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Autore: Xenelle    06/07/2015    0 recensioni
[...] “Perché lo dici con quegli occhi tristi?”. Lo guardai e mi meravigliai di come quello sconosciuto sapesse capirmi solo guardandomi negli occhi. “Perché non ho più un posto dove andare, non ho più una casa.”
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Portami a casa
 
 
 
La salita, breve ma ripida, mi aveva fatto venire il fiatone: non ero più quella di una volta a cavallo della mia bicicletta nuova. La strada si interrompeva con una catena che sbarrava l’accesso ad una stradina sterrata di campagna; sulla sinistra c’era una casa e un cane abbaiò rabbioso contro di me, probabilmente perché nessuno a parte i suoi padroni arrivava fin lì, sulla destra invece c’era un muro al di là del quale si estendeva una vasta campagna piena di arbusti.         
Oltrepassai la catena e sollevai la bicicletta seguita dall’abbaiare di quel pit bull inferocito che si placò quando il sentiero, incurvandosi, mi nascose alla sua vista. Continuai a camminare per una cinquantina di metri e mi ritrovai in un piccolo spiazzo: c’erano alberi attorno a me e alcuni mattoni impilati uno sull’altro. Mi girai sulla sinistra e la vidi: era una casetta molto piccola, un po’ nascosta dalla vegetazione incolta, raggiungibile tramite una piccola scala; nella facciata principale vi era unicamente una porta in vetro con un piccolo foro all’altezza della maniglia. Misi il cavalletto e salii la piccola scalinata che conduceva all’abitazione. Fischiettai, come ero solita fare per assicurarmi che non ci fosse nessuno e una volta davanti la porta mi chinai per guardare attraverso il buco: la casa era evidentemente disabitata, intravidi un divanetto, una carriola e un materasso appoggiato in verticale su una parete. Appoggiai la mano sulla porta per provare ad aprirla, consapevole dell’inutilità di quel gesto, poi mi girai per andare via a cercare altri luoghi da esplorare. Affiancato alla casetta un muretto attirò la mia attenzione, mi avvicinai e vidi che si affacciava in un piccolo cortile divorato dall’erba selvatica. Scavalcai il muretto ed entrai nel cortiletto: vi erano vecchi mattoni sparsi qua e là, una panchina in cemento e un tavolinetto rotondo in pietra. Lo trovai incantevole, chissà perché nessuno era venuto ad abitarci. Il silenzio era rigenerante, il vento mi accarezzava i capelli e mi ristorava dalla calura estiva. Chiusi gli occhi e assaporai quel momento, non mi sentivo così da un’infinità di tempo.      
D’improvviso mi ricordai della mia bicicletta nuova lasciata là sotto senza alcuna custodia, mi voltai in direzione del muretto che mi ero lasciata alle spalle e rimasi senza fiato: l’Etna si estendeva in tutto il suo splendore davanti ai miei occhi senza che nulla ostacolasse le sue linee perfette. Ho vissuto in Sicilia per tutta la vita, ho visto l’Etna a 360° ma mai mi era capitato di avere una visione del genere. Era immensa, imponente, bellissima. Dimenticai la bici, salii sul muretto e presi il mio block notes, con due linee tracciai la meraviglia che si rispecchiava nei miei occhi, poi saltai giù, presi la bici e tornai a casa.    
Come avevano potuto lasciare disabitato un tale paradiso?
Decisi che quella casetta, quel cortile, quel muretto, quel silenzio, quel panorama sarebbero stati il rifugio per tutte le mie fughe. E così fu. 
Le mie fughe erano tanto frequenti quanto fallaci, non scappavo mai davvero da casa, scappavo semplicemente da me stessa. Le mura della mia stanza mi opprimevano, mi sentivo soffocare in mezzo a tutti gli errori della mia vita. Avevo buttato via tutte le certezze, tutte le cose sicure, tutte le persone che mi amavano per l’ignoto; non riuscivo a tenere nulla nella mia vita, non riuscivo a tenermi stretto nessuno e ne pagavo le conseguenze. La solitudine era allo stesso tempo la più dura e la più bella delle conseguenze.   
Ripulii il cortiletto di tutte le erbacce e di tutta la polvere e le pietre, mi ci vollero nove mesi: una gravidanza praticamente. Il cortiletto che avevo “partorito” era una delle cose più belle che avessi mai sistemato: passavo intere mattine a prendere il sole sulla panchina in cemento ascoltando i Pink Floyd o il cinguettio degli uccellini e interi pomeriggi a studiare su quel tavolinetto circolare, seduta su uno sgabellino che avevo preso da un mucchio di roba che era costipata nel retro della casa, rischiando di rompermi l’osso del collo. Quando avevo del tempo libero disegnavo piccoli dettagli di quel luogo che ormai sentivo essere la mia casa, sebbene dentro la casa non ci fossi mai entrata veramente. Salivo la bicicletta su per le scale e la posavo davanti l’uscio, poi saltavo sul muretto a prendere il fresco, a guardare la Montagna, a rilassarmi. A volte salivo sul tetto per avere una visione a 360° e sentirmi padrona di quello che mi circondava, sempre con una buona dose di adrenalina in corpo, soprattutto quando dovevo scendere giù.     
Passò l’estate e passò l’inverno, poi passarono altre due estati e altri due inverni.
