Serie TV > The Vampire Diaries
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Autore: Soqquadro04    16/07/2015    3 recensioni
[AU/AH - tutti umani | Teen!Delena | Possibile OOC | Major Character Death | Tematiche delicate]
«Cosa c'è dietro al cielo, secondo te?» Elena è l'ombra di quella che era quando l'ha conosciuta – più magra, ormai di capelli non ne ha più ed è tanto pallida da sembrare- (scaccia il paragone prima ancora che possa finire di pensarlo – no, lei starà bene. Starà bene), ma i suoi occhi sono ancora enormi e scuri come pozze d'acqua.
«Sono cose da scrittrice, queste. Non lo so. Solo altro cielo, suppongo.» le risponde senza guardarla più, fissando gli occhi alle stelle che ammiccano – non la vede in viso, quindi, quando parla di nuovo (e forse Damon non vorrebbe neanche farlo, perché le lacrime sono difficili da nascondere).
«Forse... forse è dove finiamo. Quando moriamo.»
[...]
Parla spesso di morte, Elena – lo fa senza pensarci o forse pensandoci troppo, senza essere più intimidita dal chiamarla col suo nome.
Gli fa paura, a volte – la sua rassegnazione.
Sono le volte come quelle che gli fanno desiderare di (
baciarla) poterle rispondere.
Damon ed Elena si conoscono quando hanno entrambi diciotto anni, in una camera bianca del Reparto Oncologia dell'ospedale di Richmond.
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Damon, Salvatore, Elena, Gilbert, Mrs, Salvatore | Coppie: Damon/Elena
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Autore: Soqquadro04
Disclaimer: non mi appartengono in nessun modo e in nessun luogo
Generi: Generale, Romantico, Triste
Avvertimenti: tutti umani, teen!Delena, Death, Tematiche Delicate, possibile OOC
Rating: Giallo
N/A - Note dell'Autrice:
L'idea per questa storia è venuta fuori - abbastanza prevedibilmente - appena dopo la morte di Liz. Era un modo per esorcizzarla - e infatti viene citata - senza però doverla scrivere direttamente, perché non mi sentivo né mi sento abbastanza sicura del personaggio da avvicinarmici senza fare un disastro.
È rimasta accantonata per mesi, poi all'improvviso mi è tornata la voglia e l'ispirazione per riprenderla in mano - quindi eccoci qui.
Vi prego di avvisamri se ho trattato in modo troppo superficiale l'argomento, o se ho offeso in qualche modo la sensibilità di qualcuno.
Spero non sia proprio un disastro, e che vi piaccia (anche se vi saranno utili i fazzoletti) <3

A presto,
la vostra Soqquadro

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Il retro del cielo

 

«Ci pensi mai al retro del cielo?»
[...]
Parlami ancora.
Restiamo attaccati al retro del cielo, come aquiloni che si sono impigliati lì, per scoprire davvero una volta per tutte di che colore è.
Chiara Gamberale - Quattro etti d'amore, grazie

 

We should go to sleep now,
you should stay the night.
I'll be up to watch the world around us live and die.
Lying on the grass now, dancing for the stars,
maybe one will look on down and tell us who we are.
[…]
I could join the circus, and you could sell your hair;
I could learn to walk the line or learn to train the bears.
Tell me are we crazy? Did you like the cold?
Tell me are you comfortable, if comfortable at all?
[…]
Now that we are older, I remember you,
Reaching out to show me all the things that I must do.
Now that we are older, I remember youth;
now that we are close to death and close to finding truth.

We might fall, we might fall;
we might fall, Hallie, we might fall.
We might fall, we might fall;
we might fall, Hallie, we might fall...
[…]
We might fall – Ryan Star

Je t'aime, maman.1

Per i primi sei anni della sua vita, non c'era stato modo di convincere Damon Salvatore a tirare fuori mezza parola in inglese.
Sua madre diceva che probabilmente era colpa sua, che quando era più piccolo spesso gli parlava in francese quasi senza pensarci, nonostante Giuseppe l'ammonisse spesso al riguardo (lo confondi, Lily).

La sua prima parola era stata maman, prevedibilmente.

Non rammenta assolutamente nulla di quel periodo, ma lei lo raccontava spesso – ai pranzi di Natale con gli amici, ai compleanni, in occasioni simili – e se si sforza, unendo le sue storie a quei momenti frammentati che scintillano ambrati nella sua memoria, a volte qualcosa riemerge.
Spesso sbiadiscono troppo in fretta perché possa realizzare di averli anche solo sfiorati, in certe notti malinconiche affiorano dall'abisso dei suoi sogni scombinati come rocce nel buio – molti forse non sono neppure reali eppure li insegue comunque, cercando di trattenere quella che pare essere felicità, o perlomeno quanto di più simile a essa abbia mai conosciuto.

