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Autore: Ladyoonagh    30/06/2015    1 recensioni
"Villainy wears many masks, none so dangerous as the mask of virtue"
-Ichabod Crane, Sleepy Hollow-
Ciao a tutti, questo è il primo racconto che pubblico qui, forse ne pubblicherò altri... o forse no :) Originariamente il racconto e' nato come tema scolastico.... Di religione. Dovevamo riflettere sul il rapporto tra magia e religione, in origine il finale era moooolto diverso 😊 ma molto molto! In ogni caso, spero vi piaccia, fatemi sapere cosa ne pensate e.... buona lettura!
Genere: Dark, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono poche le cose veramente importanti da dire su di me, una è il mio nome: William Warren, l'altra è che sono un vampiro. Ma andiamo con ordine...Sono nato a Londra, al tempo in cui Enrico VIII regnava sull'Inghilterra; mio padre, il conte Simon Warren, di cui conservo ben pochi ricordi, era il consigliere del re.
Nel 1534, con l'Atto di Supremazia, Enrico VIII si dichiarò capo della Chiesa Anglicana d'Inghilterra; non amo giudicare le azioni altrui, forse perché anche io ho aspiro a essere capito, che è ben diverso dal bisogno, più che naturale, di comprensione; perché, insomma, io so bene che ciò che ho fatto è sbagliato, ma non per questo me ne pento, e tanto meno voglio giustificarmi, no. Ma per quanto riguarda questa storia, voglio che voi, gentili lettori, proviate, solo per un po', a entrare nella mia ottica. Prometto che non sarà del tutto spiacevole. Ma adesso perdonate la mia parentesi, vi garantisco che non ce ne saranno altre.
Dicevo, dunque, che non sono portato per i giudizi. Oltretutto, al tempo dei fatti che sto narrando, io ero solo un bambino, e in quanto tale, non mi interessavo di politica. Perciò non starò a discutere sulle ragioni più o meno lecite che spinsero il re a prendere quella decisione, devo però ammettere che fu proprio quella, a condurre la mia famiglia alla rovina. Mio padre, di origine francese, era cresciuto nella fede cattolica, fatto che ben presto lo portò a trovarsi in disaccordo con la corona, così nessuno rimase molto sorpreso quando, il 4 Aprile dello stesso anno, il suo corpo senza vita fu ritrovato nel Tamigi. Avevo 8 anni.
Non ricordo molto di quei giorni, le urla disperate di mia madre, mia sorella Isabel, quattro anni più giovane di me, che cercava conforto nel mio letto, ci rannicchiavamo sotto le pesanti coperte stringendoci l' uno conl'altra e piangendo lei mi supplicava di non lasciarla, come se la sua intera esistenza dipendesse da me soltanto.
Passarono gli anni, io facevo finta di non accorgermi del lento disgregarsi della mia famiglia, quasi che essa fosse un castello di sabbia, costruito in riva al mare che piano piano, onda dopo onda lo consuma. Gli unici ricordi lieti che ho di quel periodo sono quelli che riguardano Isabel, ormai quindicenne, aveva tutta la grazia della prima giovinezza, coi riccioli castano dorati e i vivaci occhi verdi. La ricordo così, col sole che le splende in viso, la bocca atteggiata in un tenero broncio e un' espressone di allegro risentimento dipinta sul volto; cercavo con tutte le mie forze di tenerla lontana dall' orrore che ci circondava e che, brano a brano divorava tutto il nostro mondo.
Mia madre era figlia di un ricco baronetto, nata e cresciuta in mezzo al lusso, non riusciva ad abituarsi all'idea che prima o poi saremmo diventati poveri. Non diceva mai di no e per ogni ricevimento o festa a cui era invitata, si faceva confezionare un vestito nuovo dalla migliore sarta di Londra. Io, naturalmente, la seguivo dovunque andasse, non perché l'amassi in modo particolare, ma perché quel mondo m'incantava, desideravo con tutte le mie forze farne parte.
Divenni un cultore della Bellezza in tutte le sue forme, di giorno passeggiavo per le strade della mia città, ignorando i sussurrii scandalizzati della gente, drappeggiato nelle migliori stoffe sul mercato. Ma niente è durevole a questo mondo e ne sono tuttora convinto, benché detta da me la cosa possa sembrare paradossale.
Eravamo sommersi dai debiti, una a una le nostre proprietà ci vennero confiscate. Mia madre aveva un'indole orgogliosa e molto possessiva nei confronti di ciò che le apparteneva. Da quando era nata Isabel si erano fatti molti piani per il futuro della bambina. Io avrei ovviamente ereditato il titolo di mio padre e la parte cospicua del patrimonio di famiglia, ma era indubbio che mia sorella avrebbe comunque avuto una dote degna della figlia di un conte. Ma questo succedeva prima dei fatti che vi ho narrato.
Isabel si vide costretta ad accettare la proposta di matrimonio del barone Abbott, fatto che, se non altro, le avrebbe impedito di risentire troppo della caduta in disgrazia della nostra famiglia.
Mia sorella era un essere appassionato e allegro, ma poco interessato al mondo; non si ribellò al matrimonio, cosa piuttosto strana, se si tiene conto del fatto che lei era una fanciulla nel fiore della giovinezza e per di più molto bella, mentre Sir Edward Abbott era un anziano signore di dubbia fama. Si vociferava che avesse fatto uccidere la sua prima moglie, il giorno del quarantesimo compleanno di lei, perché non era stata capace di dargli un figlio maschio. Naturalmente erano solo voci, chiacchiere di salotto...
Ad ogni modo, a me non piaceva l'idea che la mia amata sorella dovesse diventare la moglie di un simile individuo. In quei giorni già meditavo sulla possibilità di fuggire da Londra, per andare a cercare la fortuna altrove. Proposi a Isabel di farmi da compagna nel mio viaggio, ma lei declinò il mio invito con la grazia che le era consueta, disse che la cosa più giusta per lei era restare accanto a nostra madre, per aiutarla ed esserle d'appoggio nel caso in cui la situazione fosse ulteriormente peggiorata.
Il giorno del matrimonio arrivò presto e nonostante i buoni propositi, Isabel si presentò alla cerimonia che doveva vederla protagonista, pallida e febbricitante.
Non dimenticherò mai l'angoscia nei suoi occhi, né lo sguardo freddo e severo del barone, che la fece sussultare e imporporò le sue guance esangui. Confesso che a volte, nel sonno, sento ancora la stretta convulsa delle sue dita delicate attorno al mio braccio; per lei, perché il compito non le fosse troppo arduo, m'ero tirato a lucido e avevo indossato gli abiti migliori che possedevo. Così, mentre osservavo la situazione, mi costrinsi a sorridere, disprezzandoli entrambi, lei per la sua debolezza e devozione insensata a una madre che non l'aveva mai veramente amata, lui per la sua presuntuosa lussuria.
In Inghilterra non c'era più futuro per me. La ancora troppo recente frattura tra la mia famiglia e la corte mi aveva chiuso tutte le porte e ormai eravamo in disgrazia.
Una settimana dopo il matrimonio, partii per la Svezia.
Non ero eccessivamente preoccupato per le possibili reazioni alla mia partenza: come ho detto, la mia famiglia aveva abbastanza problemi a cui pensare e di sicuro a nessuno sarebbe importato della fuga di un diciannovenne, per di più appartenente a una casata decaduta e fuori dai favori del re. Probabilmente si sarebbero limitati a diseredarmi, ma considerato come andavano le cose, non mi sarebbe comunque rimasto molto da ereditare, alla morte di mia madre.
Il viaggio fu lungo e sfiancante. Avevo speso quasi tutto quello che avevo per pagarmi il viaggio e in quel vascello buio, sporco e puzzolente, non riuscivo a non preoccuparmi per ciò che mi aspettava. Dove sarei andato, una volta che la nave avesse attraccato? In quella terra fredda, io non sapevo come muovermi. Ma più della paura, era l'eccitazione a farsi sentire. Stavo cominciando una vita mia, e poco importava se avrei sofferto il freddo o la fame. Non avevo dubbi che in un modo o nell'altro, sarei stato io a trionfare.
Da bambino avevo avuto una balia svedese che mi aveva insegnato la sua lingua, quindi non dovetti faticare troppo ad ambientarmi.
Durante le prime notti dormii all'addiaccio, nascondendomi nei fienili o nelle stalle, difendendomi dal freddo alla meglio, dormendo nella paglia sporca e facendo umili lavoretti giornalieri per pagarmi un pasto una volta al giorno, che consumavo seduto a un tavolo isolato, in una brutta locanda, sempre satura del puzzo di corpi non lavati e di cibo mal cotto.
Tuttavia feci del mio meglio per ingraziarmi la locandiera, una donnetta di mezza età, dai modi affabili e dallo sguardo dolce.
In breve, riuscii a conquistarmi la sua simpatia ed ella non solo si offrì di riservare per me una stanza nel suo alberghetto, ma mi aiutò anche a cercare un impiego affidabile.
Trovai lavoro nel negozio di un' antiquario, passavo le mie giornate tra tutti quei reperti, testimoni di epoche lontane e ne ero affascinato. In mezzo all' anticume, persi nel mare di cianfrusaglie, c' erano anche degli oggetti veramente belli, c' era ad esempio un grosso tavolo di mogano dalla forma circolare, finemente intagliato e con intarsi in oro e madreperla. Trovai anche degli orecchini d'oro, ormai scuriti dal tempo, con due piccoli smeraldi lucenti, li misi in un posto un po' nascosto assieme a un pesante anello di argento con uno zaffiro blu grosso come l'unghia del mio dito mignolo, in attesa guadagnare abbastanza per poterli regalare a Isabel.
A volte, la sera, portavo i due bambini della locandiera in riva al mare e lì, seduti su uno scoglio, con la bambina sulle ginocchia raccontavo loro delle storie: avventure per mare e per terra, storie di pirati e di banditi, narrai le gesta del prode Robin Hood, che si oppose al vile principe Giovanni, inventavo per loro fiabe incantate, nelle quali il confine tra realtà e fantasia era sottilissimo, mentre la piccola Baeret mi ascoltava a bocca aperta, i grandi occhi azzurri spalancati e il visetto sporco che arrossiva per la felicità o sbiancava di terrore mentre diveniva lei stessa eroina della storia.
Poco a poco si sparse la voce di un giovane incantatore che raccontava storie sulla riva del mare all'imbrunire. In breve tutto il paese prese a riunirsi, la sera, sui ripidi scogli ad ascoltare i miei racconti.
Fu così che un giorno, in mezzo alla folla, venne anche la cameriera personale della regina di Svezia, che era venuta a fare visita ai vecchi genitori. Un messaggio da Sua Maestà in persona mi fu recapitato qualche giorno dopo e un sarto venne a prendere le mie misure perché potessi presentarmi a corte adeguatamente abbigliato.
La settimana seguente, raccolto tutto ciò che possedevo in un lenzuolo logoro, me ne andai a Stoccolma.
A quel tempo la Svezia non era ancora entrata in quello che gli storici chiameranno “Periodo d'Oro”, ma vi posso assicurare che il palazzo reale era comunque una gioia per gli occhi: maestoso e robusto, di solida pietra grigia, all'interno era tutto una profusione di marmi pregiati e tessuti superbi.
Appena arrivato, venni condotto in una grande sala da bagno, dove un giovane servo si prese cura della mia persona.
