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Autore: Walking_Disaster    30/06/2015    1 recensioni
OS prettamente Ragnar!centric divisa in tre parti | AthelstanxRagnar | post S3.
Ragnar muore e per lui è giunto il momento di raggiungere il Valhalla, il Paradiso, o qualunque cosa ci sia dopo. Spera solo di poter raggiungere il suo amico cristiano.
Scena a rating rosso accennata molto da lontano - da lì la spunta alla voce lime.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Where you are – that's home.






A Sere.



C'era un cinguettio tranquillo nel bosco ed ad esso si erano uniti ansimi e imprecazioni strozzate.
Il suono di pelle che sbatteva contro altra pelle, la schiena ambrata di Ragnar rivolta verso il cielo, a proteggere il corpo esposto di Athelstan. Quest'ultimo aveva gli occhi umidi, il labbro inferiore stretto tra i denti e le guance imporporate e – sorrideva. Il re, sopra di lui, mentre spingeva, l'osservava. E in quel viso poté vedere il sole, le nuvole e gli alberi.
La mano candida del più giovane si andò a posare sulla scapola ampia del re e fu così che lo attrasse verso di sé e fu così che ci fu un ennesimo bacio caotico, lingua e denti che attaccavano, colpivano e si ritiravano.
Era un inseguirsi ed un cercarsi continuo il loro; era un vivere qualcosa di nuovo ed un amare intensamente, insensatamente, totalmente.
Tutto era arrivato come dei cazzotti in pieno stomaco, tra uno sguardo fugace e un sorriso segreto. Il primo contatto tra le loro labbra li aveva raggiunti il primo giorno di Yule* e nessuno l'aveva visto arrivare finché non avvenne.
E poi le rimostranze erano state lasciate indietro, così come le incertezze.
Fu con un sibilo prolungato che Ragnar venne, seguito dopo qualche momento dal violento tendersi dell'altro. Questo pose fine a quello scambio e il re si accasciò addosso all'ex monaco, attento a non pesargli – e tuttavia non ne uscì. Restò fermo, mentre Athelstan si lasciava scappare una risata silenziosa e prendeva a carezzargli con dolcezza la linea definita della mascella, giochicchiando con la barba folta.
La scusa era che erano andati a caccia. Ed in effetti avevano abbattuto una cerva ed avrebbero avuto la possibilità di mettere le mani anche addosso ad un maschio, ma i piani erano cambiati non appena Ragnar aveva deciso che divorare le labbra del compagno era un'attività più interessante e – a quanto pareva – anche più redditizia.
I due attesero per un po'. Quando erano insieme le concezioni di spazio e tempo si annullavano e alla fine non avevano così tanta importanza.
Fu solo quando l'eccitazione fu scemata del tutto che Ragnar si allontanò dal corpo caldo dell'altro per stenderglisi placidamente accanto, gli occhi chiusi e i tratti distesi – e anche se non sorrideva, Athelstan poteva vedere sul viso dell'altro tutta la serenità che provava.
Il vichingo si fece più vicino e posò una mano sulla pancia nuda dell'altro, così da non perdere il contatto tra loro e poi approfittò della sua posizione supina per posargli la testa sulla spalla, il viso ora immerso nella piega del collo di Athelstan.
Restarono zitti, perché era così che funzionava tra loro due. In così tanti anni di vicinanza e profonda amicizia evolutasi poi in qualcos'altro, avevano imparato a conoscersi e a riconoscere il nervosismo quando taciuto e il benessere quando non ovvio.
Athelstan prese a carezzare con fare distratto i capelli dell'altro, ruvidi contro il suo palmo segnato dal chiodo di Cristo. Nonostante questo taglio gli piacesse, gli mancava la treccia con cui l'aveva conosciuto.
Il ragazzo si sarebbe potuto aspettare che da un momento all'altro Ragnar cominciasse a fare le fusa, per quanto rilassato lo stesse percependo. E tuttavia, non poté impedirsi di schiudere le labbra e dar voce a ciò che gli ronzava in testa da giorni.
“Non esiste un aldilà, per noi due”
Ragnar tracciava distrattamente cerchi e ghirigori sul suo stomaco nudo. Le gambe intrecciate, il sole che filtrava tra le foglie e che creava giochi di luce sui corpi dei due amanti distesi tra gli arbusti del sottobosco.
E tuttavia, quei teneri gesti si interruppero non appena il significato di quelle parole fece presa nel cervello del re.
Quello della religione, nonostante tutto, restava un argomento difficile da affrontare, tra i due. Perché i loro dei ancora non erano diventati amici e forse non lo sarebbero mai diventati.
Ragnar fece schioccare le labbra tra loro e poi strusciò il naso contro la guancia dell'altro.
“Esiste l'ora”
Sussurrò, lasciandogli un bacio sull'angolo delle labbra.
Sapevano perfettamente entrambi che l'ora prima o poi sarebbe finito e che di tutto quello non sarebbe rimasto niente, ma la verità era che non c'era altro che potessero fare. Ed anche quello lo sapevano entrambi.
“E poi potrei andare a Hel** e non nel Valhalla e tutto questo sarebbe vano.”
Soggiunse poi, mentre si appoggiava su un gomito e sovrastava Athelstan, l'espressione seria sotto di sé.
“Tu non andrai a Hel. C'è molta più probabilità che io finisca all'Inferno, messa in quest--.”
La frase morì a metà. Si bloccò. Così.
Gli occhi brillanti dell'ex monaco si sgranarono, mentre socchiudeva le labbra e un rivolo di sangue gli macchiava il mento.
Ragnar entrò nel panico, la serenità di poco prima immersa improvvisamente nel sangue dell'altro. La mano che gli teneva sullo stomaco diventò improvvisamente viscosa e appiccicosa e, osservandola, la poté vedere grondante di sangue, mentre una ferita che era più simile ad una voragine si spalancava nel corpo del compagno.
“No, no, no, no! Cosa--?! Athelstan!”
Il ragazzo l'osservava con espressione stralunata, si sforzava di respirare con rantoli brevi e veloci mentre il sangue continuava a uscire a fiotti dalle labbra cianotiche. Lo squarcio continuava ad aprirsi sotto gli occhi stravolti del re, che frenetico si era tirato a sedere e ora tamponava il sangue che ormai gli aveva raggiunto le ginocchia, lo sentiva salire di livello e solo quando poté vedere la vita di Athelstan strappata via gli venne dato un colpo alla testa e tutto si spense.