Il ricordo più vivido è sempre quello della risata di Lily, ogni volta che storpiava una pronuncia o faceva confusione nella sintassi – non un'ilarità cattiva, di scherno, solamente di tenerezza.
Sua madre rideva così spesso, prima, e la sua risata era la più bella in tutto l'universo, e ogni volta si stupiva che non venisse gente dai più lontani pianeti solo per ascoltarla, anche soltanto una volta.

Poi, quando lui ormai aveva iniziato a parlare due lingue da un pezzo, c'era stato un giorno d'estate in cui lei era andata dal dottore per una brutta tosse, e quando era tornata a casa aveva un'espressione sul viso che l'aveva spaventato a morte. Fra le mani stringeva un foglio di carta e lui non l'aveva mai visto, non gliene era mai importato nulla, non quando l'aveva semplicemente abbracciato, il capo premuto contro la sua spalla, e tutto d'un colpo Damon si era reso conto che era più alto di lei e che poteva stringerla fra le braccia fin quasi a farla scomparire, come se si fosse rimpicciolita in una giornata. Aveva la sensazione che avrebbe potuto tenerla nel palmo di una mano, sua madre che era sempre stata piccola, ma così forte da sembrare una gigantessa.

Lei non aveva più riso, e Damon aveva capito.

Il faut sourire, mon petit serin. Il faut toujours sourire.

 

***

 

La prima volta che sente ridere Lily, dopo, sono passati quasi due anni da quel pomeriggio e tre mesi dall'ultimo – definitivo – ricovero, e in ogni caso non è per merito suo.
È un pomeriggio pigro di inizio giugno, grigio e asfissiante come tanti altri della sua vita, e sta ancora cercando di scrollarsi di dosso l'umidità, quando si ferma davanti alla porta socchiusa della camera numero 286, cercando di indovinare se sia sveglia dai suoni che filtrano dall'interno.

E, del tutto inaspettatamente, quando fa capolino nella stanza, la visuale ancora coperta dalla svolta di cartongesso del muro del bagno, eccola lì, la risata più minuscola e fragile che sia mai esistita, polvere nel vento, eppure c'è ed è, così all'improvviso, molto più di quello che ha ottenuto o sperato di ottenere con piccole attenzioni e sguardi speranzosi nell'ultimo periodo.

Allora sorride, Damon, anche se ultimamente non sorride quasi mai e sente la stanchezza stagnarsi in ogni poro della pelle, sorride solo a metà ma abbastanza da farlo sembrare un sorriso, e spalanca del tutto la porta – si aspetta di trovarla sola, magari a leggere un libro di quelli che le ha portato o qualcosa di simile. Quindi la sua sorpresa al notare l'altra ragazza è perfettamente giustificabile.

È sdraiata sull'altro letto, ben raggomitolata sotto le coperte. Anche lei sta sorridendo, ma lo fa con tutta la bocca, con tutto il viso, come lui non è più in grado di fare da circa un anno, cinque mesi e ventiquattro giorni – sta sorridendo di un sorriso vero, ha i capelli castani e lunghi e gli occhi più grandi che abbia mai visto.
Nessuna delle due si accorge che è entrato, all'inizio, quindi se ne resta in disparte per qualche secondo, studiando la sconosciuta con curiosità. Poi fa un passo avanti e si schiarisce la voce, e loro si voltano entrambe verso di lui.

Sorride anche Lily, sorride di quel suo sorriso stanco e tranquillo e il suo sguardo vola immediatamente al suo fianco. Sa perfettamente che sta cercando suo fratello, anche prima che parli.
«Stefan?» chiede, anche prima di salutarlo, e davvero ormai ci ha fatto l'abitudine ma non può fare a meno di sentirsi un po' ferito, anche se sa che fa molto più male a lei non vedere il più piccolo.

Scuote il capo, resta fermo al suo posto con le mani in tasca – lei tenta di mascherare la smorfia addolorata ma lui fa in tempo a vederla comunque, prima che venga nascosta da un'espressione nuova, più composta e fredda.
La ragazza lo scruta a sua volta con quei suoi occhioni scuri, e Lily sembra riprendersi abbastanza da rendersi conto che non si conoscono.

«Elena, mio figlio, Damon – Damon, lei è Elena.» Elena sorride anche a lui e per un attimo Damon si sente come se con quel sorriso potesse togliergli dalle spalle il peso della sua stessa esistenza – è ridicolo, naturalmente, ma per quell'attimo vorrebbe poter ricambiare con qualcosa di più di quel ghigno spezzato che non le rende giustizia.
Non conta poi molto, quello che vuole, quindi si limita a farle un cenno e dirigersi verso la sua sedia, accanto al letto di Lily.

 

Quel pomeriggio scopre che l'hanno appena trasferita da un altro reparto, che a Lily sta estremamente simpatica e che anche a lui, in fondo, non dispiace troppo averla lì.

