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Autore: Feynman    07/07/2015    6 recensioni
Lei non era niente di speciale, in realtà. Molti l’avrebbero definita intelligente, particolare, eclettica ma non era niente di tutto questo. Ripeteva che io ero la sola a poter ammettere di conoscerla, ma si sarebbe rivelata solo una delle tante bugie che era solita raccontarmi – che ci raccontavamo.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
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Lei non era niente di speciale, in realtà. Molti l’avrebbero definita intelligente, particolare, eclettica ma non era niente di tutto questo. Ripeteva che io ero la sola a poter ammettere di conoscerla, ma si sarebbe rivelata solo una delle tante bugie che era solita raccontarmi – che ci raccontavamo.
Chi scrive conosce la realtà e mente meglio di chiunque altro, proprio perché la realtà sa leggerla. Lei la interpretava a modo suo e poi me la raccontava, senza rimorsi.
Ho lasciato da parte molti, per lei. Ho lasciato da parte me stessa, per lei. Ho messo in secondo piano un intero mondo, un’intera realtà che mi reclamava: l’ho fatto coscientemente, lo ammetto; come ammetto di odiarmi un po’ di più, ogni giorno che finisce.
Lei non era la donna della mia vita.
Lei non era la mia vita.
Lei non era viva.
Uno di quei quadri dalle tinte confuse e opache. La vista su una strada da un vetro appannato e rigato di gocce di pioggia. Una fotografia sgranata di inizio secolo.
Non capirò mai come abbiamo pensato che la nostra storia sarebbe potuta durare, nel tempo. La lontananza ci aiutò, i primi due anni: lei era in Francia a studiare qualcosa che aveva a che fare con la pittura, io qui a portare avanti una vita che iniziava a farmi seriamente schifo, anche se era appena iniziata. Tutto andava bene, finché non le dissi di amarla senza esserne sicura; uccisi entrambe in un giorno d’estate che non aveva tinte opache e vetri rigati di pioggia. Volevo trovare un solo motivo per odiarla, per lasciarla definitivamente, per allontanarla dalla mia complicata vita del cazzo e per uscire dalla sua malattia del morire vivendo.
«Latta o trapezio?».
Latta, le risposi, senza darle una spiegazione. Non mi stavo attenendo al gioco. Stavo cambiando le regole che io stessa avevo posto, tre anni prima.
«Perché?».
«Le cose preconfezionate, a lunga conservazione, mi ricordano la latta», le dissi ciccando a terra una sigaretta che non stavo fumando sul serio. «Noi sappiamo di latta». Lei credeva che io l’amassi ancora perché era tornata da me. Credeva che trovassi emozionanti i nostri incontri a luce spenta mentre io continuavo a odiare la sua dannata pudicizia nei miei confronti – sapevo che si era fatta scopare a luce accesa e con gli occhi aperti, come una puttana.
Mi aveva costretto a vedere un film, quando eravamo solo amiche: Julia Roberts faceva la puttana e non baciava; lei amava baciarmi, invece, e spogliarmi e farmi stendere su un letto ancora sfatto mentre la pioggia picchiava sul tetto della veranda e il mondo diventava l’opaco paesaggio di una sua tela, una di quelle senza senso e dai colori pallidi.
«Colore o imbuto?».
«Questo gioco non ha più senso». Non eravamo più una sua tela. Non eravamo più Gli Amanti di Schiele. Eravamo un quadro di Soutine: un bue squartato, un piatto di disgustosi pesci che si stanno decomponendo e puzzano. Puzzano di latta.
«Colore o imbuto. Me lo devi».
«Non ti devo un cazzo».
«Mi hai appena lasciata! Voglio una risposta».
Erano un ventaglio d’oro, i suoi capelli. S’infrangevano contro la mia spalla e sopra il cuscino blu mare, quelli che avevamo comprato a Gallipoli.
