non si vedeva la fine, alta fino a
chissà dove. I suoi piedi erano scalzi e le piante erano
accarezzate
da tenera erba verde. Un fiume scorreva lì vicino e, dentro
a quello
spazio, ci stavano anche le montagne.
Ragnar spalancò la bocca
e, tirato il naso insù, si guardò intorno, del
tutto conquistato
dalla maestosità di quel luogo – che se tutto era
andato secondo i
suoi piani, doveva essere il Paradiso. Non era come se l'era
immaginato, tuttavia; sembrava più un mondo utopico, fatto
di luce e
purezza, e tutte le nuvole che Athelstan gli aveva menzionato non
erano presenti. Non si trattava neanche del Valhalla, perché
non
c'era la sala, né il banchetto.
Non sapeva dove si trovasse, ma
sapeva che quel posto era buono e quel posto era bello.
Si sentiva
rinvigorito, anima e corpo; le vecchie cicatrici scomparse, i dolori
risucchiati via. Provò a roteare la spalla che era stata
intaccata
nel combattimento che l'aveva ucciso e compì il movimento
con
facilità, senza dolore.
Pensava di essere solo, ma il suo cuore,
così possente, perse un battito quando, dalle sue spalle,
una voce
fine pronunciò una parola che tante volte l'aveva riassunto
ed
identificato: “Padre?”
Si voltò in fretta, gli occhi già
lucidi mentre davanti a sé si trovò Gyda, la sua
bambina. Aveva i
capelli graziosamente raccolti in una treccia elaborata ed il viso
era luminoso, mentre gli correva incontro con addosso solo una tunica
bianca. Rideva, sua figlia, e quasi Ragnar cadde in ginocchio dalla
contentezza di averla ritrovata.
La prese tra le braccia e la
strinse forte a sé, mentre lei si aggrappava ed affondava il
viso
contro il suo collo, raggiante e splendente ed innocente di nuovo
dopo la brutalità che l'aveva portata via.
“Gyda...”
Gli
sussurrò Ragnar tra i capelli, respirando contro la sua
pelle
delicata.
Fu un abbraccio stretto e disperato, quello che si
scambiarono. Fatto di momenti perdutie saluti mancati, fatto di
gratitudine per essersi ritrovati.
Fu dopo molto tempo che si
staccarono e l'uomo posò la figlia a terra, gli occhi che
non
riuscivano a staccarsi dal volto così bello della sua
bambina. Gyda
era lì e l'aveva di nuovo tra le braccia.
“Come sei morto?”
Gli chiese poi, il faccino di nuovo serio, mentre poneva quella
domanda. Lei era lì da molto tempo, purtroppo –
più tempo di
quanto Ragnar avrebbe voluto e di quanto Gyda si meritasse. Ma
così
era e lei sapeva come funzionavano le cose.
“In battaglia. È
stato con onore.”
Si inginocchiò davanti a lei e in quel
momento il pensiero di Athelstan non aveva molta importanza, anche se
un angolo della sua mente aveva ripreso, frenetica, a cercare una
spiegazione che giustificasse la sua presenza (e quella di Gyda)
lì.
La bambina annuì, grave, e sembrò cresciuta di
dieci anni.
“Come stanno mia madre e mio fratello?”
Domandò poi,
osservando suo padre negli occhi. Lui annuì e le sorrise,
carezzandole con dolcezza una gota.
“Bene. Stanno bene.”
Lei
sembrò sollevata e finalmente tornò a sorridere,
la felicità e la
gratitudine di riavere suo padre era evidente.
“Tu stai bene?”
Proseguì Ragnar, squadrandola per la prima volta da quando
l'aveva ritrovata. Ma lei rise – allegra come l'uomo non
l'aveva
mai vista e annuì energicamente, e stavolta fu lei ad
carezzarlo
sulla guancia.
Il re si prese un momento per crogiolarsi in
quella mano piccola, che sembrò soffiargli brezza tiepida
sul cuore
e poi la prese tra le sue e ne baciò con dolcezza il palmo.
“Gyda,
sai dirmi dove siamo?”
Domandò alla fine, rialzandosi e
continuando a non mollare la presa sulla mano della figlia.
La
bambina annuì di nuovo e cominciò a camminare,
conducendo con sé
il padre, che la seguì in silenzio.
“Quando si muore non c'è
il Valhalla come pensavamo, sai? E non c'è neanche il
Paradiso di
Athelstan. C'è Questo e nessuno sa come si chiama, in
realtà. È
qui che vengono le anime pure dopo che lasciano la Terra –
tutte
loro. Non si sa chi lo comanda, non sappiamo niente. Ma sappiamo che
qui stiamo bene ed è un posto Puro. Dove essere
felici.”