Fa quasi troppo caldo nella camera d'ospedale, spoglia e asettica e bianca come un purgatorio infinito, e da fuori giungono suoni ovattati di grida incomprensibili e rumore di macchinari impazziti – dentro, invece, ci sono solo il respiro affaticato di sua madre, collegata a talmente tanti sottili tubicini di plastica che ha rinunciato da tempo a seguirli per capire a cosa servano, e l'odore della sua stessa stanchezza che si aggrappa alla stoffa immacolata delle lenzuola.
La penombra è rilassante, appena toccata dalle luci violente del corridoio che penetrano dalla finestrella sulla porta, e non ci sono parole a inquinare quella loro bolla illusa di nulla, per una volta lontano dalla solita folla di medici ed infermiere, con i loro camici candidi e verde menta malata.

Aveva incrociato la dottoressa Parker, quella mattina, e Amanda-o-forse-Samantha, che l'aveva salutato con un cenno distratto del capo – qualcuno già lo chiamava per nome, e a volte solo lo guardavano, li guardavano, per un istante, per poi distogliere gli occhi non appena si accorgevano che poteva scorgere la pena.

Rimane così, immobile con le dita di sua madre fra le proprie, assaporando il silenzio con un sollievo quasi fisico – sa di polvere e disinfettante, il silenzio, di frutti di bosco e acqua di mare, di tutto quello che c'è di più lontano dal posto in cui ti trovi –, con gli occhi chiusi e le sopracciglia appena aggrottate.
Apre le palpebre, lentamente, sospirando.

Quando lo sguardo gli cade sull'orologio, senza nemmeno stupirsi troppo di essere – come al solito, del resto – rimasto ben oltre l'orario di visita.
Raccoglie la giacca, stringe un'ultima volta la mano gelida di Lily, sempre senza parlare perché non vuole svegliarla – dorme già così poco, così male – e poi si volta verso l'altro letto.

Il volto di Elena sembra molto più pallido, emaciato, nella stanza semibuia – lei sembra molto più fragile e molto più giovane, con gli occhi chiusi e le braccia abbandonate lungo i fianchi, invece che a gesticolare per aria.
Crede si sia addormentata anche lei, è da un po' che nessuna delle due parla più, e si alza il più silenziosamente possibile, per non disturbare neppure lei – si accorge che non riposa quando fa una smorfia dolorante, girandosi su un fianco. Le scappa anche un gemito, attenuato dal cuscino, per non infastidirli, crede.

E non gli sembra più tanto giovane, Elena – gli sembra solo stanca e ancora piena di coraggio.
Prima di sgattaiolare fuori, cercando di non farsi notare nel generale fermento serale del reparto, si avvicina a lasciarle una carezza – se ne va prima che possa aprire gli occhi, come un'ombra vigliacca.

 

***

 

Reparto di oncologia

 

Lettere nere e ordinate come formiche, sullo sfondo bianco del cartello.
Fanno male tutte le volte.

Deglutisce e stringe un po' di più la mano di Stefan, così piccola e un po' umida nella sua – ha solo dodici anni ed è già così grande ed è ancora così giovane, raccoglie fiori per Lily e la notte piange, uccidendo i singhiozzi nel cotone delle lenzuola perché non lo senta, come se potesse disturbarlo (ogni notte aspetta che si addormenti per sedersi al suo fianco e sfiorargli i capelli, vegliando il suo sonno per scacciare gli incubi).

Sua madre sta guardando fuori dalla finestra, quando arrivano – il cielo oggi è azzurro di un azzurro di plastica e zucchero filato che pare finto, e gli occhi di Elena brillano di nuovo.
Stefan corre immediatamente da Lily, porgendole quel mazzolino di fiori di campo un po' appassiti, ormai, e lui non prova neppure ad avvicinarsi – non ha occhi che per lui, quando Giuseppe lascia che venga a trovarla (non gli fa bene vederti così, dice, è troppo piccolo per capire – e quante volte Damon vorrebbe gridargli addosso che comprende molto più di quello che crede).

Elena gli fa un cenno prima ancora che possa chiederglielo.
Si accomoda sulla sua poltrona, voltandosi verso di lei, sorridendole di quel sorriso spezzato che non serve a nessuno.

«E tu? Non hai ospiti?» stira le labbra in un'imitazione della sua espressione, spalancando quegli occhi grandi e scuri – pozzi senza fondo, sembrano infiniti, pensa, e ne cancella subito il ricordo.
«Mia madre è via per lavoro, mio padre verrà quando ha finito il giro dei pazienti. E forse, quando sarà passata da sua madre, arriverà una mia amica.» assimila le informazioni con un sorriso un po' meno tirato, aggrottando la fronte.