«Direi imbuto» sorrisi, scacciando il ricordo dell’odore di salsedine e dal sapore di sudore della sua pelle.
«Devi motivare la risposta: le regole le hai imposte tu» mi ordinò, bloccandomi con la mano sinistra sulla mia coscia nuda. Aveva i seni piccoli, ventre piatto e una corona di peli chiarissimi attorno all’ombelico.
Il letto odora ancora di noi – ci sono stata la settimana scorsa, nella casa al mare – e nella stanza sono intrappolati ancora i suoi sospiri. La sua prima volta fu dolorosa, mi confidò rilasciando il fumo tra le labbra. La mia prima volta con lei fu solo paura. C’era solo la sua pelle fredda, il suo pube argentato ai raggi della luna, le sue gambe da ginnasta in vacanza, strette attorno al mio bacino e le sue dita rigide sulle mie spalle. Io avevo solo l’esperienza da collezionista.
Nonostante l’avessi fatta piangere per l’orgasmo che ebbe, la nostra farsa dell’amicizia la fece durare un anno. Il suo ragazzo era un cazzo moscio e le mie dita non avevano bisogno di pause – era solo una fottuta vergine emotiva.
«Imbuto perché non abbiamo più colore. Soddisfatta?» le avevo chiesto, cattiva, togliendo la sua mano dalla mia coscia e allontanandomi dal suo odore di sesso e piacere.
«Tu non puoi lasciarmi. Non così».
«E come dovrei lasciarti? Come ha fatto lui? Con un messaggio striminzito e un ti amo che puzza di fogna?».
«Tu l’hai convinto a lasciarmi! Io non ho nessuno, se tu te ne vai…».
«Io non ho convinto nessuno. Ti fai scopare da una donna e pretendi di avere ancora un principe azzurro?».
«Noi dovevamo essere solo amiche» l’aveva sussurrato, a me aveva fatto male, a lei avevo fatto del male. Era solo un ultimo tentativo da passivo-aggressiva del cazzo. Cercava di far venire fuori il mio rimorso, il mio senso di colpa con la sua pigolante voce da vergine emotiva. Io l’amavo perché aveva bisogno di me, ma chi si sarebbe preso cura di me? Lei non sentiva nemmeno il nostro retrogusto di metallo. Lei non sentiva nulla, se non le sue bugie di zucchero e vino.
Le avevo amate anche io, quelle bugie. Me le facevo scorrere sulla lingua, le assaporavo con i denti e lasciavo che mi solleticassero il palato, facendomi arricciare il naso e causandomi uno scoppio di leggere risa, per il solletico.
Amava vedermi così, lei: senza difese.
In sua presenza ero completamente abbandonata a me stessa e alle sue dolci fantasie da sognatrice a ore. Le piaceva raccontarmi i sogni che, durante la notte, le tenevano la mente impegnata: io e lei a Gallipoli, di nuovo, nell’estate in cui ci conoscemmo e scoprimmo di essere sempre quelle di una volta, quelle delle elementari.
Ho fatto l’errore che una lesbica non dovrebbe mai commettere: innamorarsi di una ragazza etero e curiosa. Quella sera, al locale sulla spiaggia, avrà pensato a come dovesse essere lasciarsela leccare da una ragazza, scorrere le dita su un corpo morbido e trovare un’altra insenatura, fra le gambe, e non un pene eretto e pronto a violare l’ennesima barriera.
Ci fu solo pelle, sudore e sospiri, quella notte e lei lo adorò.
È sempre stata così vocale, la mia ginnasta in vacanza.
«Le amiche non se la leccano, Marina».
«Quelle che conosci tu sì, però» sibilò, alzandosi dal letto sfatto e coprendosi con il lenzuolo, lasciandomi completamente nuda.
«Non abbassarti a tanto. Non te lo meriti».
Anche se le davo le spalle, avevo sentito le sue dita stringersi a pugno, attorno a un lembo del lenzuolo mentre afferrava le mutandine cadute a terra. Era stata una scopata di pietà – me l’aveva consigliato Monica, di scoparmela un’ultima volta e di farla godere come non mai; in questo modo non mi avrebbe più dimenticata, anche mentre si faceva fottere da qualche uomo senza faccia, le sarei venuta in mente io, con il viso fra le sue gambe aperte.