Dopo che mi ebbe tolto di dosso la sporcizia del viaggio, pettinò i miei capelli fino a farli risplendere e in un grande specchio appeso alla parete contemplai la mia immagine riflessa: il viso dai lineamenti fini, aristocratici, il naso dritto e ben proporzionato, la bocca morbida, ben disegnata e carnosa, i brillanti occhi d'un nero profondo, soffusi di dolcezza e ombreggiati dalle lunghe ciglia. Ammirai i miei riccioli neri e morbidi che scendevano sinuosi fin sotto le scapole.
Fui vestito con semplicità, i tessuti con cui era fatto il mio abbigliamento erano però sontuosi.
Quando il giovane servo fu soddisfatto del mio aspetto, venni condotto alla presenza della regina; costei era una creatura assai bizzarra, metà angelo e metà baccante, aveva i capelli lunghi, talmente chiari da sembrare bianchi, la carnagione chiarissima e gli occhi d'argento, ma era tutt'altro che eterea: le guance paffute erano rosse come mele mature, la bocca generosa era illuminata da un sorriso aperto e sincero; aveva forme opulente, ma le sue mani ingioiellate erano bianche e sottili, con lunghe dita da fata e quando mi chinai a baciargliele, respirai un vago sentore di mandorle dolci. Il re era più anonimo, alto, biondo e con gli occhi azzurri era la perfetta personificazione dell'uomo nordico, col viso incorniciato dalla ispida barba bionda che cominciava a incanutire.
Così cominciò la mia carriera di cantastorie di corte.
Ben presto guadagnai abbastanza da poter comprare per Isabel gli splendidi oggetti che avevo visto nel negozio dell'antiquario, ai quali aggiunsi uno scialle turchese di morbidissima seta e un soprabito di velluto verde malachite.
Un mese più tardi, un fattorino mi portò un grosso pacco che conteneva tutti gli oggetti che avevo spedito a Isabel, con allegata una lettera di un mio parente che
m'informava di come mia sorella fosse morta mettendo alla luce suo figlio; a mia madre si era schiantato il cuore. Isabel e il suo piccolo nato morto, erano ora sepolti nel cimitero di Londra.
Non persi tempo a chiedermi perché in tutto quel tempo nessuno mi avesse fatto sapere niente; qualcosa dentro di me si era spezzato.
Nel frattempo, la mia posizione a corte era migliorata: ero un protetto della regina, la quale mi colmava di mille attenzioni, fu così che mi accorsi che era fortemente attratta da me.
Cominciò a volermi vedere in privato, io le raccontavo le mie storie e vedevo i suoi occhi accendersi di piacere mentre si protendeva ansiosa verso di me, fino al giorno in cui, interrompendo a metà un racconto, mi baciò e io mi ritrovai a rispondere ai suoi baci, perfettamente consapevole dei rischi che correvo, mentre la mia mente valutava freddamente i molteplici vantaggi che quella insolita situazione mi avrebbe portato.
Quello fu il primo di molti incontri, e mentre lei lasciava cadere uno a uno tutti i veli regali che celavano allo sguardo la sua essenza femminile, io diventavo sempre più arrogante e violento, mostruosamente consapevole dell'accartocciarsi della mia anima che lentamente divorava sé stessa.
Presi dalla regina tutto quello che poteva darmi, e anche di più, lasciandola ansante e mortalmente pallida, simile a un guscio vuoto.
Venivo invitato a tutti i ricevimenti e le feste che si tenevano a corte; fu proprio durante uno di questi che conobbi Moses.
Quando lo vidi la prima volta, stava discutendo animatamente con un altro gentiluomo che non conoscevo, riguardo a un complicato concetto filosofico. Giudicai che non doveva avere più di quarantacinque anni, aveva i capelli color topo, e in effetti, tutto in lui ricordava quel timido roditore; era piuttosto basso, di corporatura esile, il naso piccolo e “alla francese”, gli occhi azzurri erano molto ravvicinati. Aveva la pelle pallida e i lineamenti del volto, seppur dolci, erano leggermente rigidi; nel complesso era molto attraente, ma qualcosa nel suo modo insistente di guardarmi, mi terrorizzava e allo stesso tempo mi accendeva di un elettrizzante senso di aspettativa, come se inconsciamente presagissi che quell'uomo, dall'aspetto quantomeno bizzarro, avesse il potere di realizzare tutte le oscure brame del mio cuore.
In breve tempo diventammo intimi amici, e io gli feci spesso visita nella sua casa, che era un luogo veramente fuori del comune, pieno dell' incantevole decadenza che un paio di secoli più tardi avrebbe affascinato poeti e pittori. Era una magnifica costruzione solida, col caratteristico tetto spiovente delle regioni del nord. Sul davanti si apriva un bel portico colonnato mentre sul retro c'era un giardinetto dove le piante e i fiori erano cresciuti selvaggiamente; nel mezzo c'era un vecchio pozzo, accanto al quale cresceva una ginestra dorata che s'intrecciava con spinosi cespugli di more di rovo. Ma più di tutto mi piaceva il sorbo selvatico, che in quel periodo dell'anno era coperto di bacche scarlatte.
L'interno della casa non era meno inusuale: pavimento e pareti erano coperti di tappeti e arazzi di pregevolissima manifattura, ma logori e impolverati; c'erano poltrone e divani dall'aspetto confortevole, coperti da enormi cuscini foderati di sontuoso velluto di seta, che presentavano qua e la dei grossi squarci dai quali usciva l'imbottitura; c' erano poi antiche credenze di mogano scuro dalle lineari forme classiche, dalle cui vetrate facevano capolino finissimi servizi da portata sbeccati, e
c'erano gioielli, ammucchiati alla rinfusa nelle zuppiere, nelle tazzine da tè, nelle brocche di porcellana... . Mi convinsi che Moses dovesse essere una sorta di mercante di antichità, ma come ho già detto, c'era qualcosa d' inquietante in lui, quel suo muoversi leggero, quasi fosse fatto d'acqua e quella pelle innaturalmente bianca... sia come sia, questa mia fascinazione nei suoi confronti era totalmente ricambiata.
Passai molte notti in quella casa, in compagnia di Moses. Era un uomo di grande intelligenza, parlava un'infinità di lingue e la sua cultura non aveva limiti.
In quelle lunghe notti mi mise a parte di tutto il suo sapere. A casa, in Inghilterra, quando ero bambino, nessuno aveva mai pensato di fornirmi un'istruzione più che basilare, così io sapevo leggere e scrivere, ma niente di più. Con l'aiuto di Moses studiai le opere di tutti i filosofi antichi e moderni, divorai i saggi degli umanisti nella speranza di comprendere la realtà del mondo in cui vivevo, che troppo a lungo avevo ignorata. Moses mi stava accanto, aiutandomi quando incontravo difficoltà, con pazienza infinita.
Grazie alla mia ferrea determinazione e a una pronta intelligenza, in breve fui in grado di sostenere una conversazione con lui. Toccavamo ogni argomento, dalla filosofia alle belle arti, alla letteratura.
Una tiepida notte d'agosto, io e Moses eravamo comodamente seduti nel portico, quando mi accorsi che lui mi stava osservando, ad un tratto mi abbracciò.
“William, chiedi quello che vuoi e sarà tuo” sussurrò. Sorrisi, voltandomi per guardarlo. Lui era lì, gli occhi bassi. Notai che era un buon venti centimetri più basso di me; gli misi due dita sotto il mento e lo obbligai ad alzare il viso intrappolando i suoi occhi nei miei.
“Oh! Ma voi sapete cosa voglio!” bisbigliai.
“No... non lo so” balbettò lui.
“Voglio il potere, e voi potete darmelo”.
Mi guardò confuso poi, quando la comprensione si fece strada nella sua mente annebbiata, si allontanò di scatto da me, nei suoi occhi si alternavano stupore e orrore.
“Tu sai!” bisbigliò, incapace di credere che io fossi stato in grado di penetrare il suo segreto con tanta naturalezza.
"
Sì, Moses” risposi “Voglio essere come voi”.
Il giorno seguente mi recai a corte e chiesi udienza ai sovrani per comunicare loro che era mia intenzione fare ritorno in Inghilterra. Da tempo ormai non ero più formalmente al servizio di Sua Maestà e se continuavo a intrattenere la corte coi miei racconti, era solo perché piaceva a me.
La regina mi guardò sconvolta, i grandi occhi grigi spalancati per l'angoscia: non era più che il misero fantasma della donna che era stata un tempo e io avevo perso interesse per lei.
Più tardi mi ricevette nei suoi appartamenti privati. Con voce roca mi supplicò di restare, si lasciò cadere ai miei piedi baciandomi le mani e bagnandole con le sue lacrime salate mentre io la guardavo attentamente, godendo appieno di quell'istante. Alla fine, con un gesto brusco mi liberai della sua stretta per fare ritorno alla villa di Moses.
Mancava ancora qualche ora al tramonto e del mio dolce amico non c'era traccia. Mi accomodai sul portico e cominciai a leggere “Il Principe” di Machiavelli, un libricino piuttosto interessante.
Era ormai buio quando sentii le mani di Moses sulle spalle; col senno di poi, mi accorgo di quanto fossero strane le mie reazioni rispetto a quella situazione
insolita: avrei dovuto essere terrorizzato da quanto stavo per fare, o quantomeno inquieto, pensando alla gravità dell'atto che stavamo per compiere, invece non provai niente, solo una fredda e superba soddisfazione.
Moses era teso come una corda di violino, colmo di tenera preoccupazione.
“William...” sussurrò “Non posso farlo! Andrei in capo al mondo per te, ma questo...”. M'inginocchiai davanti a lui, circondandogli la vita con le braccia e nascondendo il viso tra le pieghe della sua giacca “Sì che potete farlo... fatelo, per favore” mormorai. Con un lieve sospiro lui mi fece alzare “D'accordo, lo farò, ma prima devi sapere tutto, così che tu possa decidere in modo consapevole”.
Mi spiegò ogni cosa nei minimi dettagli. Le uniche cose in grado di uccidermi sarebbero state il fuoco e la luce del sole, avrei dovuto nutrirmi di sangue umano. Non mi vergogno a dire che sulle prime la cosa mi gettò nel panico, ma ben presto riuscii a tacitare l'orrore.
“Non c'è niente di meglio del sangue umano, esso infatti ti darà la possibilità di sfruttare al meglio il tuo potere, il sangue animale, invece, fintanto che bevi solo quello, inibirà le tue facoltà”.
Lui era un vampiro piuttosto debole, debolezza e forza nei vampiri dipendono in gran parte dalle qualità e dalle doti che si avevano in vita. Moses pensava che io sarei stato molto forte.
“Bene, è tutto. È ancora questo che vuoi?” chiese alla fine. Senza esitare, annuii, “Lo voglio” risposi con forza.
“Molto bene, allora... non sentirai alcun dolore” disse, poi, affondò i suoi canini nella mia gola. Fu come fare l'amore, le forze mi abbandonarono e io caddi con un gemito, trascinandolo con me; lentamente persi conoscenza, mentre il mio corpo lottava strenuamente per sopravvivere e allo stesso tempo si arrendeva a lui.
Dalle buie profondità in cui annaspavo sentii la sua voce gentile “Bevi, mio caro! Sii forte! Sii un dio sulla terra!” e io bevvi da lui, con forza, con avidità. Di quello che accadde in seguito non ricordo molto, solo il dolore martellante, sfiancante, maledii Moses, per non avermi avvertito. Credo che urlai, prima di scivolare nuovamente nell'incoscienza.