Lei si lascia cadere sui cuscini, sbuffando – quando si accorge che Stefan la osserva, fa una faccia buffa a suo esclusivo beneficio, che lo fa scoppiare a ridere quasi immediatamente, tranquillo, nel rifugio sicuro che sono le braccia di sua madre.
«Non la lasciano restare a casa? Per stare con te? Tua madre, intendo.» è la prima cosa che gli viene in mente, e un po' se ne pente, dopo, perché lei si rabbuia all'improvviso, come nuvole di un temporale estivo che le si raggruppassero all'improvviso sul capo – del resto, Damon non dice mai la cosa giusta.

Non se ne stupirebbe, se non gli rispondesse – ma Elena lo sorprende ancora una volta (per un attimo si chiede quante volte ancora succederà, ma non ha una risposta).
«Non credo che lo voglia. Credo... credo si stia allontanando per proteggersi, e so che da fuori sembra terribile, ma posso capirla.» ha lasciato vagare lo sguardo per la camera, fino ad allora, distante e imperscrutabile, ma ora lo alza all'improvviso per piantarlo nel suo e Damon si sente all'improvviso molto piccolo.

Non pensa, prima di risponderle, e si chiede quanto sia dovuto alla sua naturale inclinazione a mettersi nei guai e quanto alla sua subitanea pazzia indotta.
«Beh, intanto hai me.» alla sua occhiata scettica, risponde ridendo – ridendo, per la prima volta da quelli che gli paiono secoli (ridendo, ignorando il principio di rossore che le ha colorato le guance, un'affluenza insolita per il suo colorito da vampiro).

«Non sono una compagnia così terribile, sai?» ride anche lei, una risata effimera come carta – come sabbia che gli scorre fra le dita.
«Puoi dimostrarmelo, invece di parlare.»

 

«Te lo giuro, non riuscivo a dire una parola in inglese neppure a scongiurarmi in ginocchio.» lei ride di una bella risata, breve e secca e molto diversa da quella fragile di qualche ora prima – più aperta, meno esausta, e Damon non può che dirsi soddisfatto del risultato.
La vede alzare il mento in un gesto di sfida, mitigato largamente dal sorriso che le piega le labbra in una smorfia – adorabile.

(No – no, solo graziosa.)

«Non ci credo.» Lily li osserva, impensierita, dall'altro lato della stanza – Stefan le si è addormentato in grembo, tranquillizzato dalle sue carezze.
Damon le fa un cenno d'intesa, vedendola arricciare il naso con la coda dell'occhio, prima di alzarsi in piedi di scatto – si inchina scherzosamente verso il letto di Elena, poi prende un respiro profondo e canticchia con l'aria più spensierata che gli riesce.

«Alouette, gentille alouette; alouette, je te plumerai.» per un attimo c'è solo un – imbarazzante – silenzio, poi la voce di sua madre si leva dietro di lui, altrettanto divertita e molto più intonata della sua.
«Je te plumerai la tête, je te plumerai la tête. Et la tête! Et la tête! Alouette, gentille alouette.2» Elena applaude, deliziata – piano, per non svegliare Stefan –, lui si inchina di nuovo e si risiede, sorridendole, soddisfatto.

«Seulement pour toi, ma belle Hélène.3»

 

Quando lui e Stefan se ne vanno – di nuovo, in ritardo, ma stavolta in tempo per l'ora di cena –, il padre di Elena non è ancora passato e lei stavolta si è addormentata davvero – si è addormentata ridacchiando a causa sua, a dire la verità. Ha provato a cantarle una ninnananna, ma non è servito a molto – è stonato, Damon, veramente stonato, e l'unica cosa che ha ottenuto è stata una carezza distratta e uno sguardo un po' troppo intenso (gli sguardi di Elena sono sempre un po' troppo intensi, e non riesce a capire se sia un bene o un male).

Sulla porta, Stefan si ferma di colpo, voltandosi verso di lei un'ultima volta – poi si gira nella sua direzione, scuote la testa e, prima di riprendere a camminare, lo lascia interdetto come poche volte da quando ha iniziato a parlare.

«È la tua fidanzata, Damon? Dovrebbe proprio essere la tua fidanzata, secondo me.» lo osserva, confuso, per un paio di secondi, prima di alzare gli occhi al cielo e trascinarlo via.
Non si accorge del sorriso di Elena, soffocato contro il cuscino – né di quello di Lily, se è per questo.

 

***

«Quindi sei una specie di novella Jane Austen?»
«Non l'ho mai detto.»

«Te ne esci all'improvviso con “scrivo racconti, ti piacerebbe non leggerne uno”, cosa pretendi che ti chieda?»
Ha un broncio deliziosamente finto.
«”Avrei potuto perdonare la sua vanità, se non avesse mortificato la mia”4

 

«Non dirmi che eri una specie di stella del football, a scuola. Ne hai proprio l'aria.»
«Figurarsi. Quarterback, magari. No. Te lo dico solo se prometti di non ridere.»