«Non puoi davvero lasciarmi».
«E perché no, scusa?». La mia voce esce dalla gola più sarcastica di quanto non mi aspettassi e mi dissi che era stata colpa sua, di Marina, e della sua nota disperata nella voce. Ero sempre io quella che non faceva le cose sul serio, quella che ci stava scherzando sopra, quella che non era davvero incazzata perché c’era ricascata con quel senza-palle del suo ex.
«Perché tu mi ami!».
«Sì, Marina. È vero».
Lei si avvicinò, con il sudario biondo che le cadeva sulle spalle. Si lasciò cadere dietro il lenzuolo e i capelli le coprirono anche il seno perfetto. «Hai visto? Lo sapevo che mi amavi, Red», mi disse prendendomi la mani e portandosele alle labbra.
«Io ti amo, Marina» le ripetei, «ma tu ami di più il cazzo. E io, Marina, non ce l’ho il cazzo».
Marina spalancò gli occhi. Aveva ancora le mie dita fra le sue e aveva appena lasciato un leggero bacio sulle mie nocche. Mi guardò come se avessi detto la peggior bestemmia che le sue orecchie avessero ascoltato. Marina lo sapeva che avevo ragione, altrimenti non m’avrebbe guardata così.
«Cosa vuoi che ti dica?».
«Perché, hai ancora qualcosa da dire?» le chiesi, «cosa hai, ancora, nel tuo repertorio? Hai usato il mio gioco, hai usato il tuo corpo… ti manca Janis Joplin e poi avrai finito gli assi nelle maniche, Marina».
Le dava fastidio la mia calma, glielo si leggeva negli occhi. Era sempre stata lei, quella che reagiva con la calma. Lei con la sua nonchalance del cazzo, la voce bassa e le parole ben scandite; io ero quella delle scenate, degli schiaffi, dei piatti lanciati sulle pareti e delle scenate di gelosia. Poi ero quella del sesso passionale; lasciavo che i suoi gemiti mi riempissero il cervello e cicatrizzassero le ferite.
«Cosa vuoi, Red?».
«Devi andartene, Marina».
«Era solo una scopata!».
«Ti stavi lasciando fottere, Marina! Dal dentista, te ne rendi conto? Tu volevi essere scoperta, cazzo! Sei andata a farti fottere nello studio dove lavora Monica, porca puttana!».
Mi alzai dal letto. Corro lontana da lei e dalla sua soffocante presenza, dal suo odore avvolgente. Quella cosa doveva finire. Doveva finire quel giorno. Non ne avrei sopportato un altro, in quella maniera. Mi sembra ancora di sentirla, la voce di Monica che mi dice come l’ha trovata, con le gambe aperte e coperta per tre quarti dal camice del collega. Il dottore che sibilava – sibilava! – e lei che faceva finta e gli diceva che stava venendo e che era così duro e così… sembrava un film porno scadente.
«Ti ho già detto che mi dispiace».
«Ti dispiace? Ti dispiace?! Ma ti rendo conto di quanto sia stupido, tutto questo?».
«Se ti dico di sì, cosa succederà?».
Ho sospirato. «Succederà che te ne andrai comunque, Marina».
Ha abbassato lo sguardo. Ha iniziato a torcersi le mani. Ha tentato di dire qualcosa, ma ha chiuso la bocca quasi subito.
«Adesso, Marina».
«Noi ce lo abbiamo un colore, Serena».
«Io ho un colore, Marina. Tu hai solo un cazzo». 








 


Angolo Autrice

Ero indecisa per il raiting, lo ammetto. 
Salve, comunque. Una storia per mettere pace, più o meno, al mio bisogno perenne di scrivere femslash dolorose, piene di angst e anche dalle battute prive di gusto. 
Il banner è della fantastica Skadeglaedje (hai visto, so scrivere il tuo nome *^*) e non la ringrazierò mai abbastanza, anche se dopo aver letto 'ste cose, sta un sacco male. 

E quindi niente, spero che questa storia vi piaccia! 
Un saluto, 
Feynman
   
 
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