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Autore: namelessire    12/07/2015    0 recensioni
l colore è il testo, l’occhio è il martelletto, l’anima è un pianoforte con molte corde; ad esempio il rosso risveglia in noi l’emozione del dolore per il suo suono interiore.
Così parlò Kandinskij e io ascoltai queste parole milioni di volte e il rosso mi faceva ogni volta più male.
Genere: Malinconico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dopo che finimmo il giro ritrovai quei ragazzi stravaccati sempre sullo stesso divano di poco tempo prima intenti a leggere qualche rivista e sghignazzare tra di loro, cercai Max con lo sguardo e quasi non lanciai un gridolino di stupore quando lo vidi seduto in mezzo a loro mentre chiacchierava animatamente con tutti gesticolando come al suo solito, roteai gli occhi ma decisi di non disturbarli, non avevo voglia di far molta conoscenza non dopo l’ondata di ignoranza che mi ero dovuta subire da quei turisti.

-A stasera Max- dissi solo e lui ricambiò facendomi l’occhiolino, spinsi la pesante porta a vetri e uscii di nuovo sul viale che in quel momento della giornata era particolarmente ombroso; camminando calciai i ciottoli e osservai con tristezza i miei bei fiori tutti calpestati ma ero vicina all’uscita così sospirai e il traffico di New York mi investii.

Il mio appartamento era vicino a Tribeca e per quel giorno optai per una sana camminata anche attraverso la fifth avenue per avere un assaggio della bella vita, negozi scintillanti, signore di mezza età che sembravano più giovani di me e cagnolini che viaggiavano in borsa più costose della mia casa, ma in quella strada si potevano trovare anche parte degli uffici più importanti della città, avvocati, notai, dottori e via dicendo e io avevo preso l’abitudine di fermarmi e sedermi sulla fontana di granito di uno studio legale, “Avv. Dustin Hemmings” diceva la targhetta placcata color oro che stava appesa vicino alle lussuose porte girevoli del condominio.

Tirai fuori la mia copia de “L’idiota” di Dostoevskij e la rigirai tra le mani, lo avevo letto decine di volte, mi ricordava casa e i miei genitori, entrambi professori di un liceo alla periferia di Mosca, innamorati di quest’opera avevano chiamato me e mio fratello come due dei personaggi principali, Nastasja e Myskin ed ero grata ai miei per questa loro scelta.

Nastasja Filippovna era la dama più bella del paese ma celava una tristezza dietro ai grandi occhi scuri, era dotata di una grande intelligenze e furbizia ed è proprio per questo che speravo che questo nome mi portasse fortuna e seduta su quella fontana me lo auguravo ogni giorno sempre di più; tirai fuori i miei libri di testo e il portatile dallo zaino e appoggiata ad una panchina poco più in là cominciai a scrivere il mio saggio su Kandinskij per il professor Curtis, uomo colto che aveva viaggiato pressoché in tutto il mondo visitando gallerie su gallerie e adesso che si era dedicato all’insegnamento esigeva l’eccellenza da parte dei suoi studenti e di questo non potevo altro che dargli ragione.

Era quasi il tramonto quando decisi di andarmene così raccolsi le mie cose e presi il tram diretto al mio quartiere, smontai e salutai Jenna e Blanca, le due signore sudamericane che vivevano nel complesso accanto al mio con i loro figli, senza i mariti, due disgraziati che avevano preferito la droga alla famiglia, quando potevo tenevo i loro figli nel mio appartamento e li facevo fare i compiti e poi mi ringraziavano con qualche teglia di paella o di lasagne fatte in casa che divoravo guardando qualche soap deprimente sui canali via cavo, ma quella sera avrei dovuto accontentarmi della pizza congelata. Appena entrai in casa raccolsi qualche appunto sparso sul pavimento e caricai la lavatrice e notai la felpa di Max appallottolata sulla poltrona, tutt’altro che art dèco, “per quando il buio ti spaventa più del solito” mi aveva detto chiudendosi la porta dell’appartamento alle spalle qualche settimana prima così la indossai e presi ad aspettarlo ma mi appisolai. Mi svegliai di colpo verso le dieci e mezza e diedi per certo che Max ormai non sarebbe più arrivato, chissà dov’era e se gli fosse successo qualcosa? Ma bussarono alla porta, per sicurezza prima sgattaiolai in cucina e afferrai un coltello e nascondendolo dietro alla schiena aprii la porta con uno dei miei migliori sorrisi.

-Ah, sei tu- lasciai cadere il coltello e gli occhi di Max saettarono sulla lama che cadeva sulla moquette

-Che ti prende?- 

-Sono solo stanca, dove sei stato?-

-Hai intenzione di invitarmi ad entrare?- mi spostai e lo lasciai passare, si sedette su una delle due sedie che stavano intorno al tavolo della cucina e si appoggiò alla superficie con i gomiti con un sorrisetto strano mentre mi scrutava dalla testa ai piedi.