«Non lo farò, te lo giuro.»
Incrocia le dita dietro la schiena, lui finge di non vederla.
«Ero nella banda – suonavo il pianoforte.»
Ride, ovviamente.

 

Elena fa presto a entrare dentro le persone – o forse fa presto a diventare parte integrante di quelle sue giornate tutte uguali e tutte tristi, momenti grigi che si colorano all'improvviso.
Passa una settimana, poi due, e le settimane diventano un mese e poi due e va bene così, lei resta ed è sempre più pallida e sempre più magra, ma non smette di sorridere quando lo vede entrare e lui non smette di cercare quel sorriso.

I polmoni di sua madre si fanno di giorno in giorno più deboli, e i suoi occhi sempre più stanchi – la chemio non dà esiti, e la paura di lasciarli soli le lascia solchi profondi attorno alle labbra.
Elena non domanda – non chiede di suo padre, anche se è sicuro che a volte lo veda, quando viene a farle visita; non chiede di progressi che sa non esistono – eppure resta, e Damon non sa quanto esserle grato per questo.

Elena resta, anche se sua madre lui ancora non l'ha mai vista – suo padre sì, una volta, e non ci tiene a ripetere l'esperienza, dopo essere stato squadrato come un insetto spiaccicato sul parabrezza – e anche se i suoi capelli non sono più folti come una volta – ci scherza sopra, passandosi le dita fra le ciocche deboli e molto più corte rispetto alla prima volta che le ha viste, ma Damon comprende il dolore nascosto e si limita a stringerle la mano, senza dire niente.

Quella è la prima sera che la vede piangere – quando Lily si addormenta, lei lo guarda e in quello sguardo c'è già tutto quello che non vuole dirgli.

Le prende le mani e sale sul letto, infilandosi fra lei e la testiera e limitandosi a tenerla stretta, mormorando fra quei capelli più corti e ancora profumati di rose (l'aveva sentito fin dalla prima volta – il profumo d'estati francesi e perdute) – piange in silenzio, Elena, e lo fa per tutte le cose insieme (per sua madre e per Liz, quella di Caroline, che se n'è andata due giorni prima –per lei, per quello che era e non sarà più, per le sue speranze distrutte, perché lo vede, Damon, che nemmeno per lei le infermiere hanno sguardi speranzosi, e questo gli fa male in un modo che non è sicuro di voler capire).

 

«È sorprendentemente facile, sai? Fingere di avere coraggio.»
«Tu non fingi, Lène.»

«Invece sì. Non sono coraggiosa – sono... sono terrorizzata, Damon.»

 

«È leucemia linfoblastica acuta. Che nome complicato, vero? Hanno tutti nomi complicati, come se non facessero già abbastanza paura così.»
«Andrà tutto bene, Elena.»

«Oh, piantala. Piantala. Non funziona nulla, ma... va bene. Va bene. Forse è quello che mi meritavo.»
Le sue mani tenute fra le proprie, dita intrecciate, sguardi che si evitano – gli trema la voce e non sa perché, non vuole saperlo, non può permetterselo.
«Non dirlo mai più.»

 

***

 

Sua madre di spegne una giornata nebbiosa di settembre – una giornata triste, già stupidamente fredda e incredibilmente comune.
Non che ne ricordi molto – ricorda la corsa in ospedale, il pianto di Stefan, l'espressione fredda di suo padre.

Ricorda le lacrime di Elena, quando li aveva visti arrivare.
Ricorda frammenti spezzati, e il dolore – costante, una ferita sanguinante.

Ricorda di aver pensato che non avrebbe potuto affrontare un altro giorno – ricorda la mano di lei nella sua, calda e viva e quei suoi occhi grandi e infiniti.

Ricorda di avercela fatta, alla fine.

 

Il funerale di Lily è come una fotografia sbiadita nella sua memoria – fotogrammi in bianco e nero, ombrelli scuri e odore di terra umida, la mano di Stefan nella sua (la sua voce esile che gli chiedeva dov'era la mamma, se sarebbe tornata a prenderli).
Giuseppe era in piedi lontano da loro, all'angolo opposto della fossa, vicino al prete – accanto a loro due, il padre di Elena e lei stessa, in sedia a rotelle, sotto il suo sguardo pieno di disappunto.

Gli teneva una mano appoggiata sul fianco e non piangeva, lasciando che fosse lui a poterle crollare addosso – alla fine l'aveva fatto, coprendo le sue dita con le proprie, permettendosi di lasciar cadere qualche lacrima, fingendo che fosse pioggia.

Lei aveva solo stretto più forte.

