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Autore: vinnieblue    07/07/2015    2 recensioni
Dice di essere innamorato - ma non devo fraintendere, non in quel senso, mi spiega. Dice che è come quando guardi un bel quadro e non puoi fare altrimenti che continuare a fissarlo, e anche quando te ne andrai a passi lenti, non potrai resistere dalla voglia di voltarti un'ultima volta per un ultimo sguardo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Dammi Settembre.

Prendi me, offerta da non perdere insieme ai miei muscoli magri, la mia anima pesante, la mia schiena spezzata dallo splendore del dolore. I miei passi rapidi tracce dell'assassinio di me stesso.

Continua, non mettere in pausa.

Non ancora.

Adesso abbandonami al Giardino di Via Biblioteca.

Le mie gambe intrecciate, adagiato sulla panchina di roccia circolare che trattiene steli piegati dal peso del vento.

L'agenda è aperta.

Le mie dita stringono una penna ad inchiostro nero, punta fine.

Scivola sulla carta come dita sulla pelle di un amante.

È cannibalismo dell'alfabeto, un olocausto di virgole riempie i fogli.

Dammi il tramonto.

Proiettami di rosso, come rose depredate d'amore perduto.

Dammi una luna appena sbiadita, appena picchiata dal sole. Violenza domestico-celestiale.

Puntami i tuoi occhi-telecamera come coltelli lungo il collo. Io non me ne accorgo. Reclino il capo, di lontano, prendo un respiro - socchiudo le ciglia.

Un uccello taglia rapido l'aria, coglie la mia attenzione.

Quando ho terminato mi alzo.

Riprendo lo zaino e lo adagio sulle spalle.

Sto per tornare a casa.

Prima di uscire mi giro intorno – con gli occhi sgranati perché voglio che ci entri tutto, tutta la vita, tutto quel mondo che non riesce ad appartenermi.

Pure te, anche se ancora non ti vedo.

I polmoni s'ingrossano d'aria e quando si svuotano tu sei rimasto ancora dentro, eppure forse non eri nemmeno un pensiero, forse nella mia testa eri solo un germe, il principio di un virus.

È un rumore percettibile quanto quello di un bacio.

Qualcuno mi sfiora la spalla, dice "scusa, ti è caduto questo", mi porge la mia agenda. Io mi schianto contro i suoi occhi ad alta velocità in autostrada e chissà dove arrivo.

Sono pieni di tramonto, i suoi occhi.

E le sue labbra piene di crepe, spaccate a morsi da un amore ormai lontano che tuttavia ha lasciato i suoi segni.

La sua pelle la noto subito, la noto dalle mani - è così bianca la sua pelle, così pura che sembra lontana da me, lontana dal tatto, ma quando la sfioro è in fiamme.

"Grazie," dico a labbra mezze chiuse.

Vorrei voltarmi ed andarmene, ma non ci riesco e lui non sembra avere  quest'intenzione.

Rimango fermo, come se stessi osservando uno squalo dietro la barriera di vetro di un acquario.

Vorrei dire qualcosa adesso, ma finirei per balbettare - la mia bocca trema.

È bello.

Vorrei dirglielo.

"Ti ho visto scrivere", mi dice.

Sorrido, ma non è abbastanza come risposta nel gioco degli umani, che richiede lo sforzo muscolare della lingua immonda.

"Sì".

La mia voce è così fragile, si sente quando sto per spezzarmi in mille pezzi.

Spero che lui lo capisca.

La mia voce che diventa così acuta.

"Ti disturbo?"

"No, per nulla."

"Devi per caso andare subito?"

"No, posso restare."

"Posso avere l'onore di fare quattro chiacchiere?"

 

Dammi il bistrot della Feltrinelli.

Lui seduto di fronte a me.

I suoi capelli cannella e noce moscata, i suoi occhi miele e tramonto, la sua bocca notte, la sua pelle antartide.

"Non ti ho detto il mio nome!", mi dice.

"E io non ti ho detto il mio!", rispondo.

"Elia, comunque."

