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Autore: General_Winter    09/07/2015    1 recensioni
Avresti mai detto, Julchen, che i nostri sogni e i nostri desideri erano proprio come quella stella cadente: morti e distanti anni luce?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nyotalia, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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09/07/15 N. 1826

Ciao Julchen.

Ti ricordi, Julchen, di quando, a tredici anni, siamo andati insieme al Parco divertimenti?

Era una domenica maggio mi sembra, e il parco era talmente affollato che siamo riusciti a fare solamente poche attrazioni, passando delle ore in coda appiccicati ad altra gente che continuava a sudare quanto noi e ci siamo ritrovati in una bolgia di corpi dall’odore non proprio gradevole.
E quando riuscivamo a salire sulle montagne russe tu facevi di tutto per far credere che le tue urla fossero di gioia e non di paura, come sospettavo e in parte sapevo, e quando siamo scesi continuavo a punzecchiarti per farti ammettere che in realtà eri terrorizzata.
E poi mi hanno praticamente obbligato a fare un tiro a canestro per provare a vincere quell’enorme peluche a forma di orso. E quando l’ho vinto mi hai sgridato perché dovevamo portarci dietro quell’ingombro per tutto il resto della giornata e allora io ho sospirato e l’ho preso tra le braccia e me lo sono tenuto stretto per tutto il giorno, inveendo sottovoce ogni tanto, lanciandoti qualche occhiata truce, ma senza lamentarti troppo. Alla fine te l’ho regalato e ti ho reso veramente felice.
È ancora nella tua camera, vero?
 
Ti ricordi, Julchen, di quando, a quattordici anni, siamo andati in gita con la scuola a Berlino?
 
I tuoi occhi brillavano sempre di più ogni volta che la strada svoltava. Era la tua città natale, ma l’hai abbandonata quando ancora non potevi ricordare e capire il vero nome di ogni via, quando ancora le tue parole non avevano senso nel complicato mondo degli adulti.
E allora hai cercato di carpire sempre di più da ogni parola che spendeva la guida nell’illustrarci ogni palazzo e ogni monumento, sperando di riuscire a ottenere tutti i segreti che quei mattoni secolari celavano, racchiudendoli nel tuo cuore, custodendoli come la più gelosa degli amanti, nella speranza di poterli rivelare e riscoprire, un giorno, di poter di nuovo vivere tra quelle silenziose e movimentate case che hanno visto il meglio e il peggio degli uomini.
E di come ti eri rimasta in silenzio, mentre, sapevo, al tuo interno urlavi di rabbia, quando ci hanno detto che era ora di tornare a Monaco. Tu allora non hai detto più nulla, ti sei seduta sull’autobus, dalla parte del finestrino e sei rimasta a fissare per tutto il tempo la città che sbiadiva in lontananza, portandone l’eco negli occhi, piangendo senza versare lacrime, addormentandoti al mio fianco, chiudendo le palpebre stanche, mentre speravi di imprigionare quei ricordi tra le tue lunghe ciglia, pregando che non scappassero appena sarebbe sorto un nuovo sole.
 
Ti ricordi, Julchen, di quando, a quindici anni, ci siamo ubriacati per la prima volta?
 
Eravamo riusciti a convincere la barista dell’HB a portarci due birre grandi, facendoci scambiare per maggiorenni. Ancora non so come ci siamo riusciti. Non so nemmeno se sono state le moine che le abbiamo fatto o la sua esasperazione e stanchezza per il faticoso turno.
Ci eravamo dati una sonora pacca sulle spalle, ridendo come dei matti per la riuscita del piano non appena la povera cameriera se ne era andata, dandoci le spalle.
I boccali erano enormi, traboccanti di oro potabile e schiuma; quasi faticavi a tenerlo vicino alla bocca e, addirittura a un certo punto, hai dovuto usare entrambe le mani per sollevarlo.
Poi avevamo cominciato a ridere, senza apparente motivo, attirando gli sguardi stupiti e sconcertati degli altri clienti che non capivano come ci si potesse ubriacare con una birra sola.
Continuavo a ridere alle tue battute idiote, che, in normali situazioni, avrebbero suscitato la mia ilarità e una sberla sulla tua nuca.
Poi, finito l’alcol nel vetro, avevo cominciato a sentirmi male e tu non capivi e sono corso in bagno, rimettendo nella pulita tazza del gabinetto tutta la mia cena, mentre tu, fuori dal bagno, ridevi divertita e mi prendevi per il culo perché, nonostante i tuoi giramenti di testa, tu eri ancora in piedi e non nel cesso a sboccare.
Ci sono state altre occasioni in cui i ruoli si sono invertiti, non dimenticare quella volta del vicolo. Se non ti avessi preso per un braccio saresti caduta nella lercia spazzatura. I migliori amici servono anche a questo.
 
Ti ricordi, Julchen, di quando, a sedici anni, ci siamo messi insieme?
 
