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Autore: Applepagly    11/07/2015    2 recensioni
Arrivate con un'espressione a dir poco seccata, scaraventate la cartella dell'angolino più remoto del salotto o della cucina e vostra madre, come un mantra, vi chiede cosa sia successo.
Era proprio quello, il problema. Non era ancora successo niente.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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- Questa storia fa parte della serie 'How long must we sing this Song?'
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Salve a te, lettore o lettrice che hai deciso di dare una sbirciata a questa storia.
E' la prima che scrivo per la sezione delle originali, ma l'avevo in mente da un pezzo. La scrissi tempo fa ascoltando The Scientist dei Coldplay; motivo per cui nel primo e nel terzo capitolo (in tutto sono tre, per l'appunto) compaiono alcune strofe del testo.
Probabilmente è la cosa più sconclusionata che abbia mai scritto, ma è ispirata a qualcosa di reale, perciò ti prego di accettarla così com'è.
Ora ti lascio alla lettura e spero tu possa apprezzare. Ci rivediamo, se ti va, martedì 21.
TheSeventhHeaven
 
The Scientist
Prima parte
 
 
  Non so se vi sia mai capitato di tornare a casa da scuola e scoprirvi di cattivo umore. Non avete idea del perché, sapete solo che mettere il broncio sembri la cosa più giusta da fare; pur sapendo che gli altri potrebbero non sopportare più, l'atteggiamento scostante che assumete. Arrivate con un'espressione a dir poco seccata, scaraventate la cartella dell'angolino più remoto del salotto o della cucina e vostra madre, come un mantra, vi chiede cosa sia successo.
"Niente." è la risposta secca che riceve quel giorno; come quelli precedenti e a seguire. E, anche se lo ripeterete fino alla nausea, lei saprà sempre e comunque che non sia per nulla vero. Quel "niente" in realtà significa "Sono successe tante cose, ma non ho voglia di parlarne, né potresti capirmi. Ho solo bisogno di mangiare e mettermi a studiare quanto prima.", e lei lo sa, lo sa molto bene.
Quel giorno, forse, non era poi così diverso dagli altri.
 
Come up to meet you, tell you I'm sorry
 
Come al solito, all'intervallo ero andata da loro, da lui. Nella vana speranza che starne in compagnia potesse servire a qualcosa. Che sciocca, ero. Avevo davvero i prosciutti sugli occhi; o forse, non abbastanza da non notare come lui la fissasse mentre parlava, famelico. Bla, bla, bla; ecco cosa arrivava alle mie orecchie, di tutto il lungo sproloquio di quella stupida biondina che, non senza malizia,  rispondeva alle sue occhiate, nella tacita richiesta di continuare a divorarla con gli occhi.
  Avevo fatto carte false, per potergli parlare, almeno una volta. La mia amica mi avrebbe presentata; lo aveva promesso. E, benché odiassi dover uscire allo scoperto in un modo del genere, sapevo bene che fosse l'unico, per non fare una pessima figura con un tipo come lui. O forse, già in partenza avevo commesso un errore, intrufolandomi in una compagnia di ragazzi molto più grandi di me, in tutti i sensi. Forse era colpa della mia vigliaccheria, se non mi calcolava, mentre io mi nascondevo dietro alla mia timidezza; la stessa che ostentavo davanti agli sconosciuti e che crollava inesorabilmente con tutti coloro che mi erano amici. Ma per quanto potessi illudermi, sapevo che con lui non sarei mai stata capace di mostrarmi per com'ero in realtà, nemmeno dopo averlo frequentato per dieci anni.
  Ricordo che aspettavo con sincera ansia il momento in cui lei ci avrebbe presentati. Saremmo stati io e lui, il resto del mondo non sarebbe esistito. Aspettavo con ansia il momento in cui i suoi occhi da stronzo allucinato avrebbero scrutato i miei, ed i miei soltanto. E, quando pronunciò il mio nome per la prima volta e ne scandì le lettere come fossero note musicali, credevo sarei morta sul colpo.
  - Non credi anche tu? - mi ridestò la mia amica. Non avevo idea di che stessero parlando, ad essere sinceri; sapevo solo che tutti mi stessero fissando in attesa di una mia risposta. Tutti meno che uno. - Sì. - mi ritrovai a rispondere, meccanicamente; ripresero a conversare, mentre io iniziai ad avvertire un prurito alle mani.
Sì, quel genere di pizzicore che ti assale quando provi la voglia matta di prendere a sberle qualcuno. Ma non sberle qualunque. Veri e propri ceffoni a mano aperta, che avrebbero fatto male, molto male; non tanto perché fosse un Karateca, a tirarli. Non ero una combattente eccezionale, avevo iniziato da poco; no, era più perché li avrei sferrati con quanta più cattiveria e rabbia avessi. Solo che ci insegnavano l'autocontrollo. E poi, picchiarlo sarebbe equivalso a toccarlo; impensabile, insomma.
 