Quando mi risvegliai c'era Moses, inginocchiato accanto a me. Mi guardava sorridendo, annuì alla mia muta domanda “Si, è fatto, non riesci a percepirlo da te?”. Solo allora mi guardai intorno; trattenni il respiro, travolto da tanto splendore: il piccolo giardino abbandonato scintillava di colori mai visti, era come se per tutta la mia vita avessi avuto delle garze avvolte attorno agli occhi, che mi impedivano di vedere il mondo in tutta la sua scioccante bellezza. Sfiorai il tronco del sorbo selvatico e potei sentire sotto le dita il fremito di vita della linfa che correva al suo interno, quindi mi girai verso Moses, che mi contemplava rapito e, stordito dal tripudio di colori che mi avvolgeva mormorai “Grazie!”.
Con delicatezza, per non rompere l' incanto, mi prese per mano e mi condusse all' interno della villa dove, dopo avermi fatto vestire, mi mise davanti a un enorme specchio con una imponente cornice in legno di cedro, intagliata in sinuosi viticci che si intrecciavano gli uni agli altri. “Guardati William... come sei bello!” e lo ero davvero, più splendente di vita che mai: i miei capelli cadevano con grazia sul petto e parevano avere una vita propria; gli occhi, due profondi pozzi neri, brillavano di estasi e il mio viso pareva scolpito nell'alabastro; Moses mi accarezzò riccioli neri “Sei molto potente! Riesco a sentirlo!” esclamò “Possiedi il potere di controllare gli elementi, il fuoco, l'acqua e l'aria saranno per te dei fedeli servitori”. Oltre a questo potere, ero in grado di leggere nella mente altrui, di sollevare anche gli oggetti più pesanti solo con la forza della mia volontà e di spostarmi nell'aria, lasciando che quest'ultima mi sostenesse.
Il tempo passava veloce e già a est le nuvole cominciavano a tingersi di rosa, c'era poco tempo. Con un guizzo fui vicino al mio maestro, lo baciai con tutta la dolcezza di cui ero capace, lui mi guardò confuso ed io, concentrandomi sul potere che fluiva da me, lo incatenai alla mia volontà, quindi mi allontanai, lasciandolo esterrefatto e incapace di muoversi. Per la durata di un soffio i nostri occhi si incontrarono e solo in quel momento, con un fremito si accorse di quello che avevo fatto.
“William!” balbettò infine “Perché?!”. Gli rivolsi un sorriso triste “Addio, mio dolce Moses, che Dio abbia pietà di voi!” ciò detto mi girai e senza più voltarmi tornai all'interno della villa.
Con un sussulto, mi accorsi che non avevo la minima idea di come comportarmi... dove trovare un rifugio sicuro per passare il giorno? Tremo ancora al pensiero di tanta avventatezza: troppo in fretta mi ero liberato del mio unico maestro e ora ero totalmente in balìa del pallore rovente dell'alba. Pazzo di terrore, mi misi a rovistare come un forsennato tra le anticaglie ammucchiate le une sulle altre e devo ringraziare la mia buona stella se trovai una cassapanca vuota. Senza por tempo in mezzo mi ci infilai dentro, richiudendo il coperchio con un colpo secco. Quindi, con un sospiro di sollievo, mi abbandonai all'incoscienza.
Non sentii le urla di Moses che moriva e se qualche mortale all'esterno sentì qualcosa, io non ne seppi mai niente.
La notte seguente, al mio risveglio una sete terribile, profonda e bruciante mi stava torturando; sapevo cosa dovevo fare e sapevo come dovevo farlo.
Cercate di capire, non aveva più senso ormai ragionare sui risvolti morali della mia condizione. Semplicemente smisi di preoccuparmene, rinchiusi il mio abusato senso del bene e del male in un' angolo della mente e andai avanti.
Per prima cosa uscii nel giardino sul retro e là, proprio accanto a un piccolo acero rosso, c'era un mucchietto di cenere, tutto ciò che restava del mio adorabile e patetico Moses. Ricordando alcune leggende che la mia balia mi raccontava nei noiosi pomeriggi di pioggia della mia infanzia, con un lieve moto di disgusto raccolsi la cenere e la liberai nella fresca brezza notturna, quindi mi diressi verso il paese.
Ora, perdonate la mia scontatezza, il fatto è che paradossalmente, sono sempre stato un passo avanti rispetto al mio tempo: sono un inguaribile romantico, capace di scoppiare a piangere solo per la bellezza della luna dietro alle nuvole, o per la vista di una lapide da tempo dimenticata sopra la quale son cresciuti cespugli di rovi e rose rampicanti. Ma torniamo a noi, quella notte dunque, entrai non visto nella casa d' un ricco signorotto, seguendo la dolce scia del sangue scivolai in una camera spaziosa, addormentata su un grosso baldacchino con tende di candida seta bianca c'era una giovane, un braccio teneramente piegato sotto il capo. Quando i miei canini penetrarono la sua morbida gola, un lieve gemito le sfuggì dalle labbra. La meraviglia del suo sangue nella mia bocca mi strappò un singhiozzo. Mai avevo gustato qualcosa di così delizioso! Bollente, mi entrava in circolo e lo sentivo impregnare ogni singola fibra del mio corpo, ed era una sensazione meravigliosa. Non potreste mai capire la beatitudine di quel gesto, era molto più del semplice atto di nutrirsi, quella era la linfa vitale! Il magico fluido che porta la vita!
La prosciugai, poi in un lampo uscii nella notte e in un tempo ancor più breve fui di ritorno con un mazzolino di fiori di campo, che misi tra le mani esangui della fanciulla.
Passarono ancora diverse settimane prima che tornassi in Inghilterra, in quel periodo esercitai il mio potere fino ad averne il pieno controllo.
Il viaggio per mare fu davvero snervante: il buon senso mi suggerì di nutrirmi esclusivamente dei topi che affollavano numerosi l' imbarcazione e a causa del sangue animale, per tutto il tempo mi sentii debole e fiacco. Ma, grazie al cielo, anche quella tortura ebbe presto fine.
Appena arrivato, andai subito a controllare che ne era stato dei miei possedimenti e della mia famiglia, scoprii che tutto ciò che era rimasto delle nostre proprietà ora apparteneva a me, come ultimo rappresentante della famiglia. Così mi installai subito nella grande casa sul Tamigi, dove avevo abitato da bambino.
Presi l'abitudine di aggirarmi, la notte, nelle locande gremite, ascoltando le chiacchiere degli uomini, resi ciarlieri dal vino. Venni così a sapere che il barone Abbott, dopo che Isabel era morta, si era risposato con un'altra giovane donna, che gli aveva dato tre figli: una bambina e due gemellini; così la sera seguente, silenzioso come un gatto, scivolai nella casa del barone; trovare la stanza dove dormivano i piccoli non fu difficile perché l'odore del loro fresco sangue fanciullesco era particolarmente forte e penetrante; i due gemelli dormivano tranquilli in una culla, mentre la bambina, che doveva avere tre o quattro anni, in un letto a baldacchino, la giovane balia era acciambellata su una poltrona accanto alla finestra spalancata. Delicatamente, sollevai il più grassottello dei due bambini e lo morsi: sembrava un piccolo fiore in boccio, roseo e profumato e suscitò in me un subitaneo moto di tenerezza. Durò troppo poco, il sangue mi si riversò in bocca, ed era delizioso, molto dolce, con un vago sentore di latte. La morte del piccolo, che era passato indisturbato dal profondo sonno dell'infanzia all'oblio senza sogni, mi aveva infuso nelle vene una meravigliosa sensazione di placida calma. quando ebbi finito, posai il corpicino senza vita accanto a quello del fratellino, quindi mi dileguai nella notte.
