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Autore: RubyChubb    21/01/2009    5 recensioni
Aspettava da un’ora, seduta sulla sua valigia grigia e rigida, tutta graffiata. Intorno a lei migliaia di viaggiatori di ogni nazionalità, persone che esibivano cartelli con strani nomi neri di pennarello e famiglie che si ricongiungevano, tra baci ed abbracci.
Ma ancora nessuno per Joanna…
Seguito di "Four Guys in her Hair" - RubyChubb & McFly
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Four Guys in Her Hair & And That's How I Realize...'
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Fu così difficile aprire gli occhi e resistere alla prepotenza della chiara luce del sole che avrebbe preferito un pugno in pieno stomaco. Sarebbe stata una tortura più umana.
“Giorno…”
Quella frase fu una sorpresa.
“Buongiorno.”
“Hai russato… Stanotte.”, disse, con un piccolo riso.
“Beh… Però anche tu...”
“Anch'io cosa?”
“Anche tu hai russato!”
Sbuffò in una risata.
“Io non russo!”, disse Joanna, sentitasi toccata nel profondo della sua trachea.
“Ok, va bene.”, rispose Danny, con voce nasale, mentre si allontanava da lei per occupare la restante parte del letto, ancora quasi inutilizzata, “Comunque, buongiorno Little.”
“Giorno Dan.”
“Vado... In bagno, di là.”, borbottò.
Si stropicciò gli occhi e si grattò la testa, si stirò, sbadigliò e poi uscì, starnutendo. Joanna constatò che appena sveglio, Danny non era molto loquace e fu una cosa che stimò profondamente, lei che era abituata a non avere nessuno intorno prima di poter essere in grado di  mettere insieme anche i più semplici pensieri.  Occupò la parte centrale del letto, quella in cui di solito dormiva, ed osservò a mani unite sul petto la solita crepa sul soffitto, una spaccatura sulla vernice bianca. Dire che non aveva mai dormito così tranquillamente in vita sua era un’esagerazione bella e buona, ma si contentava di pensarlo almeno un po’, sebbene si sentisse la schiena dolorante, il collo bloccato e le spalle tese... Doveva ammetterlo, aveva dormito da schifo: Danny e il suo respiro pesante in un orecchio, tutta la notte in quella medesima posizione.
Nascosta tra le sue braccia, Joanna lo aveva sentito piangere, senza aver avuto il coraggio di dire o fare qualsiasi cosa. Non ce l’aveva fatta, non avrebbe mai voluto assistere al suo crollo, non si sarebbe mai immaginata un Danny così debole e fragile.  Un Danny che aveva avuto bisogno di lei. L’unico momento in cui era stata ‘costretta’ a vedere i suoi occhi rossi e gonfi, molto più dei suoi che pure avevano pianto con lui, era stato quando si era dovuta alzare per prendere dei fazzoletti, uno per entrambi. Mentre glielo passava erano sbuffati in una risata, imbarazzati.
“Non lo raccontare a nessuno, mi raccomando.”, le aveva detto lui, “O sarò costretto ad eliminarti.”
Senza troppa voglia di parlare, erano tornati a stendersi. Qualche sbadiglio e lei si era addormentata, distesa su un fianco come sempre. Poco dopo era stata svegliata da un lieve muoversi del materasso, aveva sentito Danny avvicinarsi  ed abbracciarla ancora, ma era troppo addormentata per poter essere in grado di rispondere in qualche modo. Era stata quasi sicura che fosse stato uno dei suoi tanti sogni, ma si era svegliata con il suo ronfare nelle orecchie e lo aveva trovato ancora lì, dietro di lei.
Un lieve bussare alla porta interruppe il suo lento risveglio.
“Jo?”, la chiamò Arianna.
“Entra pure.”, le fece.
Ne approfittò per alzarsi e darsi una sistemata, mentre la donna prendeva posto nella stanza e le apriva la finestra, con un sorriso in faccia.
“Nottataccia?”, domandò la donna, notando certamente la sua faccia stanca.
“Abbastanza.”, le rispose.
“Brutti sogni?”, Arianna si sedette sul davanzale della finestra, le braccia incrociate sul petto.
“No... Brutte compagnie.”
La donna la guardò lievemente perplessa, poi strabuzzò gli occhi. Joanna anticipò ogni sua possibile domanda imbarazzante mettendo subito in chiaro l’innocenza di quello che era successo.