Tell me your secrets and ask me your questions
 
  Eccolo là, appoggiato alla ringhiera verde del portichetto, con la sua dannata sigaretta perennemente accesa e quello sguardo. Non so come descriverlo; qualsiasi aggettivo sarebbe troppo poco eloquente. Diciamo che aveva un'espressione totalmente distante e disinteressata da tutto quello che stava avvenendo attorno a lui ma, allo stesso tempo, i suoi occhi da stronzo sembravano assorti in qualche genere di ricordo oscuro. Una moneta per i tuoi pensieri...
  - Hey, Lino. - era il suo più grande amico; l'unico, forse, a cui rivelasse ciò che gli passava per la testa. Gli tirò una sonora pacca sulla spalla, facendolo trasalire; ma l'unica cosa sui cui aveva ancora la presa solida, e su cui l'avrebbe sempre avuta, era la sua sigaretta. Quella dannata sigaretta che non gli mancava mai, mai.
- Matt. - fece un cenno con il capo, in risposta. Non capivo proprio Matt come riuscisse a sopportarne il menefreghismo assoluto. Da quel che sapevo, erano amici più o meno da quando avevano iniziato le superiori. - Ciao, Anita! - il che significava da cinque o sei anni, più o meno.
  - Ciao, Matt. - sorrisi timidamente al suo saluto. Matt era forse l'unico che mi stesse veramente simpatico, di quella corposa compagnia. - Che mi racconti, piccola combattente? - oltre alla mia amica, ovvio. - Devo confessarti che diverse persone, stamane, sono rimaste sconvolte, quando ti hanno vista. Ann, - affermò serio. - come diavolo ti sei procurata quell'occhio nero e quel taglio?
Continuai a sorridere, nonostante la mia voglia di fare a botte aumentasse ad ogni tiro di sigaretta di più che quello stronzo faceva. - Nulla di che. - replicai, sfiorandomi istintivamente lo squarcio sulla guancia. - Mi allenavo e... beh, sono cose che succedono, quando sei scarsa.
- Non farmi ridere. - continuò lui, con uno sbuffo divertito. - Beh, la cosa è effettivamente ridicola. - borbottai.
  - Lo è sul serio. - intervenne quella voce che capitava raramente di sentire; almeno, alle mie orecchie. Finalmente dedicava le sua bocca a qualcosa che non fosse fumare; e, no, non erano le mie labbra.
 Ridacchiai, nervosa. Chi diavolo si credeva, per uscirsene con un commento del genere? E, soprattutto, chi aveva chiesto il suo parere? - Sta suonando. - intervenne la mia amica. Aveva già intuito il mio turbamento e forse temeva che potessi saltargli addosso. Per picchiarlo, s'intende. - La campanella. - chiarì.
  Ringraziai quel burattinaio che sta dietro al doloroso teatro di cui noi siamo le marionette; quel burattinaio comunemente chiamato Dio. Non ne potevo più.
  Salutai gli altri e decisi che mai, mai, mai più avrei perso là il mio prezioso intervallo. Lo avrei benissimo potuto sfruttare per andare in bagno e partire alla ricerca della carta igienica; spiluccare qualcosa, o inveire contro le macchinette del caffè quando si mangiavano i soldi, tirare calci a quelle dell'acqua quando le bottiglie rimanevano incastrate; disegnare o, semplicemente, lasciarmi assalire da un finto panico e ripetere per la lezione successiva, come facevano molti. Ma no; io avevo preferito illudermi e perdere il mio tempo là, a fare la spettatrice, quella che non spiccicava mezza parola a meno che non gliela tirassi fuori con le pinze.