* * *



C'era odore di bruciato e puzza di morto e il sapore ferroso in bocca lo stordiva. Un dolore sordo lo fece voltare a fatica verso la sua fonte e si rese conto dell'ascia piantata nella sua spalla, ad intaccare la clavicola e la scapola.
Fu all'improvviso che si ricordò della battaglia appena combattuta, dello slabbro che gli avevano provocato all'altezza dei lombi e delle gambe che cedevano sotto il peso insopportabile del suo corpo e dell'armatura leggera. Si rese conto che tutto ciò che aveva visto e vissuto con Athelstan non era altro che una proiezione dell'inconscio e che quella non era stata che l'ennesima battaglia combattuta in Francia.
Ed a quanto pareva gli dei avevano voluto fermarlo. Ed in fondo andava bene.
Sentì una lacrima scendergli lungo lo zigomo macchiato di sangue e terra, mentre la voce di Bjorn, da lontano, lo chiamava. La disperazione era chiara nel tono del giovane.
“Padre-”
Si chinò su Ragnar, le mani che tremavano, le labbra socchiuse.
Il re, grandioso anche così ridotto, poteva avvertire la vita scivolargli via di dosso. E pensò che era stato battezzato e pensò che l'affermazione di Athelstan non aveva più valore.
“Ti voglio bene, figliolo.”
Soffiò a stento, un sorriso piccolo e sforzato sulle labbra, e Bjorn dovette chinarsi sul corpo del padre per poter sentire quelle parole.
Gli occhi del giovane si riempirono di lacrime mentre Ragnar, una volta per tutte, smetteva di respirare.
Il grande re era finito.