 

***

 

Una sera, qualche mese dopo, Damon la porta sul tetto dell'ospedale a vedere il cielo – lo fa anche se è freddo e anche se è tardi, perché tanto ormai i Gilbert li hanno quasi adottati, a lui e a suo fratello, e Grayson chiude un occhio (o anche tutti e due) quando si ferma troppo tempo con Elena.
Lo fa perché Elena era troppo malinconica e le sere in cui sono tristi entrambi sono le peggiori – sono quelle in cui finiscono per litigare, ed è l'ultima cosa che desidera fare.

Quindi raccoglie tutte le coperte che trova, prende in prestito una sedia a rotelle e l'aiuta a salirci sopra, ignorando le sue proteste – non le risponde nemmeno quando smette di lamentarsi e gli chiede dove stanno andando, perché vuole che sia una sorpresa.
Quando l'ascensore si ferma all'ultimo piano, Elena si volta verso di lui, sorpresa, le labbra dischiuse – apre la porta e fa passare la sedia con qualche difficoltà, ma ne vale la pena, per vedere il suo sguardo, dopo.

L'aria è gelida, ma il cielo è limpido e pulito e non c'è nemmeno troppo inquinamento luminoso – la porta fin sul bordo, poi si siede sul muretto e si gode a sua volta la vista (non conta che ogni tanto sbirci verso di lei, e che a volte il fantasma spezzato di un sorriso gli incrini la bocca al vederla così entusiasta).
Restano in silenzio, per un po' – poi Elena se ne esce con una delle sue domande assurde, e lui è quasi tentato di ridere. Però alla fine non lo fa – non ride quasi più, Damon, a malapena sorride, ma lei capisce e le va bene così.

«Cosa c'è dietro al cielo, secondo te?» Elena è l'ombra di quella che era quando l'ha conosciuta – più magra, ormai di capelli non ne ha più ed è tanto pallida da sembrare- (scaccia il paragone prima ancora che possa finire di pensarlo – no, lei starà bene. Starà bene), ma i suoi occhi sono ancora enormi e scuri come pozze d'acqua.
«Sono cose da scrittrice, queste. Non lo so. Solo altro cielo, suppongo.» le risponde senza guardarla più, fissando gli occhi alle stelle che ammiccano – non la vede in viso, quindi, quando parla di nuovo (e forse Damon non vorrebbe neanche farlo, perché le lacrime sono difficili da nascondere).

«Forse... forse è dove finiamo. Quando moriamo.»

 

Parla spesso di morte, Elena – lo fa senza pensarci o forse pensandoci troppo, senza essere più intimidita dal chiamarla col suo nome.
Gli fa paura, a volte – la sua rassegnazione.

Sono le volte come quelle che gli fanno desiderare di (baciarla) poterle rispondere.

 

***

 

È una di quelle volte che, alla fine, la bacia davvero.
Non sa nemmeno più su cosa stavano discutendo – perché stavano discutendo, non parlando.

Sa solo che Elena era... Elena era bella – era bella ed era triste, e lui aveva pensato che non avrebbe mai più avuto l'occasione di farlo e quindi l'aveva fatto e basta.
Aveva le labbra sorprendentemente morbide e incredibilmente sottili – la pelle secca sotto le sue carezze, gli occhi aperti e stupiti quando lui aveva aperto i suoi, così scuri da sembrare neri.

Quando alla fine si erano allontanati, avevano entrambi il fiatone e di certo non sa cosa si aspettava – sicuramente non si aspettava di venire schiaffeggiato.
Eppure è proprio quello che succede.

«Non farlo mai più.» le trema la voce, e lui vorrebbe solo poterla scuotere e capire, ma deve limitarsi a chiedere.
«Perché, Elena? So... so di non meritarti. Dovresti avere qualcuno che può essere propri tutto il contrario di me – qualcuno che non sia tanto spezzato e tanto inutile.» sa di esserlo, Damon, e non si spiega come possa lei non averlo ancora cacciato via – come possa sostenere anche il peso della sua sofferenza, quando la propria è già così grande.

Lei scuote la testa, nervosa – si morde le labbra ed è difficile trattenersi dall'allungarsi per baciarla ancora, prenderle le mani e sfiorare ogni nocca, ma lo fa lo stesso, a fatica – anche se ora che l'ha fatto una volta è quasi impossibile.

«Sono io che non merito te. Sai, ti farai male. Molto male. Non mi resta molto, e tu ti farai male, ed è proprio quello che non voglio.» alza lo sguardo all'improvviso e incontra di nuovo il suo, occhi chiari incapaci di nascondere nulla, «Dovresti scappare, Damon. Fallo. Ti prego, vai via.» ci crede davvero, ed è quello che gli fa più male.
Non può andare proprio da nessuna parte, Damon, e si chiede se in fondo non l'abbia capito anche lei.

«Non posso.» non posso lasciarti qui, non posso abbandonarti a te stessa, non posso starti lontano.
Sono tanti non posso insieme, ed Elena li comprende tutti.