-Preparati che usciamo-

-Con chi?-

-Con i ragazzi del museo-

-Max, non li conosciamo- alzai la mano per bloccarlo prima che aprisse bocca -e no, non vale se mi dici che ci hai parlato assieme per un paio di ore- dissi e poi continuai -comunque, vai tu, stasera non sono in vena-

-Stanno per arrivare qua-

-Cosa? Ma li sai almeno i loro nomi? Sono della città?- 

-Calmati Nastasja, sono di New York, o almeno tutti tranne Francis-

-Francis?-

-il biondo, alto, spalle large- annuii ricordandomi di averlo visto intrufolarsi in una delle sale del museo durante il giro turistico.

-Fai quello che vuoi- esclamai quando bussarono di nuovo alla porta, stavolta piuttosto insistentemente.

-Ciao!- disse il moro 

-e tu sei?-

-Calum, piacere- tese la mano ma lo ignorai

-prendetevi pure Max e andatevene-

-Credo che ce l’abbia con voi perché le avete distrutto i fiori- rise Max pizzicandomi il fianco al che feci una smorfia di fastidio.

-Dai Luk- il moro non finì e si corresse -Francis muoviti!- mi lasciarono dunque sul mio pianerottolo piuttosto perplessa, chiusi la porta con un tonfo e il signor Huit mi batte sul muro come a dire “Piantala” e forse aveva ragione, dovevo smetterla di preoccuparmi per Max era grande e vaccinato e se voleva uscire ad ubriacarsi con dei perfetti sconosciuti potevo farlo, non era affar mio.

 

La mattina dopo mi alzai di buon’ora visto che dovevo passare all’Università per consegnare alcuni libri che avevo preso in prestito e poi sarei corsa al Met per spiare l’arrivo di una nuova opera che si mormorava venisse dalla galleria degli Uffizi di Firenze, quindi di buon’umore scesi le scale e per poco non scivolai su un quadratino di carta rilegato in plastica tipo un tesserino sanitario, lo raccolsi e lessi il nome: Luke Robert Hemmings, non c’era la foto ma il cognome era impresso nella mia mente.

Saltai in mentro e dopo quattro fermate riemersi in piena Fifth, risalii la strada e l’edificio imponente si presentò davanti a me, non avevo il coraggio di entrare così cercai una cassetta delle lettere dove poter imbucare ciò che avevo trovato ma non la trovai, spiai dentro e mi accorsi che una delle segretaria stava raccogliendo alcune carte per riporle in una cartellina e uscire di corsa

-Mi scusi- urlai, lei si voltò, sospettosa

-Prego- voce fredda, capelli biondi perfettamente tirati indietro in uno chignon

-Ho trovato questo e pensavo potesse appartenere a qualcuno qui dentro e- non mi lasciò finire, mi strappò il biglietto dalle mani e scappò via con i tacchi che ticchettavano sull’asfalto. Alzai le spalle e girai i miei di tacchi per andarmene ma gettai un ultimo sguardo alla hall perché mi parve di vedere quel Francis discutere con un uomo distinto ma quando mi rigirai erano spariti.

Correndo al Met lasciai un dollaro al ragazzo all’angolo della strada che vendeva i giornali, aprii a caso il New York Times e gli occhi mi caddero sullo stesso nome che avevo letto poco prima su quel cartellino.

 

“Luke Hemmings, terzogenito del milionario avvocato Dustin Hemmings pare non voler metter la testa a posto” cominciava il giornalista “il ricco pargolo, quasi diciannovenne” e proprio mentre stavo per continuare l’estratto un taxi beccò in pieno una pozzanghera inzuppando me e il rotocalco che diventò poco più che carta straccia, imprecai frustrata odiavo lasciare le cose in sospeso, di certo avrei fatto qualche ricerca su internet ma intanto un grosso camion si era fermato all’entrata del museo e quattro uomini stavano trasportando una grande cornice imballata, di certo sarebbe costato un occhio nella testa poter visitare la prima esposizione e di lì a pochi giorni il Met avrebbe tenuto il suo famoso Gala con gente preoccupata più di come gli stavano di capelli che di guardare quell’incredibile patrimonio.

 

Salve, salve, salve! OK, l’ho scritto tutto d’un fiato perché mi sono sentita ispirata da questo alone di mistero che spero di avervi un po’ trasmesso, i primi capitoli saranno un po’ così di presentazione ma spero che li apprezzerete comunque!

Detto questo, non ho avuto tempo di rileggere quindi se beccate errori fatemelo sapere magari mandandomi un messaggio privato o in una vostra recensione se decidete di lasciare un commento!

Un abbraccio, Irene.

  
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