Fu
questa la breve spiegazione di Gyda e benché a Ragnar
sarebbe
piaciuto sapere di più, di una cosa era certo: dopo la morte
la
corsa era finita. Era arrivato il momento di vivere come mai era
stato fatto prima e ridere e osservare il sole, perché i
dolori, i
doveri e tutto ciò che di negativo c'era era finito. Per
questo le
domande non avevano importanza; sua figlia era felice.
Gyda, nel
frattempo, aveva condotto suo padre verso una piccola area boschiva;
gli alberi erano abbastanza fitti, ma il sole, così dorato,
filtrava
senza problemi.
Ragnar restò in silenzio, un'improvvisa stretta
allo stomaco quando si rese conto che sì, lì
poteva davvero essere
felice, perché avrebbe rincontrato tutti i suoi cari, senza
dover
scegliere quale e dove. Avrebbe avuto Gyda e forse avrebbe riavuto
anche lui.
Si concesse un breve sorriso, mentre una gioia ancora
timida e soffocata faceva capolino nel suo sterno. E tuttavia, questa
gioia divampò quando Gyda gli lasciò la mano per
correre verso una
figura di spalle, i capelli neri e mossi raccolti in una coda bassa
sulla nuca. Era più basso di lui e Ragnar si sarebbe messo a
piangere, se fosse stato meno orgoglioso, perché quella
sagoma era
inconfondibile.
Athelstan
volse il viso e i loro occhi scivolarono gli uni dentro quelli
dell'altro, azzurro che incontrava azzurro, l'oro di Ragnar che si
mescolava con l'argento di Athelstan, così come il sole e la
luna.
Gli occhi color dell'acqua del ragazzo si accesero non appena
vide chi gli si trovava di fronte e non riuscì a impedire
alle sue
labbra di socchiudersi, nella sua tipica espressione di quando era
sorpreso da qualcosa.
Si voltò del tutto, trovandosi così
faccia a faccia col suo re, col suo amante, con colui che aveva amato
e che amava, con il suo mondo e il suo futuro e le sue risposte e il
suo migliore amico.
Ragnar gli sorrise, di quel sorriso sornione
e storto che assumeva sempre, anche se avrebbe voluto solamente
stringerlo a sé e abbracciarlo finché anche quel
mondo non sarebbe
finito.
Gyda se n'era andata, non sapeva dove, ma Ragnar si
sentiva sereno: sapeva che lì il dolore non esisteva.
Mosse dei
passi verso Athelstan, lenti. Alle spalle del ragazzo c'era un fuoco,
ancora dietro una casa fatta in legno e il vichingo capì che
quella
sarebbe stata anche sua.
“Alla fine i nostri dei sono diventati
amici”
Scherzò Ragnar con tono dolce, fermandosi davanti
all'altro.
Athelstan era rimasto immobile, ma la sua espressione
era mutata: ora sorrideva.
“C'è un aldilà anche per noi”
Sussurrò poi il ragazzo, occhi negli occhi.
La gioia era
forte, in quel momento. La perfezione, la lontananza dal dolore,
dalle differenze, dagli obblighi e dalla moralità che spesso
era
dubbia – avevano conquistato tutto quello, perché
loro erano anime
pure ed erano fatti per ritrovarsi.
Ragnar posò la mano sul
petto di Athelstan e sentì il suo cuore battere.
Walking_Disaster's
corner:
* Yule è la festa che i vichinghi facevano
per la fine dell'inverno. Durava dodici giorni e festeggiavano con
banchetti e danze l'incantesimo dell'inverno che si era spezzato.
Questo dettaglio del primo bacio è preso da una role svolta
da me e
la mia partner di role che interpreta Ragnar – vi assicuro
che
questa ragazza è l'amore.
** Hel è il luogo dove le anime dei
morti senza onore vanno – una sorta di Inferno cristiano, per
intendersi.
(Il titolo è – chiaramente – una frase di E. Dickinson.)
Eccoci
qua! Niente, è una vita e mezzo che non pubblico, ma sarebbe
stato
un sacrilegio non farlo su loro due. Non ho molte pretese,
perché
devo ammettere che l'arrugginimento si fa sentire, ma spero che
piaccia comunque.
Un grazie speciale va a Serena, perché senza
di lei dubito avrei mai scritto questa storia.
Fatemi sapere cosa
ne pensate, se vi va!
Grazie per aver letto,
WD