Forse è per quello che alla fine si arrende, sbuffa, e un po' ride e un po' piange, ma alla fine lo abbraccia.

E, quando la bacia di nuovo, lo lascia fare.

 

«Era il mio primo bacio, sai?»
«Non ci credo.»

Lei arrossisce, un rosso sfumato, una caramella alla fragola.
«Invece sì – sai, non è che abbia avuto molto tempo per certe cose. E poi, “i sentimenti d'impeto devono essere guidati dalla ragione e ogni sforzo dev'essere proporzionato all'obbiettivo”. E, in ogni caso, “non è forse l'asocialità la vera essenza dell'amore?”»
Damon ride – ride davvero per la prima volta da mesi e mesi – e la stringe a sé, sfiorandole la spalla con le labbra.

«Possiamo rimediare.»

 

«E tu? Quanto baci hai dato prima d'ora?»
«Beh, qualcuno...»

«Per esempio?»
La sua fronte aggrottata, quel broncio adorabile – è stanca, lo vede, ma prova lo stesso a fingere che siano normali, e Damon sta al gioco perché alla fine non gli dispiace immaginare che la stanza d'ospedale sia un prato e che i neon siano il sole, finché ce l'ha accanto.
«Sei gelosa, ma petite
Lei sbuffa e ride – una risata fragile come vetro e falsa come un fiore finto.
«Certo che no

 

***

«Mi prometti che sarà per sempre?»
Lei sbuffa all'ennesima dimostrazione della sua incapacità di pensare al pratico.

«Sto morendo, Damon.»
Lui è più testardo, però – o forse semplicemente sa che alla fine cederà sempre.
«Tu promettimelo lo stesso – può essere per sempre comunque. Un per sempre metaforico.»
«Te lo prometto.»

 

«Elena?»
«Sì, signor-per-sempre-metaforico?»

Ti amo.
«Niente. Fa niente.»

 

È con lei, Damon, quando si addormenta per non svegliarsi più.
Sul tavolino c'è un vassoio intatto, perché ormai Elena è praticamente trasparente e non riesce a mangiare – nemmeno se lui ci prova, ad aiutarla, non ci riesce e basta – e dalla finestra entra la luce morente del tramonto.

È seduto dietro di lei, come quella prima volta in cui l'aveva vista piangere, le mani fra le sue e il suo corpo magro appoggiato addosso – non pesa niente, è come una piuma, ed Elena stavolta non piange, anche se in qualche modo deve sapere.

«Damon?» lo chiama, piano, sottovoce – forse pensa che stia dormendo, ma Damon non dorme mai quando è con lei perché ha troppa paura di svegliarsi e non trovarla più.
«Dimmi.» le risponde, altrettanto sottovoce, per non disturbare la quiete e per tenere calmo il suo mal di testa – si mostra sempre più spesso, ed Elena diventa incredibilmente irascibile, nel caso.

«Quando sarò morta-» lo sente prendere fiato per protestare e lo blocca prima ancora che possa pensare alla risposta, «e non dire niente. Quando sarò morta... lasciami andare. Io non volevo farti male, ma tu sei rimasto ed è ovvio che te ne farai – però... però lasciami andare. Non rimanere bloccato qui, con me, perché tu sarai vivo. Pensami, ogni tanto, ma non spesso – vivila, la tua vita. Anche per me, sai. E di'... di' a mia madre che va bene così, che la perdono – anzi, che non deve farsi perdonare niente. E a mio padre che gli voglio bene, perché mi dimentico sempre di dirglielo e invece... invece deve saperlo.» è da parecchio tempo che Elena non parla tanto a lungo – è stanca e affaticata e lui non la forza a fare più di quel che è necessario (gli manca la sua voce, ma non gliel'ha mai detto).

Forse in fondo lo sente, Damon – forse è per questo che sente le lacrime premere agli angoli degli occhi e la stringe più forte contro di sé, mentre annuisce, come se potesse trattenerla, come se potesse tenerla lì con la pura forza di volontà.
Annuisce anche lei, poi chiude gli occhi, la sua pelle sa ancora di rose.

Ed Elena solo non c'è più.

 

Anche di quel giorno non ricorda molto, Damon – ricorda il dolore, ricorda il volto di Grayson Gilbert e la sua stretta sulla spalla, ricorda luci bianche e la sensazione delle sue labbra sulle proprie.
Ricorda tutte quelle piccole cose che erano Elena e che ora non sono più, e non sa come potrà lasciarla andare – come potrà lasciare che tutte quelle piccole cose vadano perdute, quando sono così importanti, perché lei era importante.