Chissà quanto dovevo apparirgli ridicola. - Anita. - era quasi un sussurro, il suo. Ah, già; mi ero dimenticata che facessimo un tratto di strada insieme, per tornare alle rispettive aule. Non mi voltai. No, non avevo alcuna intenzione di inciampare nei suoi occhi, un'altra volta. Anche se dovevo ammettere di amare il modo in cui pronunciava il mio nome.
- Anita, ti sanguina il taglio. - affermò, placido, mentre io gli davo bellamente le spalle ed acceleravo il passo. Mi fermai di colpo; la mia mano andò a controllare ed era vero: usciva sangue. Beh, in realtà, così sarebbe stato un eufemismo. E' più corretto dire che mi sgorgasse a fiordi. Perché diavolo non avevo messo un cerotto?
  - Ah. - replicai, fingendo poco interesse. Una domanda mi ronzava per la testa: come accidenti aveva fatto, ad accorgersene se, nemmeno quando mi aveva in un certo senso deriso, aveva avuto premura di guardarmi in faccia? - Vado in infermeria.
Sapevo cos'avrebbe detto. Lo sapevo. - Ti accompagno. - e infatti. Avrei preferito non sentirlo. Insufficienza multiorgano; ecco, cosa mi avrebbe 'diagnosticato' la signora Tessie. - Grazie, ma non è davvero necessario. - provai a dissuaderlo, anche se pareva gli stessi suggerendo il contrario.
Si strinse nelle spalle. - Ci devo andare comunque. - sbuffò, incamminandosi. Ah, ecco. E io che quasi iniziavo a gasarmi. Che idiozia; non era certo per me.
E poi, anche lo fosse stato - cosa quanto mai inverosimile -, sarebbe stata solo la premura di un fratello maggiore, o un baby-sitter, cariche che potevano benissimo competergli, nei miei confronti. Non tanto per la differenza d'età tra di noi.
  - E' permesso? - bussai alla porta dell'infermeria, esitando. Anche se forse era colpa del tono di voce con cui lo avevo farfugliato, fui davvero contenta di non ricevere risposta; me ne sarei potuta tornare in classe senza dover fornire giustificazioni al professore per il mio ritardo; in orario, insomma. E, soprattutto, non sarei rimasta in compagnia di un soggetto improbabile come Lino. - Lascia fare a me. - disse, scostandomi con gentilezza - stranamente, aggiungerei.
- Tessie!- quasi sbraitò alla porta, sfoggiando una gamma di decibel così vasta che non avrei mai creduto fosse sua. - Tessie, sono Lino!- neanche a dirlo, dei piccoli passi frettolosi si alternarono verso la soglia, fino a che una signora bassina e paffuta ci aprì con un sorrisone stampato in faccia. - Entrate, ragazzi! - ci invitò.
  Ero stata in infermeria solo una volta, per accompagnare una mia compagna che non si era sentita bene. Era un bel posto, per quanto piccolo. - Che posso fare, per... oh. - mi si avvicinò, preoccupata. - Che brutte ferite... Vuoi un cerotto, cara? - mi domandò. Annuii, aspettando che ne tirasse fuori uno dal cassetto in cui si mise a cercare. Ma erano finiti. - Vado a prenderne; aspettami qui, mi raccomando. - normalmente, avrei sorriso un "Non vado da nessuna parte!", ma le circostanze mi fecero davvero desiderare di disubbidire alla sua raccomandazione. E anche di sorridere, ovvio.
  Mi sedetti su uno dei tre lettini disposti lì, quello che dava sul giardino. Finsi interesse per le automobili dei professori. Sapevo di aver i suoi fanali puntati sulla mia schiena, con la chiara intenzione di passarmi da parte a parte. Oh, guarda! Quella è della Warray!, mi dissi. Quella invece... mi sembra di averci visto salire la Zilli ma... lei non ha la patente, quindi...
 