Tutti i nostri compagni di classe avevano gridato “Era ora!” quando siamo entrati in aula mano nella mano, imbarazzati entrambi per tutte le ovazioni e i complimenti su quanto fossimo una coppia azzeccata. Ci hanno domandato pure chi fosse effettivamente il passivo nella nostra coppia, essendo sempre stati entrambi fin troppo determinati, testardi e mordaci per cedere anche solo un grammo del nostro sconfinato orgoglio. E tu avevi esclamato a gran voce che il dominante eri ovviamente tu e che non avresti mai potuto lasciare il ruolo di attivo a un essere senza palle come me. E di come ho ribattuto dicendo che te lo lasciavo credere. E tutti ci avevano guardato spaesati.
E le tue labbra erano sempre morbide, alla fermata dell’autobus, sotto la tettoia, sotto la pioggia, lontani dal mondo conosciuto, solo tu e io, in un universo che apparteneva solo a noi.
Distanti, persi tra le mattutine stelle; annegati in un verde prato, con la testa sulle tue ginocchia a dimenticare i problemi di quel triste mondo che ogni volta ci riportava all’amara realtà. Mi passavi la mano tra i miei lunghi capelli, e sapevo, anche se non lo dicevi, che li hai sempre amati, sin da quando eravamo bambini.
Quando ci siamo incontrati per la prima volta, a sette anni, mi avevi fatto i complimenti sui miei capelli, credendo che fossi una femmina e hai reso quando hai capito che ero un maschio.
Non mi hai più detto nulla sui miei capelli, ma non li ho mai tagliati troppo, perché a te piaceva passarci in mezzo le dita, sentendo la loro morbida consistenza e io mi divertivo ad avvertire le tue mani che mi accarezzavano e ci posavano, sovrapensiero o per scherzo, dei fiori, dandomi della principessina.
 
O quando, nel solito campo, ci siamo dati appuntamento per dire qualcosa di importante a l’altro. E alla fine, quando nessuno dei due si era deciso a parlare sul serio, abbiamo gridato insieme “Torniamo ancora amici”, perché ci eravamo resi conto che i baci non avevano il giusto sapore, gli abbracci erano più freddi del solito e le risate più forzate.
Quella sera avevi posato tu la testa sulle mie gambe e avevi guardato le stelle distanti che sbattevano le ciglia filamentose su di noi e tu allungavi le mani nel tentativo di averle più vicine, provando a prendere una stella cadente per la coda, affidandole i nostri sogni e i nostri desideri.
Avresti mai detto, Julchen, che i nostri sogni e i nostri desideri erano proprio come quella stella cadente: morti e distanti anni luce?
Io non potevo ancora saperlo, mentre ti accarezzavo la testa bionda, ma quell’oro sembrava sempre più sbiadito, quei fili di seta meno morbidi e i tuoi occhi sempre più stanchi, sempre più inclini a nascondersi  dietro le palpebre.
 
Ti ricordi, Julchen, di quando, a diciassette anni, avevamo abbandonato entrambi le belle speranze?
 
Non parlavamo della fine del liceo. Non parlavamo della macchina che avremmo guidato. Non parlavamo della famiglia che avremmo cresciuto.
Io ti avevo guardato impotente, mentre tu, con sempre meno forza, spaccavi tutti gli oggetti che erano per casa, urlavi ai tuoi genitori, abbracciavi tuo fratello Ludwig, immobile come me, con le mie stesse lacrime agli occhi. Provava ad abbracciarti, ma temeva di poterti rompere da un momento all’altro e tu inveivi anche contro du lui, accusandolo di debolezza e scoppiavi a piangere pure tu, volendo che quel lento supplizio che, silenzioso, da anni ti divorava indisturbato dall’interno non fosse mai esistito.
E prendevi a pugni chiunque, con meno fiato in corpo. E ti domandavi come potessi stare ancora in tua compagnia nonostante tu fossi diventata un mostro e la gente ti guardasse male per stranda, additandoti come progenie del demonio.
Ma a me non importava cosa pensava il resto del mondo, non me ne fregava nulla se le spighe di grano che portavi tra i capelli si fossero coperte di neve, o tuoi occhi azzurri si fossero fatti più scuri e più spenti. Tu per me eri ancora la più bella. Lo sei sempre stata. Non ti ho mai mentito, Julchen. Per me sei sempre stata la migliore.
 
Ti ricordi, Julchen, di quando, a diciotto anni, mi hai guardato per l’ultima volta negli occhi?
 
Tutto era bianco, più dei tuoi capelli. E io odiavo tutti quei macchinari che dovevano sostenere la vita di qualcuno che da sempre aveva tenuto il mondo intero su quelle spalle, ormai così esili.
Tu mi hai guardato e non mi hai detto nulla, non avevi più la forza nemmeno per insultarmi come al solito.
Restavo io la notte a farti compagnia, ti tenevo sveglia quando stavi per addormentarti per sempre.
Il cielo notturno era buio quanto me. E tenevo stretta la tua mano che tratteneva ancora saldamente i sogni distrutti e le illuse speranze di una vita troncata quando era ancora tutta da immaginare, nonostante quelle dita non avessero più nemmeno il vigore per stringere le mie.
E mentre sentivo le tue membra e la tua anima pesare sempre di più e accarezzavo la tua mani e giuravo che la nostra amicizia sarebbe durata in eterno e che ti avrei scritto ogni giorno finché non saremmo tornati insieme.
 
Domani ti scriverò la lettera numero  1827. Sono cinque anni che ti sei addormentata per sempre.
 
Ti voglio bene.
Tuo Endré.
  
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