La sera dopo, quando mi svegliai, la città era in subbuglio, gli uomini sussurravano tra loro, pieni di un sentimento di mistica superstizione: il cadaverino del neonato che avevo ucciso appena poche ore prima era stato scoperto, morto dissanguato, segno inequivocabile che un vampiro si aggirava in città. Questo potrebbe far sorridere un lettore del ventunesimo secolo, ma cercate di capire... stavamo per entrare nella seconda metà del Cinquecento e, soprattutto nei quartieri più degradati, la superstizione e la fiducia nella magia erano fin troppo radicate perché un avvenimento simile non potesse colpire profondamente quelle povere menti, e come mi deliziò ascoltare i loro sussurrii rochi e spaventati! Quando ne ebbi abbastanza, mi accinsi a completare la mia vendetta e fu decisamente troppo facile. Avevo sperato di dover giocare d'astuzia, per entrare nell'abitazione del barone, sicuramente, dopo i fatti dell'altra notte avranno aumentato la sorveglianza, pensavo. In effetti, c'erano molti soldati, ma non fu difficile eludere la loro sorveglianza ed entrare un'altra volta nella stanza dei bambini, dove presi l'altro gemellino, gustandolo fino in fondo; ero così rapito da quel meraviglioso sangue infantile che troppo tardi mi accorsi di essere osservato: la bambina era in piedi accanto al letto, i capelli come una nuvola ramata che cadevano sulla camicia da notte di seta azzurra, da sotto la cuffietta di pizzo, immobile come una statua e gli occhi spalancati. Mi si fermò il cuore, non una traccia di timore in quella figuretta esile, solo uno sguardo intenso e indagatore, che mi gelò il sangue. Lentamente mi leccai le labbra, quindi, con un balzo, le fui accanto, sussultò appena quando la circondai con le braccia, stringendola a me, poi, dopo averle posato un lieve bacio sulla fronte, uscii dalla stanza.
Il barone e la sua giovane moglie dormivano. In silenzio, mi avvicinai alla donna e le sussurrai all'orecchio di non svegliarsi, quindi mi preparai ad occuparmi del vecchio. Quando lo morsi nell'incavo del gomito, si svegliò con un gemito roco, cercò di divincolarsi, ma io salii a cavalcioni sul suo petto, bloccandogli i polsi con le mani; “Sai chi sono?” chiesi a bassa voce, lui, con gli occhi spalancati per l terrore fece un cenno di dinnego “Sono William Warren, figlio del conte Simon Warren, Isabel era mia sorella e tu, l'hai uccisa” risposi a denti stretti.
“Hai assassinato i miei figli..?” chiese in un sussurro. “Si” risposi dolcemente, “E adesso ucciderò anche te”.
Non farò una descrizione dettagliata di come presi la sua vita, non voglio turbare la mente di nessuno con simili racconti, basti dire che soffrì e molto, prima che la morte lo liberasse da me. Per tutto il tempo pianse e invocò pietà e anch'io piansi, mescolando le mie lacrime alle sue e al sangue che scorreva copioso.
Alla fine, sconvolto dal dolore e dalla disperazione, tornai a casa mia. Con sollievo scoprii che i miei pochi servi si erano preoccupati di rendere la mia camera da letto il più accogliente possibile, nel grande camino di granito, un enorme fuoco scoppiettava allegro, riempiendo la stanza di mille bagliori rossi e dorati, mentre sul tavolino c'era una bottiglia di brandy e anche del cibo.
Avevo sperato che quelle semplici vestigia di una vita che non mi apparteneva più mi avrebbero confortato, sollevato la mia mente e il mio corpo da quella sofferenza, ma non fu così. Mi concentrai su quel dolore, che era in parte anche fisico,cercando di catalogarlo, di trovarne la fonte, per poterla bruciare e annientare.
D'impulso afferrai la bottiglia di liquore e il piatto col cibo e li gettai nel fuoco, allontanandomi di scatto quando l'alcool esplose, annerendo le pietre grigie, poi cominciai ad aggirarmi febbrilmente per la camera, scardinando il letto e strappandone senza pietà le cortine e gettando tutto quanto nel camino, ad alimentare il fuoco che prese ad illuminarsi di mille colori, e per un attimo ne fui incantato. Senza accorgermene mi avvicinai, ma quando il calore mi lambì il viso, come il violento respiro di un drago, la mia mente si schiarì e io balzai lontano da quel sublime inferno dal quale, lo sapevo, avrei dovuto lasciarmi inghiottire.
Mi destai di soprassalto la sera dopo, come risvegliato da una trance. Mi accorsi che avevo tirato le pesanti tende di velluto, dunque, la mia follia suicida della notte prima aveva fallito nel suo giustissimo compito. La bestia era ancora lì e.. orrore degli orrori! Stava benissimo! Nel momento in cui lo pensai, mi accorsi che era vero. Tutta la mia sofferenza della notte precedente era andata, scomparsa, il fuoco che doveva bruciarmi, esorcizzarmi, mi aveva invece risanato, era stato mio alleato.
Aprii il bauletto in cui avevo messo gli oggetti che avevo comprato per Isabel. Passai le dita sul pesante velluto del soprabito e ammirai le perfette cesellature sull'oro degli orecchini, mentre i piccoli smeraldi rilucevano alla mesta e tuttavia splendida luce della luna, quindi, uscii nella notte, diretto ancora una volta alla villa del barone Abbott.
La baronessa e la sua figlioletta dormivano nel piccolo baldacchino della bambina, teneramente abbracciate. La giovane donna aveva le guance pallide e gli occhi infossati a causa delle lacrime versate per i figli perduti.
Con estrema delicatezza, posai un bacio sulla guancia della piccola e uno sulle morbide labbra di sua madre, quindi misi i miei doni ai piedi del letto, poi uscii, lasciando che le tenebre penetrassero nel mio cuore, indurendolo un po' di più.
Quella notte cacciai come non avevo mai fatto, con una ferocia inaudita. Non risparmiai nessuno, non il ricco signore che dormiva tranquillo nel suo letto, non la vecchia mendicante che acciambellata sui gradini della cattedrale, mi accolse tra le sue braccia, scambiandomi per qualcuno che in gioventù l'aveva amata e che era morto ormai da tempo. Mi lasciai dietro una scia di morte che rimase per molto tempo impressa nella memoria dei londinesi.
Non c'è molto da dire riguardo ai duecento anni che seguirono. Il mondo cambiava, io rimanevo sempre lo stesso, non nego che ne fossi affascinato, tuttavia, gradualmente cominciai a perdere interesse per ciò che mi circondava. Le faccende umane non mi toccavano più. La Rivoluzione Francese venne e passò senza quasi che me ne accorgessi, una noia incolore e terribile si impadronì di me a tal punto che dovetti sforzarmi, per ricordare il motivo per il quale avessi tanto ostinatamente voluto diventare quello che ero. Quello che sono.
Fu una giovane donna che, nel bene o nel male, restituì un senso alla mia esistenza. Ginevra era figlia di quel ceto sociale che andava acquisendo sempre maggiore importanza, suo padre, Gilberto Pomelli, era un ricco mercante di origini veneziane.
La conobbi a un ricevimento che suo padre aveva organizzato per lei. Ginevra aveva allora sedici anni, ed era considerata una vera bellezza. Aveva i capelli biondi, ricci e occhi di un blu così profondo da sembrare nero. Ma non fu il suo aspetto fisico ad attrarmi così prepotentemente; perché, vedete, sono un vampiro e in quanto tale, non ha molto senso per me preoccuparmi di simili sottigliezze, quanto piuttosto il suo modo d'atteggiarsi. Sembrava così fragile, così... innocente! Camminava tra la folla, come trasognata, del tutto inconsapevole del proprio traboccante fascino... potete capire quale incantevole sfida rappresentasse per me!
Non mi fu difficile avvicinarla e farmela amica. Come ho detto, era incredibilmente ingenua. Così, in poco tempo riuscii a conquistarmi la sua completa fiducia.
Prendemmo l'abitudine di fare lunghe passeggiate, spingendoci fino al limite estremo della città. Quando scoprii che Ginevra era un'appassionata cultrice del giardinaggio, ingaggiai i più bravi giardinieri d'Inghilterra, perché creassero per lei un piccolo pensatoio nel mio giardino, con alberi da frutto e da fiore, completo di una fontanella di granito con ninfee e minuscoli pesci argentei. Cominciò a farmi visita ogni sera, passavamo il tempo discutendo animatamente di questo o di quell'altro argomento.