Nobody said it was easy
 
  - Nemmeno io sono contento di trovarmi qui. - mi irrigidii all'istante. Ma non poteva starsene semplicemente e stupendamente muto? - ... Ehm... eh? - bofonchiai io.
- So di non esserti particolarmente simpatico; cosa credi? - andò avanti imperterrito; e, quando ebbi il coraggio di voltarmi, mi accorsi della lieve nota di disappunto che gli turbava i lineamenti. Non risposi subito. Mi soffermai sui suoi occhi.
  Amavo il mare; sapete? Era una delle poche cose che mi potesse rendere la calma e la tranquillità, come a cancellare tutto ciò che poteva avermi scocciata. Insomma; le onde spumose, l'acqua cristallina e fredda, la sabbia fine... quanto di più bello avessi visto in natura.
Ecco, guardare nei suoi occhi era un po' come specchiarsi nel mare, solo che si trattava di un mare piuttosto burrascoso, lunatico. Era un stronzo, un menefreghista, lo avevo intuito dalla primissima volta in cui avevo incrociato il suo sguardo. Ma, dietro a tutta quella apparenza, ero certa ci fosse ben altro.
  Cos'avrei dovuto rispondere? Ridacchiai, nervosa come mai prima. - Oh, ti sbagli. - presi a tremare. - E di grosso. Sei tu, quello a cui non sono particolarmente simpatica. Ma non importa. - ritrovai la calma, quella che da sempre mi caratterizzava. Apparentemente. - Non si può avere la simpatia di tutti, credo.
Lui alzò un sopracciglio, con poca convinzione. Oh, come avrei voluto smontargli la faccia. - Non capisco.
Oh, nemmeno io... - Cosa, di preciso? - mi sorpresi di quanto mi venisse facile parlare con lui, in quel frangente. Se per mesi avevo pensato che ci fosse qualcosa di straordinariamente speciale, in lui, mi disse che, no, non c'era, lui non lo era e, soprattutto, quella conversazione non lo era. Il classico battibecco tra i due protagonisti di un film d'amore. Con l'unica differenza che io e lui non saremmo finiti insieme.
  - Sei ostinata. - sentenziò. Bella, questa. Mister simpaticone se ne usciva con affermazioni sul mio carattere; carattere che nemmeno conosceva. - Non è per te. Il nostro gruppo. - asserì, con un tono che non ammetteva repliche. - Non è per te.
Fu come venire colpiti una seconda volta all'occhio; solo che la botta la ricevette tutto il resto e fu molto più dolorosa. Almeno, la mia compagna di Karate non lo aveva fatto apposta. - Lo so.
- Tu non sei come noi. - continuò. Che diamine! Dov'era finita, Tessie? - Lo so! - esclamai. - Io non sono come voi; lo so. Non ho mai preteso di esserlo. - ne ero ben conscia; perché doveva ribadirlo?
- Se lo sai, perché ti ostini? - ebbe il coraggio di chiedermi. Dalla mia gola uscì un suono non meglio identificato come una risata. Una risata molto, molto inquietante.
  Di nuovo; che cos'avrei dovuto rispondere? Che era per lui? Che da ottobre a quella parte non avevo fatto altro che cercare un briciolo d'attenzione? - Faccio io una domanda a te. - masticai, allora. - Se credi tanto di sapere tutto, sugli altri; se noti o ti inventi tante cose, su di loro, se è così allora perché ti ostini a fingerti disinteressato? - evidentemente la mia reazione lo sorprese, e un po' sorprese anche me stessa. Ci avevo parlato poche, pochissime volte. - Mh? - soggiunsi. Non avrei creduto di riuscire a prendermi tante libertà, con lui. - Non si risponde ad una domanda con un'al...