(Lei che credeva di non avere coraggio, lei che sorrideva di un sorriso vero, lei che aveva gli occhi più belli del mondo, lei che era bella, lei che scriveva racconti che nessuno troverà mai, lei che citava Jane Austen, lei che amava la pioggia, lei che non capiva il francese ma insisteva per sentirlo parlare.
Lei lei lei, solo
lei).

 

***

 

Non sa esattamente come si ritrova sul tetto – né sa esattamente quanto tempo è passato, da quando Elena semplicemente ha smesso di esserci. E l'ha lasciato lì.
Sul tetto dell'ospedale, al freddo, senza nemmeno più lacrime da versare.

Guarda il cielo, Damon – è limpido come la prima sera che ce l'ha portata, e le stelle sono tutte lì, a osservarlo dalla loro posizione privilegiata.
Si chiede se da lassù gli uomini sembrino solo piccoli soldatini di stagno – se le loro morti siano giochi di bambini, per loro, se il loro dolore sia lontano tutti gli anni luce che li separano.

Poi si rende conto di stare pensando cose da scrittore, e il dolore si fa ancora più forte di quello che è già, come non credeva fosse possibile.
Le parole gli escono di bocca senza che le programmi, vengono fuori e basta, e se si concentra può risentire la sua voce.

Forse è dove finiamo. Quando moriamo.

«Dietro al cielo, dicevi. Sei lì, Elena?» parla come se lei fosse ancora lì accanto a lui, infagottata in chili di coperte nella sua sedia a rotelle – come se potesse rispondergli.
Se gliel'avesse detto allora, forse non farebbe così male – o forse sarebbe ancora peggio, anche se non sa come sia possibile sopportarlo, un dolore peggio di quello, peggio di quello strazio animale che gli distrugge l'anima e il cuore (gli fa desiderare di non averlo, un cuore, di non averlo mai scoperto, quello che chiamano amore).

Mi senti?

Vorrebbe gridarlo, ma alla fine non lo mormora neppure. Forse lo fa, forse no – forse Elena ancora è, da qualche parte, o forse no, e lui non lo saprà mai, e lei gli ha chiesto di lasciarla andare.
Come se fosse possibile e perfettamente normale.

Ogni tanto, si è chiesto se lei non avesse un'idea troppo alta di lui.
Se fosse solo la metà di quel che lei pensava, stringerebbe i denti e non lo direbbe – non confesserebbe quello che avrebbe dovuto dire a lei a quel mucchio di punti di fuoco e vento e polvere che si muove nell'aria.

Ma non lo è.

«Ti amo.» e quando l'ha detto una volta non fa altro che ripeterlo, Damon, come se a forza di farlo potesse anche avere una risposta – si chiede se lei l'avrebbe voluto, in fondo, lei che gli aveva detto di scappare.
Ha persino ancora lacrime da versare, si rende conto – persino singhiozzi ancora da spendere per lei, ma sono brevi e secchi come spari, e fanno male proprio come spari.

Non sa per quanto tempo resta lì – abbastanza da diventare insensibile al freddo e lasciarsi congelare le labbra con ancora il sapore del sale impresso addosso.
Il cielo non cambia, è sempre lo stesso – sempre lo stesso che ha visto con lei.

Alla fine finiscono anche le lacrime – finiscono per davvero, stavolta, quando si sente la gola scorticata a forza di sussurrare e piangere.
Si rialza, a fatica, e si prepara ad affrontare un altro giorno.

Ricorda di avercela fatta, una volta – si dice che potrà farlo una seconda, e anche se non ci crede è già un inizio.
Lo dice solo un'ultima volta, solo per sicurezza – solo un'ultima volta, e poi forse potrà lasciarla andare veramente, forse un giorno potrà anche farlo.

«Ti amo

 

Il vento non gli porta una risposta, ma in fondo Damon sa che non c'è mai stato davvero bisogno di dirlo.




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Note tecniche:


1 La traduzione è "Ti voglio bene, mamma" e poi "Bisogna sorridere, canarino mio. Bisogna sempre sorridere".
2 La filastrocca completa è qui. È una tipica filastrocca francese per bambini, che parla di un'allodola (aluoette) da spennare (plumer), elencando di storfa in strofa le parti (la testa, il becco, etc.)
3 "Soltanto per te, mia bella Elena"
4 Tutte le frasi fra virgolette sono citazioni da "Orgoglio e pregiudizio" della Austen.


Tutte le - vaghe - nozioni mediche sono state recuperate da vari siti, principalmente Wikipedia e AIRC.
Non ho voluto approfondire moltissimo perché nonostante le ricerche non sono un medico, e più che fare strafalcioni improponibili è meglio restare più distanti.
+

Tutti i riferimenti al "retro del cielo" vengono dal libro di Chiara Gamberale citato all'inizio, "Quattro etti d'amore, grazie" - il contesto però è diverso, e anche le conclusioni tratte da me rispetto ai suoi personaggi.
   
 
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