In più d'un occasione la sorpresi a osservarmi e una notte mi confidò che a volte aveva l'impressione che io fossi una mera illusione, non un essere in carne e ossa, ma piuttosto una parte della notte stessa. Ripensando alle sue risate dolci e imbarazzate, mentre mi diceva queste cose, non posso che provare un po' di commozione... è vero che sembro una scultura di alabastro, ma troppo spesso dimentico che è solo apparenza e a volte mi scopro a pensare che forse, da qualche parte dentro di me è ancora nascosta una traccia di umanità.

Una sera, eravamo appena tornati dal teatro, dove avevamo assistito a una magnifica interpretazione dell'Antonio e Cleopatra. Ginevra ne era rimasta estasiata, volteggiava di qua e di là, col vestito di seta rossa che si gonfiava attorno ai suoi fianchi morbidi. Mai mi era parsa più desiderabile, il suo sangue era una tortura, dolce e penetrante. Non oppose alcuna resistenza quando l'abbracciai... era così tenera e fragile... la feci stendere sull' erba e la baciai; non fu un bacio casto, né gentile. Quantunque io sappia di non essere un buon soggetto in altri campi, sono sicuramente un ottimo amante, lo fui anche quella volta e tutte quelle successive.
Quando la morsi, lei lanciò un gemito che parve dischiudere le tenebre intorno a noi; ma anche quella era solo un'illusione. La notte mi avvolgeva, simile a un manto protettivo attorno a me, come se io ed essa fossimo davvero inscindibili, proprio come aveva detto Ginevra. A questo pensai mentre il suo sangue mi riempiva la bocca, delizioso. Non gliene presi molto. Fu giusto un assaggio e la sera seguente, lei non ricordava assolutamente niente; fu sempre così, fino alla fine. Non so se lei avesse intuito la verità, un paio di volte temetti di essere stato scoperto per quello che ero. Se è così, non me lo disse mai.
Ogni tanto le facevo colare sulle labbra piccole gocce del mio sangue e ben presto potei notare come esso fosse inconsciamente diventato una sorta di droga per lei. Queste minuscole stille scarlatte operarono un lento cambiamento nell'animo della giovane... ma ci misi parecchio tempo a comprendere la reale portata del mio ascendente su di lei.
Nel frattempo io conducevo la mia esistenza in un continuo vortice di feste e ricevimenti, di lussi, ori, sangue e oscurità... vivevo la vita a cui avevo sempre aspirato.
Mrs Caroline Clayton era un'anziana nobildonna che viveva in una lussuosa villa nel centro di Londra. In gioventù aveva, con la sua bellezza, condotto alla rovina molti giovani gentiluomini, prima di trovare l'amore nella persona di Arthur Clayton. Ora era un'elegante vedova cinquantaseienne. Questa signora possedeva uno sviluppatissimo acume e una duttile intelligenza, adorava le fresie e i dipinti di Jean-Honoré Fragonard, con i suoi 'quadri d'alcova', dalle tematiche delicatamente erotiche, nei quali fanciulle prosperose in abiti discinti si dedicavano ai loro svaghi con languida leggiadria.
Ma ciò che le riusciva meglio, era conoscere gli affari altrui, niente sfuggiva alle sue acutissime orecchie e non c'era scandalo in città del quale lei non fosse al corrente. Fu lei ad informarmi, quando Gineva cominciò a mostrare i primi segni di follia... lo ricordo perfettamente. Successe ad una festa che Miss Caroline aveva dato in onore del fidanzamento di suo nipote; ella mi venne vicino con quella sua aria di complicità, splendida nel suo abito di taffettà viola e lavanda. “Oh, Mr. Warren!” trillò, le gote imbellettate rese ancor più colorite dal piacere, “Spero vi stiate divertendo! Conoscete già il mio nipote più giovane?” chiese, spingendo avanti un timido giovanotto sulla ventina, che sentendo addosso i miei occhi, arrossì violentemente, balbettando frasi che risultarono incomprensibili persino a me... (e non è cosa facile, credetemi!) si chiamava Robert e se ora ve lo descrivo, non è solo perché ebbe una parte particolarmente importante nella vicenda, ma anche perché mi affascinava e m'inteneriva; per questo motivo non riuscii a fargli del male, nemmeno quando divenne un serio rischio per la mia incolumità... ma d'altro canto, io sono onnipotente, su questa terra e anche la Fortuna non può fare altro che prostrarsi al mio servizio.
Robert aveva i capelli fulvi, gli occhi grandi e tondi erano d'una bellissima tonalità di nocciola, calda e profonda, il naso era piccolo e la bocca generosa e rossa. Quel giorno indossava una giacca di seta blu notte, con ricami argentati, che esaltava il suo colorito pallido e roseo e brache color panna. Non sembrava a suo agio in quell'ambiente. Era nato in America, figlio di coloni, poi, suo padre aveva pensato di mandarlo in Inghilterra a studiare, affidandolo alla zia, Mrs. Clayton.
“Robert è segretamente innamorato di Lady Ginevra Pomelli!” mi spiegò Mrs Caroline, sussiegosa. “Ma finché non si dichiarerà, lei non può certo immaginarlo!... voi le siete molto vicino... mettereste, per piacere, una buona parola per mio nipote?” le risposi che di certo avrei fatto un così piccolo piacere per una cara amica, quale la consideravo. Detto ciò, mi scusai e presi congedo.
Quella sera, non ero totalmente a mio agio con me stesso, avvertivo un' inquietudine strana quanto ingiustificata, non sapevo cosa fare e non volevo fare niente. La cosa non mi preoccupava più di tanto, avevo a mia disposizione l' eternità per vivere e fare tutte le cose che più amavo, non dovevo necessariamente occupare ogni singolo istante!
Un guizzo bianco attraversò veloce e inaspettato il mio campo visivo, riuscendo a strapparmi un lieve sussulto a cui seguì un moto di stizza, quando mi accorsi che si trattava solo di un gattino bianco; sospirai, quindi feci ritorno nella mia villa sul Tamigi.
Adesso, perché voi possiate comprendere pienamente il dramma che Ginevra stava vivendo, è necessario abbandonare per un po' il mio punto di vista, per entrare in una dimensione più oggettiva.