All’inizio speravo nessuno si facesse mai vivo per poter godere di quel luogo per sempre, poi un’idea mi balenò in testa: avrei potuto comprarla! Come avrei potuto farlo? A chi avrei dovuto chiedere? In quegli anni avevo fantasticato tantissimo sui vecchi proprietari della casa, la versione che mi piaceva di più era quella di un vecchietto che si alzava tutte le mattine a curare il cortile e l’orto sottostante, immaginavo avesse delle galline le cui uova erano prese con cura da sua moglie e regalate ai nipotini. Lo immaginavo seduto sullo stesso tavolino dove io studiavo, a leggere il giornale o a fare un solitario con le carte siciliane. Lo immaginavo fischiettare e canticchiare, proprio come mio nonno. Lo immaginai talmente bene che provai dispiacere per non averlo mai conosciuto, non aver mai sentito la storia di quando era partito per la guerra, non aver mai accarezzato le sue mani rugose.   
Una sera d’Agosto mi sentivo particolarmente malinconica e decisi di avviarmi verso la mia casa. Arrivai che il Sole era già tramontato, posai la bici e mi sedetti sul muretto. Appoggiai la testa al muro, chiusi gli occhi e respirai quel meraviglioso profumo di.. pioggia! Aprii gli occhi e vidi una nuvola nera sopra la mia testa, non ebbi il tempo di fare alcun movimento che un acquazzone mi investì con tutta la sua forza. Rimasi immobile, ormai non aveva senso affrettarsi, in qualche minuto mi ritrovai zuppa fino alle ossa. Appoggiai di nuovo la testa e assaporai ogni goccia che colpiva il mio viso, cominciai a piangere silenziosamente.   
Una voce all’improvviso mi fece balzare, quasi cadetti dal muretto per lo spavento. Mi voltai e vidi un uomo sulle scale, protetto da un ombrello, che mi fissava con uno sguardo torvo.
“Che diavolo sta facendo?” tuonò.  
Ero in preda al panico, erano più di tre anni che andavo lì e non avevo mai visto l’ombra di un uomo. Avevo addirittura smesso di fischiettare al mio arrivo.       
“Salve..” riuscii solo a dire.   
“Salve, mi potrebbe dire chi è lei e cosa sta facendo seduta sul muretto di casa mia sotto la pioggia?” aveva cominciato seriamente ma alla fine della frase un sorriso appena accennato lo tradì.
Sorrisi, scesi dal muretto e mi presentai:      
“Piacere, mi chiamo Vittoria. Mi scusi, non volevo invadere i suoi spazi. Tanti anni fa stavo facendo dei giri con la bici in zona e ho scoperto questo posto, così iniziai a venire qui perché è isolato e c’è silenzio e..” man mano che parlavo mi rendevo conto dell’assurdità della situazione e dell’assurdità delle mie spiegazioni, quindi cominciai ad arrancare e lui mi venne incontro interrompendomi: “Lasciando perdere i motivi che l’hanno spinta a passare il suo tempo qui, è davvero necessario farlo mentre piove?” e mi regalò un sorriso, un vero sorriso, uno dei sorrisi più belli che avessi mai visto. Arrossii e risposi che il temporale mi aveva colto alla sprovvista.
Prese un mazzo di chiavi e mi invitò ad entrare, si scusò per essere stato brusco all’inizio ma temeva che fossi una di quelle persone che non hanno dove vivere e si appropriano delle case altrui.
“Non credo che mi avrebbe trovata fuori sul muretto mentre pioveva se mi fossi appropriata di casa sua.” gli dissi.           
“Non credo che una ragazza come lei possa fare una cosa del genere, avrei dovuto guardarla bene prima di saltare a conclusioni affrettate.”         
Quella frase tanto innocente ebbe la capacità di farmi arrossire, lui se ne accorse e disse per allentare la tensione: “Comunque avrò solo qualche anno in più di te, perché non ci diamo del tu?”.
Acconsentii con un sorriso.   
Gli raccontai per bene la mia storia, ciò che mi spingeva ad andare lì, il tempo che ho impiegato a sistemare il cortile e lo ringraziai per essere stato comprensivo. Mi rispose che avrebbe dovuto solo ringraziarmi per aver sistemato quel cortile ormai in pessime condizioni e che la mia sensibilità lo colpiva.
Sensibile, io?  
Era la prima volta che qualcuno me lo diceva, mi avevano detto tante cose nella vita e tutte erano molto lontane dall’essere sensibile.  
Restammo tutta la notte a parlare, gli dissi la mia teoria sul vecchietto, la moglie e le uova, scoppiò in una grande risata e mi raccontò la storia di suo nonno: non era poi così lontana dalla mia versione. Mi spiegò che i suoi genitori si erano trasferiti al nord e che da quando i suoi nonni erano morti nessuno più andava in quella casa, lui però vi era molto affezionato e finalmente si era deciso di tornare a vedere in che condizioni era: voleva sistemarla e farla diventare una casetta per le vacanze estive. 
Gli dissi che era un’idea bellissima ma nel mio sguardo doveva aver letto una leggera delusione perché mi disse subito: “Perché lo dici con quegli occhi tristi?”. Lo guardai e mi meravigliai di come quello sconosciuto sapesse capirmi solo guardandomi negli occhi. “Perché non ho più un posto dove andare, non ho più una casa.”
Mi guardò, prima un po’ perplesso, poi sembrò capire. Rimase in silenzio qualche minuto, assorto in pensieri che non riuscivo a decifrare.   
“Puoi venire qui quando vuoi.” disse semplicemente infine.           
“Ti ringrazio, è molto gentile da parte tua. Magari ne approfitterò durante l’inverno e mi sdebiterò tenendo in ordine il cortile.” risposi, sinceramente grata.          
“Perché soltanto in inverno? Sarebbe bello trovarti qui, in estate, sotto un temporale.” disse accarezzandomi una mano. 
 
E fu veramente bello ritrovarci tutte le estati in quella che restò per sempre la mia casa.

 
   
 
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