* * *


Una sala enorme d'oro fu tutto ciò che poté vedere, in un primo momento.
Una cupola di cui non si vedeva la fine, alta fino a chissà dove. I suoi piedi erano scalzi e le piante erano accarezzate da tenera erba verde. Un fiume scorreva lì vicino e, dentro a quello spazio, ci stavano anche le montagne.
Ragnar spalancò la bocca e, tirato il naso insù, si guardò intorno, del tutto conquistato dalla maestosità di quel luogo – che se tutto era andato secondo i suoi piani, doveva essere il Paradiso. Non era come se l'era immaginato, tuttavia; sembrava più un mondo utopico, fatto di luce e purezza, e tutte le nuvole che Athelstan gli aveva menzionato non erano presenti. Non si trattava neanche del Valhalla, perché non c'era la sala, né il banchetto.
Non sapeva dove si trovasse, ma sapeva che quel posto era buono e quel posto era bello.
Si sentiva rinvigorito, anima e corpo; le vecchie cicatrici scomparse, i dolori risucchiati via. Provò a roteare la spalla che era stata intaccata nel combattimento che l'aveva ucciso e compì il movimento con facilità, senza dolore.
Pensava di essere solo, ma il suo cuore, così possente, perse un battito quando, dalle sue spalle, una voce fine pronunciò una parola che tante volte l'aveva riassunto ed identificato: “Padre?”
Si voltò in fretta, gli occhi già lucidi mentre davanti a sé si trovò Gyda, la sua bambina. Aveva i capelli graziosamente raccolti in una treccia elaborata ed il viso era luminoso, mentre gli correva incontro con addosso solo una tunica bianca. Rideva, sua figlia, e quasi Ragnar cadde in ginocchio dalla contentezza di averla ritrovata.
La prese tra le braccia e la strinse forte a sé, mentre lei si aggrappava ed affondava il viso contro il suo collo, raggiante e splendente ed innocente di nuovo dopo la brutalità che l'aveva portata via.
“Gyda...”
Gli sussurrò Ragnar tra i capelli, respirando contro la sua pelle delicata.
Fu un abbraccio stretto e disperato, quello che si scambiarono. Fatto di momenti perdutie saluti mancati, fatto di gratitudine per essersi ritrovati.
Fu dopo molto tempo che si staccarono e l'uomo posò la figlia a terra, gli occhi che non riuscivano a staccarsi dal volto così bello della sua bambina. Gyda era lì e l'aveva di nuovo tra le braccia.
“Come sei morto?”
Gli chiese poi, il faccino di nuovo serio, mentre poneva quella domanda. Lei era lì da molto tempo, purtroppo – più tempo di quanto Ragnar avrebbe voluto e di quanto Gyda si meritasse. Ma così era e lei sapeva come funzionavano le cose.
“In battaglia. È stato con onore.”
Si inginocchiò davanti a lei e in quel momento il pensiero di Athelstan non aveva molta importanza, anche se un angolo della sua mente aveva ripreso, frenetica, a cercare una spiegazione che giustificasse la sua presenza (e quella di Gyda) lì.
La bambina annuì, grave, e sembrò cresciuta di dieci anni.
“Come stanno mia madre e mio fratello?”
Domandò poi, osservando suo padre negli occhi. Lui annuì e le sorrise, carezzandole con dolcezza una gota.
“Bene. Stanno bene.”
Lei sembrò sollevata e finalmente tornò a sorridere, la felicità e la gratitudine di riavere suo padre era evidente.
“Tu stai bene?”
Proseguì Ragnar, squadrandola per la prima volta da quando l'aveva ritrovata. Ma lei rise – allegra come l'uomo non l'aveva mai vista e annuì energicamente, e stavolta fu lei ad carezzarlo sulla guancia.
Il re si prese un momento per crogiolarsi in quella mano piccola, che sembrò soffiargli brezza tiepida sul cuore e poi la prese tra le sue e ne baciò con dolcezza il palmo.
“Gyda, sai dirmi dove siamo?”
Domandò alla fine, rialzandosi e continuando a non mollare la presa sulla mano della figlia.
La bambina annuì di nuovo e cominciò a camminare, conducendo con sé il padre, che la seguì in silenzio.
“Quando si muore non c'è il Valhalla come pensavamo, sai? E non c'è neanche il Paradiso di Athelstan. C'è Questo e nessuno sa come si chiama, in realtà. È qui che vengono le anime pure dopo che lasciano la Terra – tutte loro. Non si sa chi lo comanda, non sappiamo niente. Ma sappiamo che qui stiamo bene ed è un posto Puro. Dove essere felici.”