 

Il gattino bianco saltò con grazia sul davanzale, Ginevra si alzò svogliatamente per farlo entrare. Quella mattina Robert Clayton era venuto a farle visita e aveva insistito per portarla in riva la fiume. Lei non ci voleva andare e non aveva saputo dissimulare la cocente delusione che la vista del viso di lui le aveva procurato. Non era Robert che lei voleva.

Il gatto le strofinò il naso sul vestito e lei lo prese in braccio, grattandogli la testa. William non era venuto la sera precedente... a questo pensiero, il bel viso della giovane si raggrinzì in una smorfia di rabbia, mentre le sue dita si stringevano attorno al collo del gattino, che si divincolò e lottò contro di lei, graffiandole ripetutamente le mani. Ginevra spalancò la bocca, in un urlo di muto terrore, il gatto aveva la schiena arcuata e il pelo irto, mentre dalla sua gola usciva un sibilo orrendo, simile all' urlo dei dannati che bruciano nel fuoco eterno dell' inferno, pensò Ginevra, mentre osservava terrorizzata il sangue sulle sue dita. Presa dal terrore, la ragazza cominciò ad aggirarsi per la stanza, strofinandosi violentemente le mani. Ad un tratto si fermò, come colpita da un pensiero improvviso, quindi si lasciò cadere sul tappeto e in un attimo si addormentò.
La mattina seguente, Ginevra fu svegliata dal sole che le batteva sul viso. Con un gemito si riparò gli occhi e strisciando scompostamente sul tappeto morbido, tentò di raggiungere la finestra, per tirare le tende e trovare così riparo da quella luce che le feriva la vista... le sembrava che il sole non fosse mai stato così brillante e confusamente si chiese se per caso non fosse arrivato il Giorno del Giudizio, e l' astro diurno stesse bruciando la Terra con tutti i peccatori che la abitavano.
Qualcuno bussò alla porta della sua stanza, distogliendola dai suoi tetri pensieri. Ansimando, la giovane si costrinse ad alzarsi da terra, scosse la testa, per schiarirsi la mente e togliere la polvere dai capelli. Prima di aprire, ebbe anche il buon senso di coprirsi con una vestaglia, poiché la sua camicia da notte di seta e merletto francese, era tutta spiegazzata, e i nastri sciolti.
Si trattava del signorino Robert, che insisteva per portarla a fare una passeggiata nel parco. Ginevra decise che il miglior modo per liberarsi di quel giovanotto inopportuno era assecondare le sue preghiere, così si sciacquò il viso e le mani e indossò il più bel vestito da passeggio che possedeva, quello di cotone azzurro, con tutti i tipi di fiori finemente ricamati in argento e un paio di stivaletti color avorio. Quindi lasciò che la sua servetta le raccogliesse sulla nuca gli opulenti ricci biondi, fermandoli con un pettine d' argento.
Quando la vide, Robert spalancò gli occhi, mentre la sua bella bocca si allargava in un allegro sorriso.
“Non trovate che sia una splendida giornata, Miss Ginevra?” chiese Robert, offrendole il braccio. “Veramente non saprei... “ rispose la giovane, “Non sembra anche a voi che oggi il sole sia un po' troppo luminoso e il vento rovente?”
“Rovente, Miss. Ginevra?” chiese il ragazzo, confuso. La giovane scosse il capo, con noncuranza, “Non pensateci, sono un po' stanca... ultimamente non dormo molto bene... oh, guardate! Là c'è lo stagno coi cigni... come sono belli! Andiamo a sederci lì accanto, su quelle panche di pietra!”.
I cigni nuotavano placidamente nell' acqua azzurra e limpida del laghetto. “Sono così bianchi!” sussurrò Ginevra, mentre sentiva che la vista di quegli animali era riuscita a calmarla un poco.
“Perché non mi raccontate qualcosa del Nuovo Mondo, Robert? Mi farebbe tanto piacere ascoltarvi! É vero che i nativi praticano ancora la stregoneria?” il giovane sorrise, mentre sul suo viso si dipingeva un espressione di pura gioia. “Certo, bisogna stare attenti, i loro stregoni sono molto potenti e...”Aspettate, volete dire che voi credete a queste assurdità medievali?” chiese Ginevra, con un mezzo sorriso di scherno che per fortuna passò inosservato agli occhi del bravo giovane. “Non bisogna prendersi gioco di queste cose... il male si presenta sotto molte forme! Ma voi, così pura e innocente, non avete certamente nulla da temere!” aggiunse Robert, dandole un colpetto sul naso. Ginevra sorrise, mentre le sue guance si coloravano di rosa, “Continuate, vi prego. Mi interessa molto quello che dite!” esclamò quindi, per mascherare l' imbarazzo.
Robert riprese a parlare e Ginevra si accoccolò ai suoi piedi, appoggiando il gomito sul sedile di pietra e posando la testa sul palmo della mano. Lentamente, il sonno la prese, e lei si appisolò.
Si svegliò di soprassalto qualche istante più tardi. Intorno a lei c' era un caos indescrivibile, gli uccelli gridavano forte, i cigni, nuotando, muovevano l' acqua che si riversava in piccole onde sulla riva, facendo un rumore quasi assordante e la voce di Robert... ma perché gridava a quel modo? Si chiese Ginevra, gemendo pietosamente, mentre con le mani si copriva le orecchie. “Zitto Zitto Zitto!” gridò fra le lacrime al giovane, che la osservava attonito, senza sapere bene cosa fare.
“Basta... vi prego... basta!” bisbigliò la fanciulla tremando.
Come d' incanto, istantaneamente tutto si calmò. Ginevra sollevò il viso rigato di lacrime verso Robert, che fece appena in tempo a sorreggerla, prima che perdesse i sensi.
Quando tornò in sé, la prima cosa che vide fu il viso del ragazzo, che la scrutava preoccupato. Cercò di sorridere, “Oh mio Dio... perdonatemi! Vi ho detto che è un po' di tempo che non dormo bene... mi ero addormentata e stavo avendo un incubo, quando mi sono svegliata, mi è sembrato di impazzire... forse sarebbe meglio tornare ... sono veramente stanca!” disse Ginevra, in tono allegro. A quelle parole, Robert si rilassò. “Ma certamente! Vi accompagno subito a casa vostra!” assentì lui.
Ginevra passò il resto della giornata in uno stato di semi veglia, ma quando scese la notte, sentì che tutta la confusione di cui era stata preda durante il giorno svaniva con esso.
Quella sera William decise di fare visita alla famiglia Pomelli. La madre della ragazza lo accolse con con evidente sollievo. “Oh! Caro Mr. Warren! Che gioia vedervi! Erano parecchi giorni che non vi vedevamo... la povera Ginevra non si sente molto bene, magari voi riuscite a sollevarla un poco... vi è tanto affezionata, sapete? Non fa che parlare di voi”,
“Davvero, Mrs. Pomelli?” chiese William, inarcando le sopracciglia “Sono veramente dispiaciuto di non essere potuto venire più spesso, ma voglio molto bene a Miss. Ginevra e le posso assicurare che farò del mio meglio per aiutarla!” rispose William con un mezzo sorriso. “Che caro giovane siete! Davvero un gentiluomo, vado subito ad avvertire mia figlia che siete qui, accomodatevi intanto, mr. Warren e permettetemi di offrirvi un goccio di brandy!” trillò la signora, mentre con un gesto stizzito esortava la cameriera a servire l' ospite.
Ginevra si alzò dal divano, sedutasi alla toeletta, prese a spazzolarsi pigramente i ricci, che lasciò sciolti sul petto, quindi indossò un elegante abito di seta color porpora. Quando bussarono alla porta, si sentì riempire di felicità, pur non sapendone bene il motivo. Quando aprì la porta, si trovò davanti sua madre, che la guardava con aria meravigliata. “Ginevra! Vedo che ti senti meglio, ma guarda chi è venuto a farti visita!” a queste parole, la ragazza sollevò lo sguardo e incontrò gli occhi di William, che la osservava compiaciuto.
“Voi!” bisbigliò la fanciulla, correndo verso di lui, William la abbracciò gentilmente, baciandola sulle guance. “Siete uno splendore, Ginevra!”.
“Scusatemi...” disse Mrs. Pomelli, fregandosi gli occhi “Pare che io non riesca a tenere gli occhi aperti, sta sera... forse è meglio che vada a letto!” aggiunse, mentre si alzava dal divano. Barcollando, uscì dalla stanza.
A Ginevra pareva di non essere mai stata così felice, il suo amato era finalmente venuto per lei! E non le era mai sembrato tanto adorabile come in quel momento. William era vestito con la consueta eleganza e aveva i capelli legati da un nastro viola che ne esaltava la tonalità scura e il pallore del suo viso.
“Ginevra...” bisbigliò, prima di baciarle le labbra. Lei chiuse gli occhi, mentre lui la circondava con le sue braccia. “Sì...?” sospirò lei,
“Vieni con me, adesso!”
“Si...” assentì lei.
“sì....?” chiese lui, inarcando le sopracciglia.
”Si, mio signore!”
William la sollevò tra le braccia, e lei gli si aggrappò, mentre le vertigini la assalivano e per qualche minuto ebbe l' impressione di galleggiare nel vuoto, priva di peso. Rimase immobile, con gli occhi chiusi, fino a quando sentì che William la chiamava. Si guardò attorno, confusa. “Dove siamo?”
“Nella foresta, Ginevra...” rispose lui, lanciandole un' occhiata preoccupata.
“Ma... la foresta è lontana da Londra!” obbiettò lei, sbattendo le palpebre. “No... non è lontana... Ginevra, cosa c'è che non va?” chiese William, fingendo stupore, “Oh... scusami!” disse lei, prendendogli una mano. William scosse il capo con indulgenza, poi la baciò ancora, solo un po' più rudemente del consueto.

Faceva freddo, Ginevra era nuda e tremava, si avvicinò al fuoco che William aveva acceso per lei. Insieme, avevano danzato, poi lei gli si era donata una volta di più, ma lui non aveva preso quello che lei si aspettava. Voleva che lui la baciasse ancora, come aveva fatto prima... i punti in cui le sue labbra si erano posate, le bruciavano lievemente, ma era una sensazione piacevole. Improvvisamente si sentì avvolgere da uno strano calore e poco a poco, il sonno ebbe il sopravvento.

 

Robert era perplesso, non poteva credere a quanto aveva visto la notte prima, nella foresta. Sapeva per certo che i demoni a volte scendono tra i mortali, assumendo gli aspetti più sublimi, ma questo era veramente troppo! Si ripromise che subito dopo colazione, sarebbe andato a fare visita alla famiglia Pomelli... delle così brave persone... e avevano avuto la sfortuna di incrociare il percorso del Malvagio!
Robert scosse la testa, incredulo. “Hanno molto da dire, quegli eminenti signori, che professano la forza della Ragione!” rimuginava il giovane tra sé, “Ma se avessero visto anche loro quello che ho visto io!”
“E cosa hai visto di preciso, mio caro?” lo interrogò Mrs. Caroline, entrando nella stanza. Robert sollevò gli occhi, sorpreso. “Oh, adorata zia! Niente... vaneggiavo! Come mai in piedi così di buon' ora?” ribattè il nipote, sorridendo allegramente.
Mrs. Clayton fece un gesto vago e alzò le spalle, “Il letto non fa per me!... A proposito, Robert... credo che sarebbe proprio il caso di organizzare un' altra festa in tuo onore... e naturalmente, i signori Pomelli saranno tra gli invitati!” esclamò la anziana signora, facendogli l' occhiolino; Robert non poté fare a meno di arrossire, pensando alla sua adorata Ginevra, e per un attimo, parve rasserenarsi.

Era inequivocabilmente inverno. A Ginevra non piaceva, ma ogni anno, l' estate doveva cedere il passo al freddo, e lei non poteva fare niente per impedirlo. Le giornate si erano molto accorciate e alle cinque faceva già buio. La testa le doleva molto, ma era domenica, e bisognava andare in chiesa. Quella mattina era stata male, per ciò non aveva potuto assistere alla funzione religiosa. Da qualche tempo, faceva sogni strani, allucinati. Erano sogni che la inquietavano profondamente, non le piacevano.
Un sospiro le sfuggì dalle labbra. Non c' era niente da fare... bisognava alzarsi e vestirsi in modo consono. Indossò quindi un vestito di seta bianco e un soprabito di velluto color panna, si gettò sulle spalle uno scialle di lana marrone e fu pronta per uscire.

La chiesa era gremita, Ginevra si sedette sulla panca di legno dorato, destinata ad accogliere la sua famiglia.
La funzione era ormai a metà, quando entrò William. La ragazza si sentì invadere dalla gioia, come se non avesse potuto mai più essere infelice, per nessun motivo. Lui si sedette davanti a lei, e passando, le sfiorò un braccio. Il prete si era fermato, il pane sospeso a mezz' aria, gli occhi fissi su William, che sfoggiava un' espressione di sincero pentimento “Scusate....” bisbigliò quindi, abbassando gli occhi.
Per un istante, lo sguardo di Ginevra incrociò quello del prete, allora anche William, sorpreso da quel silenzio prolungato, alzò gli occhi. Il prete assunse un' aria imbarazzata, quindi si accinse a riprendere la cerimonia, da dove l' ingresso del giovane l' aveva interrotta. Cominciò quindi a scendere dall' altare, per distribuire
il pane tra la folla, quando ad un tratto inciampò nel tappeto che decorava il pavimento della chiesa, il piatto con il pane spezzato gli sfuggì di mano e andò a rovesciarsi per terra. Un mormorio concitato si alzò dalle panche e William poté vedere distintamente il giovane Robert Clayton impallidire, mentre guardava verso di loro.