“Abbiamo solamente dormito insieme, dopo aver litigato come dei dementi.”, le fece, ad un passo dalla soglia del bagno.
“E’ sempre qualcosa!”, esclamò l’altra, contenta, “Perché avete litigato?”
“Beh... Un mucchio di cose e nessuna in particolare.”, le fece, aprendo l'acqua del rubinetto, “Abbiamo discusso in giro per Firenze, anche quando siamo tornati, poi ancora un’altro paio di volte... Ed altre ancora.”
“Riguardo a cosa, spiegati.”, insistette la curiosità di Arianna.
Joanna alzò le spalle, la faccia appena asciugata dalla fresca acqua del rubinetto.
“Me, Dougie e lui.”, le disse.
“Ancora con queste cazzo di geometrie!”, protestò Arianna, “Che cosa c’è tra di voi adesso? Un triangolo, un poliedro a sette facce o un trapezio isoscele?”
“Un quadrato.”, disse Joanna, togliendosi la t-shirt senza troppi problemi.
Ignorò il riflesso della sua cicatrice sullo specchio. Poteva anche essere arrivato il tempo di dimenticarla e ricordarsene solo una volta ogni tanto, quando era strettamente necessario.
“Questa geometria dei rapporti mi suona nuova, ma deduco che il quarto angolo sia occupato da Tamara.”
Le annuì.
“Però mi spieghi che cosa c’entra ancora Dougie?”, disse ancora Arianna.
E gli disse della storia di quel bacio sbagliato, a lei ancora inedita, della reazione di Danny e della sua.
“Siete come due arieti.”, disse Arianna, “Vi incornate per il semplice gusto di farlo.”
“E non sai che lui e Tamara si sono lasciati.”, le rivelò.
Arianna esplose in una risata.
“Ha scoperto che non è da sua madre, vero?”
“Non essere così cinica!”, la sgridò, “Danny ci sta male.”
“Vedi che troverà presto qualcuno con cui consolarsi, fidati di me.”, le disse Arianna, con tono complice.
“Certamente, la prima che passa!”, le rispose con sarcasmo, “Arianna, per piacere, dacci un taglio.”
“Vedremo chi ha ragione tra me e te.”, la sfidò la donna, e si avviò verso la porta.
Prima di uscire, però tornò a parlarle.
“Prima che tu possa dire di no, vedi di farti trovare giù tra mezzora, pronta per uscire.”
“Dove vorresti che io venissi?”, le chiese, spuntando fuori dal bagno, perplessa.
“Dove voglio io.”, rispose lei, strizzando un occhiolino, per poi sparire.
Joanna cercò conforto nella sua immagine allo specchio. Due dita premute sulle occhiaie, Joanna costrinse la pelle verso il basso, mostrando a se stessa il gonfiore dei suoi occhi. Si vide stanca e depressa, ma soprattutto di un pallore cadaverico che quasi la spaventò. Guardò indietro nel tempo e ripensò a quella settimana tremenda, al non aver quasi mai messo fuori la testa dalla porta di casa, se non per qualche ora del giorno precedente. Forse una giornata spensierata con Arianna le avrebbe fatto bene, lei che era sempre stata capace di distrarla anche da quello che necessitava più attenzione di qualsiasi altra cosa.
Magari, Danny si sarebbe sentito solo in casa… Ma una giornata da donne era comunque una giornata da donne, off limits per l’altro sesso. Sentì bussare ancora alla porta.
“Sì?”, fece, alzando la voce.
“Viene anche il tuo amico!”, la informò Arianna.
Come non detto.
 
 
 
“Sapete qual è il migliore antidepressivo del mondo?”, esclamò Arianna.
Camminava dritta e a passo svelto davanti a loro, che la seguivano senza dirsi molto.
“Eh? Lo sapete?”
“Mi vengono a mente un paio di risposte….”, le rispose scherzosamente, incrociando le braccia e guardando complice verso Littl.
Danny aveva un braccio indolenzito, un leggero cerchio alla testa e la gola non dava segno di stare piuttosto bene. Però lui sì, lui si sentiva bene, lievemente imbarazzato, ma bene. Aveva già dormito con lei, un anno fa, nella stanza d’albergo prima della partenza, ma non era stata proprio la stessa cosa.
“Sicuramente non c’entra niente con quello che intendo io.”, fece la donna, voltandosi per guardarlo al di là dei suoi occhiali da sole alla moda, “Tu, Jo, hai qualche idea in proposito?”