- Non me ne frega un accidente! - sbottai io, laconica. Perché non arrivi, Tessie...?
  Lino sospirò, buttando gli occhi al soffitto. - Dubito che capiresti.
Già, certo. Io ero troppo piccola, troppo una mocciosa, per capire. - Sei così... ingenua ma allo stesso tempo... matura... Così... pura. - procedette, raddolcendosi. Non volevo né dovevo lasciarmi incantare. - Così pura che... - NON dovevo. - ... non voglio che ti sfigurino e ti portino via. Non voglio macchiarti.
- Perdonami se lo dico francamente, ma non credo tu sia il tipo di persona che si fa questo scrupolo, con le ragazze. - borbottai ironica, ripensando alla bionda di poco prima. Mi fissò, ammonitore. - Non con tutte.
- Giusto; solo con le bambine. - sogghignai, rendendomi conto di quanto effettivamente la cosa stesse diventando assurda. Diedi un'occhiata all'orologio, che segnava le undici e quaranta. Fantastico; e ora chi glielo spiegava, al professore, che fosse tutta colpa di Tessie e di quei maledetti cerotti introvabili? - Non sei una bambina. - smentì. - E allora che...?
- Ma non voglio che tu ne prenda parte. Non voglio che diventi come quella ragazza; né tantomeno come me. - mi interruppe. - Non sono una buona compagnia.
- Tsk. - sputacchiai. - E' come chiedere a qualcuno se è onesto o no; quelli che ti risponderanno di non esserlo, lo saranno per davvero. Quelli che affermeranno di esserlo, non lo sono.
- O forse si tratta solo di gente molto consapevole. - cercò di convincermi. - Anita... - sussurrò, avvicinandosi a me. Bene, ora era uno scontro a tu per tu, corpo a corpo. Il legno e l'acqua; chi vincerà? - ... non voglio che qualcuno lo faccia. - e, prima che potessi chiedermi di che caspita parlasse, si stava chinando su di me.
  Se avevo sognato una cosa del genere per mesi... se l'avevo desiderato con tutta me stessa fino a quel momento... capii che fosse tremendamente sbagliato. Gli diedi appena il tempo di sfiorare le mie labbra con le sue, screpolate e fredde; no, non gli avrei permesso di portarsi via il mio primo bacio.
Un tonfo ed un improvviso spostamento d'aria e lui era finito per terra, con la cattedra di Tessie ribaltata accanto. Avevo il fiatone e probabilmente anche uno sguardo omicida; ma lui, rialzandosi a fatica, mi sorrise. Notai che gli uscisse un po' di sangue dal labbro inferiore. Non volevo davvero credere di averglielo spaccato. - Era proprio questo, che intendevo. - mi sorrise.
E, non appena vidi comparire la signora Tessie con dei cerotti tra le mani ed un'espressione sconvolta, mi fiondai fuori di lì.
  Forse spintonai qualcuno, mentre correvo a riprendere la mia roba. Forse contrariai Gemma, una mia compagna di classe, quando non prestai minimamente intenzione a quel che mi riferì, compreso il fatto che il professore di quell'ora, quella maledettissima ora, era in malattia e non lo avremmo avuto per qualche giorno.
Forse, e solo forse, mi pentii di non essere rimasta in infermeria e dirgli le peggio cose in faccia. E, quando rincasai e mia madre mi fece la stessa domanda di tutti i giorni, io risposi con il solito "Niente".
  Era proprio quello, il problema. Non era ancora successo niente.
 
Oh, take me back to the start
  
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