Al ricevimento di Mrs. Clayton era stata invitata mezza Londra, come sempre. Del resto la anziana donna era molto popolare e tutti erano curiosi di conoscere il suo giovane nipote. Robert però non riusciva a divertirsi, ovunque guardasse, vedeva quel bellissimo ragazzo coi ricci scuri e la pelle bianca in compagnia di Ginevra, lei non lo lasciava un minuto e la cosa lo preoccupava non poco. William, dal canto suo, cercava di non far caso allo sguardo di Robert, che restava fisso su di lui, ma non avrebbe saputo dire se ci fosse una autentica minaccia in quegli occhi, e francamente, si era stancato di preoccuparsene. Comunque, l' intera faccenda gli appariva alquanto fastidiosa.
Ginevra era incantevole come al solito, avvolta in una nuvola di broccato rosa acceso, ma la sua espressione era stanca e sofferente. “Non ti stai divertendo?” le chiese William, con un lieve sorriso. “Si... solo... ho un leggero male al capo...” rispose lei. A queste parole, William assunse un' espressione divertita, ma fu solo questione di un attimo, e Ginevra pensò di averla immaginata. Poi lui le passò l' indice sulla fronte, come per sistemarle un ricciolo ribelle “Vieni, usciamo nel cortile, hai bisogno di prendere un po' d' aria”. Passeggiarono tranquillamente per alcuni minuti, e quando fecero ritorno nella grande sala, il male alla testa le era completamente passato.
Robert aveva temuto di impazzire, quando aveva visto i due giovani allontanarsi insieme, e fu tentato correre loro dietro, per scongiurare il peggio... come può una persona essere tanto ingenua? Si chiedeva. Adesso che ci faceva caso, capì che gli indizi erano sempre stati lì, sotto i suoi occhi. Non era stato certo per una sua mancanza, se non era stato in grado di vederli prima, è risaputo che simili creature sono molto brave a dissimulare... e quel ragazzo... così bello da sembrare un angelo! Robert scosse la testa, sconsolato. Non sapeva davvero come agire, ma di una cosa era sicuro, non poteva farcela da solo.
“Tutto bene, Robert?” gli chiese la zia, guardandolo preoccupata. “Sì, ma... bisogna fare attenzione, cara zia”, disse, puntando gli occhi su William, che sostenne il suo sguardo, increspando leggermente le labbra. Robert arrossì violentemente e distolse lo sguardo, come se si vergognasse di essere stato tanto impudente.
Il pastore Collins ascoltò la storia, senza fiatare. Robert si abbandonò contro lo schienale della poltrona, passandosi una mano tra i folti capelli rossi. “Riuscite a capire il mio problema?” sospirò. “Certo, comprendo perfettamente ed è un orrore che simili oscenità vaghino indisturbate tra di noi. Ho sempre avuto l' impressione che ci fosse qualcosa di innaturale, nell' accanimento con cui oggi si nega il soprannaturale. Sono convinto che l' intelligenza umana dovrebbe invece essere volta alla comprensione della realtà, in tutte le sue manifestazioni. Non temete. Io vi aiuterò.”

Mentre la conversazione tra Robert e il pastore aveva luogo, Ginevra si trovava nel giardino della casa di William. Era perplessa, non riusciva a trovarlo da nessuna parte e sentiva di doverlo vedere. Era come se una forza sconosciuta si stesse lentamente impossessando della sua mente e della sua volontà e non le permetteva di pensare in modo lucido.
Le sembrava di non riuscire a ricordare niente di lui, non la sua voce, non il suo viso né la sua dolcezza quando si rivolgeva a lei.
Dovette aspettare molte ore, accoccolata sul bordo della fontanella. Era ormai sera quando sentì le mani gentili di William che la scuotevano.
“Ginevra! Cosa fai qui?”
“Ti cercavo...” William si accigliò, “non devi farlo, lo sai. Non puoi venire qui, se non ti ho invitata io.”
“Perdonami, ti prego... perdonami!” supplicò Ginevra piangendo.
“Ti avevo chiesto una cosa. Una sola, Ginevra. Devi ubbidire a me, non fare quello che vuoi tu.” disse William, implacabile. “Sì... lo so... non farò mai più niente, se non avrò prima avuto il tuo consenso! Hai la mia parola, sai che io non posso mentirti!”. Improvvisamente, tutta la rabbia scomparve dal viso di William, il giovane sorrise in modo benevolo, “Va bene, non ha importanza, ma d' ora in poi, rispetta il mio volere”
“Sì, mio signore” rispose Ginevra a bassa voce.

William non aveva più pensato al giovane Clayton, fino a che non se lo trovò davanti.
Robert stava nel mezzo del sentiero, là dove la città si perdeva nella brughiera. Anche in quel momento, William non poté fare a meno di ammirarne la fresca bellezza, accentuata dai lineamenti gentili, ora però induriti dall' ira e dalla tensione.
Il giovane stava a braccia conserte, le gambe allargate, ben piantato a terra e aveva una luce minacciosa negli occhi. La stessa luce, pensò William, che avevano i fanatici religiosi.
Robert non era solo. Circondato da un folto gruppo di uomini, chiaramente popolani, di umili origini e vestiti poveramente. Avevano un' aria minacciosa, e brandivano crocefissi, forconi e torce, che illuminavano la notte coi loro bagliori sanguigni.
Robert fece un passo avanti, fissando il suo sguardo in quello di William.
“Signore...” esordì. L' altro giovane sbarrò gli occhi. Non poteva credere a un simile affronto. Come osava quel dannato damerino bloccargli il passaggio? Tuttavia, era in inferiorità numerica, così si costrinse a sorridere con aria innocente.
“Cosa vi turba, signore?” chiese garbatamente. A quelle parole Robert aprì la bocca, ma la richiuse immediatamente, mentre il suo sguardo si incupiva.
“Mi dispiace dovervi arrecare un simile disturbo... “ continuò quindi.
William aggrottò le sopracciglia, c' era qualcosa di profondamente sbagliato, nel modo in cui l' altro giovane lo guardava.
In un attimo, tutto gli fu chiaro. I vari pezzi si unirono, lasciandogli capire la verità. Non era lui che volevano. Realizzò con stupore, guardando Ginevra accanto a sé, bianca in viso.
“Non lascerai che la strega viva” aggiunse cupamente l' uomo accanto a Clayton, facendosi il segno della croce.


Ginevra si appiattì contro la parete della cella angusta nella quale l' avevano chiusa. Non poteva credere che stesse succedendo proprio a lei.
Strega, l' avevano chiamata. Puttana del demonio.
Le avevano tagliato i capelli, per mortificare la sua vanità, e il bel viso era gonfio e pieno di lividi.
Una guardia venne a percuotere le sbarre della sua cella.
“Avete una visita...” disse l' uomo, non osando alzare lo sguardo su di lei. Era stato avvertito della bellezza della fanciulla e non poteva fare a meno di chiedersi come Dio potesse aver permesso che una simile mostruosità apparisse con un' aspetto così aggraziato e dolce. Persino ora, provata dalle percosse e dalle privazioni, Ginevra era bellissima.
La ragazza sussultò, quando vide William. Il giovane le sorrise gentilmente e lei sentì il cuore tremarle d' amore e d' angoscia.
“Che ne sarà di me...?” sussurrò debolmente, tendendo le fragili dita attraverso le sbarre d ferro, per sfiorare quel volto tanto amato.
“Non lo so, Gineva” le rispose William, ma non riuscì a guardarla negli occhi. Con un sospiro, il giovane la baciò sulle labbra tremanti, dolcemente, come si bacia una rosa.
Quindi se ne andò, senza più voltarsi indietro. Ginevra lo chiamò, implorandolo disperatamente di restare, ma il giovane non fece cenno di avere sentito, anche se la fanciulla avrebbe giurato di aver visto una lacrima solitaria scendere sulla sua guancia d' alabastro, mentre si allontanava in silenzio.
Ginevra fece il viaggio come in trance, ma si riscosse, quando il carretto sul quale
l' avevano costretta a salire si fermò.
Pallida, ma eretta e fiera, la fanciulla camminava verso il centro della Piazza Capitale, incurante degli orribili insulti che le piovevano addosso da ogni parte.
Ebbe un cedimento, al momento di salire sulla pira di sterpaglia e legno che era stata approntata per lei, ma fu prontamente sorretta, e un violento colpo al viso la costrinse a tornare in sé, strappandola a qualsiasi benedetto oblio che potesse concederle anche solo un istante di pace.
Venne legata al palo, sulla cima della pira. Le corde le segavano i polsi delicati, e le escoriazioni che aveva sul viso bruciavano quasi in modo intollerabile.
Un uomo si avvicinò solennemente, portando una torcia accesa.
Il legno e gli sterpi presero subito fuoco. Tra le lacrime, Ginevra alzò lo sguardo sulla folla vociante, alla disperata ricerca di un viso amico, di un sorriso, ma non vide altro che uomini infuriati, con le forche strette nei pugni, e bambini con gli occhi spalancati per il terrore e l' aspettativa.
Improvvisamente, però, la ragazza si immobilizzò, attonita. C' era un giovane uomo, appena scostato dalla folla. Aveva il cappuccio calato sul viso, e la testa bassa.
Sentendosi lo sguardo della condannata addosso, William alzò gli occhi su di lei, proprio in quel momento, le fiamme cominciarono a bruciare le vesti della giovane. William strinse le labbra, disgustato dall' odore di stoffa bruciata, al quale presto se ne sarebbe aggiunto un' altro di gran lunga peggiore. Avrebbe voluto andarsene, ma si costrinse a rimanere dov' era, conscio del fatto che in ogni caso, non avrebbe potuto sfuggire all' orrore del momento, perché quell' odore nauseabondo e le orribili grida della fanciulla lo avrebbero seguito ovunque fosse andato. Non c'era scampo, non c' era possibilità di sfuggire all' orrore che lui stesso aveva generato.
Ginevra era, suo malgrado, diventata una vittima sacrificale alla malvagità stessa, della quale lui stesso era prigioniero e padrone.
A un certo punto però, non ce la fece più. Tirandosi il cappuccio ancora più giù, fino a nascondere il suo viso, volse le spalle alla scena raccapricciante e si diresse verso la periferia della città, strizzando gli occhi per le lacrime e il fumo puzzolente, senza riuscire a escludere quei suoni orrendi dal suo udito, mentre le grida di Ginevra riempivano l' aria, trasformandosi lentamente in rantoli strozzati.
Poi solo il silenzio riempì la notte. Ma quella quiete era tanto più angosciosa e assordante di tutti i suoni che l' avevano preceduta, e il giovane si ritrovò rannicchiato contro il portone di legno della chiesa. Col respiro affannoso, tremando, ma certo non per il freddo.
Robert Clayton lo vide da lontano e gli si spezzò il cuore, alla vista di tanta bellezza distorta da una tale sofferenza.
Gli si avvicinò, con l' intenzione di consolarlo. Non gli sembrava corretto che il ragazzo dovesse soffrire tanto. Aveva già pagato, per avere ceduto alle lusinghe del Malvagio.
William lo sentì avvicinarsi. In quel momento voleva restare solo, solo con la sua colpa, che avrebbe certo pagato. E sarebbe stato divertente, forse, oltre che doloroso, crogiolarsi nella consapevolezza del male che aveva commesso. Ma si sentiva mortalmente stanco, e non aveva l' energia sufficiente ad allontanare l' altro giovane. Così si lasciò avvolgere da quelle braccia confortanti, piegando il collo per appoggiare la testa sulla spalla di Robert, che lo strinse ancora di più, mentre gli passava una mano tra i capelli scuri, nel disperato tentativo di alleviare quella sofferenza.
“Voi non avete nulla da rimproverarvi” disse, quasi parlando a sé stesso, “Non potevate sapere...” aggiunse, senza però riuscire a terminare la frase, che si perse in un violento singhiozzo.
William non gli rispose, chiuse gli occhi, accasciandosi su sé stesso, mentre l' orrore lo travolgeva del tutto, sottraendogli anche le ultime forze rimaste.