Fu questa la breve spiegazione di Gyda e benché a Ragnar sarebbe piaciuto sapere di più, di una cosa era certo: dopo la morte la corsa era finita. Era arrivato il momento di vivere come mai era stato fatto prima e ridere e osservare il sole, perché i dolori, i doveri e tutto ciò che di negativo c'era era finito. Per questo le domande non avevano importanza; sua figlia era felice.
Gyda, nel frattempo, aveva condotto suo padre verso una piccola area boschiva; gli alberi erano abbastanza fitti, ma il sole, così dorato, filtrava senza problemi.
Ragnar restò in silenzio, un'improvvisa stretta allo stomaco quando si rese conto che sì, lì poteva davvero essere felice, perché avrebbe rincontrato tutti i suoi cari, senza dover scegliere quale e dove. Avrebbe avuto Gyda e forse avrebbe riavuto anche lui.
Si concesse un breve sorriso, mentre una gioia ancora timida e soffocata faceva capolino nel suo sterno. E tuttavia, questa gioia divampò quando Gyda gli lasciò la mano per correre verso una figura di spalle, i capelli neri e mossi raccolti in una coda bassa sulla nuca. Era più basso di lui e Ragnar si sarebbe messo a piangere, se fosse stato meno orgoglioso, perché quella sagoma era inconfondibile.
Athelstan volse il viso e i loro occhi scivolarono gli uni dentro quelli dell'altro, azzurro che incontrava azzurro, l'oro di Ragnar che si mescolava con l'argento di Athelstan, così come il sole e la luna.
Gli occhi color dell'acqua del ragazzo si accesero non appena vide chi gli si trovava di fronte e non riuscì a impedire alle sue labbra di socchiudersi, nella sua tipica espressione di quando era sorpreso da qualcosa.
Si voltò del tutto, trovandosi così faccia a faccia col suo re, col suo amante, con colui che aveva amato e che amava, con il suo mondo e il suo futuro e le sue risposte e il suo migliore amico.
Ragnar gli sorrise, di quel sorriso sornione e storto che assumeva sempre, anche se avrebbe voluto solamente stringerlo a sé e abbracciarlo finché anche quel mondo non sarebbe finito.
Gyda se n'era andata, non sapeva dove, ma Ragnar si sentiva sereno: sapeva che lì il dolore non esisteva.
Mosse dei passi verso Athelstan, lenti. Alle spalle del ragazzo c'era un fuoco, ancora dietro una casa fatta in legno e il vichingo capì che quella sarebbe stata anche sua.
“Alla fine i nostri dei sono diventati amici”
Scherzò Ragnar con tono dolce, fermandosi davanti all'altro.
Athelstan era rimasto immobile, ma la sua espressione era mutata: ora sorrideva.
“C'è un aldilà anche per noi”
Sussurrò poi il ragazzo, occhi negli occhi.
La gioia era forte, in quel momento. La perfezione, la lontananza dal dolore, dalle differenze, dagli obblighi e dalla moralità che spesso era dubbia – avevano conquistato tutto quello, perché loro erano anime pure ed erano fatti per ritrovarsi.
Ragnar posò la mano sul petto di Athelstan e sentì il suo cuore battere.





Walking_Disaster's corner:
* Yule è la festa che i vichinghi facevano per la fine dell'inverno. Durava dodici giorni e festeggiavano con banchetti e danze l'incantesimo dell'inverno che si era spezzato. Questo dettaglio del primo bacio è preso da una role svolta da me e la mia partner di role che interpreta Ragnar – vi assicuro che questa ragazza è l'amore.
** Hel è il luogo dove le anime dei morti senza onore vanno – una sorta di Inferno cristiano, per intendersi.


(Il titolo è – chiaramente – una frase di E. Dickinson.)

Eccoci qua! Niente, è una vita e mezzo che non pubblico, ma sarebbe stato un sacrilegio non farlo su loro due. Non ho molte pretese, perché devo ammettere che l'arrugginimento si fa sentire, ma spero che piaccia comunque.
Un grazie speciale va a Serena, perché senza di lei dubito avrei mai scritto questa storia.
Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va!
Grazie per aver letto,

WD

   
 
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