"Vincenzo."

Posa le nocche sotto il mento come a sostenersi mentre scivola goffamente sul tavolino.

"Piacere."

"Piacere mio", rispondo.

Lui sorride, gli angoli delle sue labbra s'incurvano così tanto da ricordarmi quel terrore che può provocare solo la bellezza.

"No, il piacere è solo mio."

Inarco le sopracciglia.

"Non capisco."

"Ti ho fermato io, no?"

"Però io ho accettato di venire con te."

"Questo è vero."

Parliamo tanto, comunque, un'ora trascorre in fretta e muore con lo sbocciare di stelle premature in cielo. Parliamo così tanto che non ho quasi più paura di spezzarmi in mille pezzi. Non ho più paura di essere vetro, ma sono felice di essere carne e sangue e di potermi fare bene così tanto da sfiorare una sorta di male che sembra un premio di vita, una contrazione muscolare di felicità al cuore, o forse è solo stupore infinito nei confronti

dell'universo per aver creato gli angeli, o forse ammirazione verso Dio per averli creati così belli.

La sua lingua si muove sulle sue labbra ed è come rugiada sui fiori, che inumidisce quei suoi petali posati sul suo volto. E devo ammettere che ho come

paura a respirare troppo forte perché potrebbero volare via.

Gli chiedo spiegazioni - dice che non è la prima volta che mi nota.

Dice di vedermi spesso seduto lì, con le gambe incrociate, dice, con l'agenda aperta, mordicchiando il tappo della penna, socchiudendo gli occhi, riaprendoli di scatto, guardando lontano oltre il cielo.

Dice proprio così.

Dice che vuole sapere cosa scrivo.

Gli chiedo perché, è tutto così strano.

Dice di essere innamorato - ma non devo fraintendere, non in quel senso, mi spiega. Dice che è come quando guardi un bel quadro e non puoi fare altrimenti che continuare a fissarlo, e anche quando te ne andrai a passi lenti, non potrai resistere dalla voglia di voltarti un'ultima volta per un ultimo sguardo.

Gli rispondo che i quadri non parlano.

Lui mi dice che fortuntamente non sono un quadro.

È magnifico, continua.

"Vorrei leggere qualcosa di tuo, potrei mai?"

Nei miei occhi c'è il mare di notte quand'è agitato.

"Sì."

"Quando?"

"Anche ora, se vuoi."

"Va bene".

Prendo l'agenda e la apro, cerco una poesia che ho scritto chissà per quale ragazzo dal volto così remoto che vedo quell'amore fatuo già voltato nella mia mente e credo che Elia sia arrossito.

Fose non è solo un'impressione.

"Vorrei fosse per me."

"Addirittura."

"Sono fin troppo intraprendente?"

"Non è un difetto."

Quanti sorrisi hanno gli angeli per i nostri volti.

Quanto è grande il cielo affinché possiamo condividerlo tutti.

Quant'è bello lui.

Quando andiamo alla cassa lui mi precede, esce una banconota e paga per tutt'e due.

Io mostro il mio dissenso. Insisto per restituirgli i soldi. Solleva un dito e lo posa sul mio naso. E sorrido.

Sorrido anche io.

"Lasciami fare."

Quando ritorniamo tra le ossa della città le parole continuano a muoversi tra noi come organismi viventi, crescono in fretta e le vedi già correre via e poi tornare indietro in lacrime come figli.

Le parole, tra noi.

L'alfabeto tra noi, così vivo che io in confronto mi sento sottoterra.

D'improvviso gli dico che devo andare, devo proprio.

Ormai è tardi.

Sembra dispiaciuto.

Io mi volto.

Gli regalo la mia schiena mentre mi allontano da lui, anni luce distante in una via stretta, una vena vuota di questa città.

Poi mi volto, non so perché. Ricordo quella storia del quadro.

È là, mi sta guardando.

Si avvicina.

Io resto fermo.

Dice qualcosa.

"Giuro che non ne ho il coraggio."

Poi mi bacia.

   
 
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