 

Mi risvegliai che erano già da tempo passate le quattro. Dal principio non riuscii a capire dove mi trovassi, ma guardandomi attorno vidi Robert accoccolato sul divano, accanto al letto sul quale mani gentili mi avevano adagiato. Stava per albeggiare, e io non potevo indugiare oltre. Avevo una sete terribile. Da giorni non mi nutrivo, e il bisogno di sangue era insopportabile. Ciononostante, decisi di aspettare. Anche perché, data l' ora tarda, non avrei comunque avuto il tempo per fare le cose a dovere.
Lasciai quindi un biglietto sul comodino, per non fare preoccupare inutilmente il mio gentile ospite, e tornai alla mia casa, per gustarmi il riposo profondo e misericordiosamente senza sogni che l' alba portava con sé. Al resto, avrei pensato l' indomani.

Adesso vi chiederete come mai non avessi capito prima di non essere io l' obiettivo di Clayton, come mai non avevo pensato a leggere nella sua mente, invece di infuriarmi inutilmente? Beh, il fatto è che ero così sicuro che ce l' avesse con me, che non mi ero nemmeno preso il disturbo di farlo. Forse penserete che io sia un sempliciotto, ma a dirla tutta, non mi interessa. Quel che è fatto è fatto. La cosa certa, era che la mia rabbia avrebbe dovuto trovare uno sfogo, se non volevo esplodere.
Per questo motivo, la sera seguente uscii di casa presto, mentre ancora il cielo a ponente brillava, rosso, come a voler sottolineare l' inutile sacrificio che si era consumato, il tragico epilogo del mio amore per Ginevra.
Mi vestii come meglio potei, senza trascurare nemmeno i più piccoli particolari. Trovavo rassicurante l' atto di prendermi cura di me stesso, dopo tutto l' orrore causato e subito.
Scossi i capelli, lasciandoli sciolti lungo le spalle e sul petto, come piaceva a me e fui pronto per andare.
La vecchia signora Clayton mi accolse con premuroso affetto, mi offrì subito da bere, osservandomi coi lacrimosi occhi azzurri, tondi come quelli del nipote. Anche Robert arrivò subito, appena avvertito del mio arrivo.
Aveva l' aria stanca e il viso tirato, ma fece del suo meglio per sorridere.
Cercando di non fare troppo caso alla sete che mi tormentava, intavolai una conversazione dai toni futili, ma che venne accolta con sollievo da tutti i presenti. Troppo era ancora il dolore per ciò che era successo, e quelle persone, autentiche pioniere dell'Illuminismo, a fatica potevano accettare l' orrendo spettacolo al quale erano state costrette ad assistere la sera precedente.
Notai con piacere che il giovane Robert mi osservava con ancora più ammirazione del solito, ne fui lusingato. Sebbene io e lui ci fossimo avvicinati molto, durante i lunghi giorni in cui Ginevra era stata prigioniera, egli continuava ad arrossire violentemente, ogni volta che io gli rivolgevo la parola. Quando le nostre mani si sfiorarono accidentalmente, temetti addirittura che potesse perdere i sensi per
l' imbarazzo e l' eccitazione.
Vi prego di non giudicarmi un superficiale, è solo che ci tengo ad apparire al mio meglio e mi piace incantare la gente, guardarli pendere dalle mie labbra, adorarmi... ma questo è in realtà del tutto marginale. Come ho detto, non sono un superficiale, non penso affatto che la forma abbia maggiore importanza della sostanza, ma credo che sia comunque utile, poiché è inevitabilmente la prima cosa che salta all'occhio.
La notte passò in fretta, e in un attimo erano le due e mezzo.
La anziana padrona di casa annunciò di essere stanca, e prese congedo, ritirandosi nella sua camera da letto.
“Voi rimanete a farmi compagnia, William?” chiese Robert, muovendo il bicchiere di brandy che aveva in mano, così da creare un piccolo vortice nel liquido dorato.
“Non posso dormire, non ci riuscirei..” continuò, mentre la voce gli si spezzava sull'ultima sillaba.
“Con permesso, io preferirei tornare a casa. Scusate, sono ancora scosso, un buon sonno mi farà bene” mentii io, abbassando pudicamente lo sguardo, per dare maggiore enfasi alle mie parole.
Robert abbozzò un mezzo sorriso “Non preoccupatevi, lo spettacolo di ieri notte avrebbe sconvolto chiunque” sospirò quindi.
“Vi auguro un buon riposo”.
Accennando un lieve saluto, mi alzai per indossare il mio cappotto. Poi uscii, lasciando il mio giovane amico con lo sguardo fisso nel tappeto ai suoi piedi.
Appena fuori, respirai una grossa boccata d' aria fresca, per calmare i nervi. Dovevo essere lucido e la sete non me lo permetteva. Mi annebbiava i sensi, mentre un fastidioso senso di debolezza si diffondeva poco a poco nel mio corpo.
Aspettai qualche minuto, per essere certo di non essere troppo debole, poi rientrai di nascosto in casa, passando da una finestrella al secondo piano.
Riuscii a rompere il vetro senza fare un eccessivo rumore, quindi mi diressi con passo sicuro lungo il corridoio.
I miei pesanti stivali dalla suola di cuoio facevano un gran baccano, sul pavimento di legno, ma non me ne preoccupai, perché serviva ai miei scopi.
Come avevo previsto, Robert fu subito messo in allarme dal rumore. Sapeva che la servitù era addormentata già da molto tempo e decise di controllare. Confesso che mi stupì il suo coraggio.
Afferrò prontamente il suo fucile da caccia, avviandosi su per le scale.
Entrò senza fare rumore in tutte le stanze, ma in nessuna di esse riuscì a trovare qualcosa che potesse giustificare i suoi timori.
Stava per tornare nel salotto, convinto che fosse stato un servo, spinto da necessità fisiche a fare quei rumori.
Fu per puro scrupolo che entrò a controllare la terza camera sul lato sinistro del corridoio. Là mi trovò ad aspettarlo.
Mi guardò stupito, non capendo come io potessi essere lì quando lui mi aveva visto allontanarmi solo pochi minuti prima.
Mi abbassai lentamente, con grazia, senza mai staccare gli occhi dai suoi e per pochi minuti, io e quella gentile signora fummo un'unica entità .
Robert mi fissava incredulo, la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite per la sorpresa e l' orrore. Questi sentimenti che si agitavano nel suo animo ebbero l'effetto di paralizzarlo, mentre io concludevo tranquillamente il mio banchetto, lo sguardo sempre fisso nel suo.
Il sangue di Mrs. Clayton riempì le mie vene, mescolandosi al mio, dandomi nuovo vigore.
Quando tutto fu finito, distesi cautamente il cadavere sul letto, adagiandolo sui larghi e morbidi cuscini di piuma.
Robert non riusciva a distogliere gli occhi da me, ma lentamente il suo cervello ubriaco di brandy e dolore, capì l' orribile errore di valutazione che aveva commesso.
Gli feci un leggero sorriso, non c'era malizia nel mio gesto. Non odiavo quel ragazzo, volevo solo che capisse.
Lo lasciai là. Non sapevo che dire. non avevo niente da dire. Sapevo che avrebbe riflettuto a fondo, su quello che era successo. Del resto, chi non
l' avrebbe fatto? Ma nel suo caso, avevo la convinzione che non avrebbe permesso a sé stesso di cancellare quella storia dalla sua memoria.
Non lo poteva fare. Era un uomo del XVIII secolo in fondo. Un figlio dell'Età Moderna.
Qualche giorno dopo, ripartii per la Svezia.
Non ritenevo sicuro per me stare ancora a Londra, dopo tutto quello che era successo.
Non so cosa ne sia stato del giovane Clayton. Non volevo sapere più niente di lui, ma certo non gli auguravo niente di male, speravo che sarebbe vissuto felice, per quanto concessogli dalla sua condizione umana.
Forse un giorno tornerò nella mia città natale, solo per vedere la mia casa in rovina e forse andrò al cimitero, per mettere un mazzo di fiori sulla tomba di Mrs Caroline Clayton e su quella di mia sorella e del suo bambino.
Non volli nemmeno sapere come avrebbero giustificato la morte per fuoco di una fanciulla di una delle famiglie più un vista della città davanti alla Giustizia. Certo non la si sarebbe potuta passare sotto silenzio, la gente avrebbe voluto delle risposte, poiché erano ormai passati i giorni terribili della caccia alle streghe, ma quei ricordi sanguinosi erano ben lontani dall'essersi assopiti nella memoria di Londra.
Tutto questo non mi interessava, la storia aveva avuto il suo corso e io mi sentivo stranamente bene, come se la sofferenza e il dolore mi avessero mondato dalla noia di cui ero stato preda per anni e adesso ero pronto per cominciare una nuova esistenza, che si prospettava magnifica, nel suo maligno splendore.

Questa è la fine del racconto, non della mia esistenza. Ho voluto confessarmi alla pagina bianca, unicamente perché sentivo il bisogno di farlo. Non cerco comprensione o perdono; vi chiedo tuttavia di non giudicarmi, anche se so che lo farete comunque... e d'altronde, come potrebbe essere diversamente? Il male è sin troppo facile da giudicare.
Non aspettatevi alcuna giustificazione da me. Sono un vampiro, questo vi deve bastare... ma non ho certo la presunzione di definirmi malvagio. La Perfidia, come la Bontà, appartiene alle grandi personalità.

 

 

 

 



 

   
 
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