“Purtroppo sì.”, rispose lei, sospirando, “Arianna, per lui sarà una specie di supplizio cinese.”
“E dai, sono certa che si divertirà da morire!”, disse Arianna.
Doveva iniziare a preoccuparsi? Forse sì.
“Che cos'ha in testa?”, Danny domandò a Little, sottovoce.
Lei lo guardò come se fosse stato veramente il caso di scomparire dalla faccia della terra.
 
 
 
“Dio, che male!”, borbottava Arianna, in piedi davanti allo specchio, “E poi, guardate, non vanno bene!”
“Proviamo con un altro modello?”, le chiese il ragazzo.
Un altro ancora? C’erano ben venti paia di scarpe intorno a loro, forse trenta, e quel santo del commesso stava sudando camicie su camicie per accontentare quel diavolo di Arianna. Decine di scatole aperte, carta velina appallottolata ovunque, stanghette di plastica, coperchi… E loro due seduti annoiati, nell’attesa che Arianna scegliesse almeno uno tra tutto quel ben di Dio sciolto per terra. Adesso capiva qual era la tortura a cui si era riferita Little.
“Sì, forse è il caso di provarne un altro… E poi il colore non si intona con la mia pelle.”, Arianna giustificò così l’ennesimo rifiuto.
Il ragazzo, che doveva avere poco più della sua età, si asciugò la fronte e si alzò, diretto verso il magazzino. Ebbe il vago sospetto di quello che Arianna aveva davvero in mente.
“Ne comprerai qualcuna?”, le domandò Danny.
Non aveva capiva l’italiano parlato tra lei e il commesso, ma aveva saputo leggere tra le righe ed Arianna non sembrava per niente interessata all’acquisto di nessuna di quelle scarpe, ma sembrava provarci gusto nel torturare quel povero ragazzo.
“Nemmeno per idea, non saprei dove metterle.”, disse Arianna, sedendosi tra lui e Little, “Ne ho talmente tante!”
“E allora perché fai impazzire quel commesso?”, le fece, ridendo, “Ti odierà a morte!”
“Beh, caro Danny, devi sapere che il proprietario di questo negozio è un mio ex e che ogni tanto vengo qua a ricordargli quanto è stato stronzo.”, spiegò la donna, sistemandosi comoda, braccia allungate sugli schienali dietro di loro e gambe accavallate, con il piede nudo che dondolava aritmicamente.
“Ma i suoi impiegati non c’entrano niente in quello che è successo tra te e Marco!”, esclamò Little.
“Sì ma dopo che me ne andrò insoddisfatta quel cristo si licenzierà e quel caro vecchio bastardo dovrà trovarsi un altro commesso!”
Ecco spiegato il suo diabolico piano. Certo che le donne sapevano essere davvero perfide.
Arianna si provò un altro paio di sandali e, come aveva detto loro, se ne andò senza comprare niente, lasciando il negozio completamente distrutto dal suo passaggio.
“Oh! Adesso la nostra giornata può davvero iniziare!”, li stupì di nuovo la donna, una volta fuori dal negozio.
Arianna si mise alla testa del gruppo e, come un Cicerone, li guidò per il centro della città. Davanti a loro si sarebbe spiegata una giornata passata davanti alle vetrine dei negozi a commentare prezzi, abiti, scarpe, borse e quant’altro i commercianti del posto avevano da offrire ai clienti, sia turisti che normali cittadini. L’esuberanza della donna metteva a tacere sia lui che Little, che camminava sempre silenziosa davanti a lui e parlava solo se il suo parere veniva richiesto.
“Sei sicura di sentirti a posto?”, le domandò, approfittando della temporanea assenza di Arianna, corsa dentro ad una tabaccheria per acquistare un pacchetto di sigarette.
Lui, che fumava abitualmente ma non troppo, si accorse di non aver toccato il suo pacchetto da giorni, se non in qualche sporadica occasione di cui nemmeno si ricordava.
“Sì, te l’ho detto, sono solo un po’ stanca.”, gli ripeté lei, “E questa giornata sarà snervante.”
“Non hai dormito bene stanotte, vero?”, le chiese ancora.
“No…”, rispose lei, sorridendogli, a disagio.
“Beh, per quello nemmeno io.”, le disse, rispondendo con lo stesso sorriso, “Però… Ora sto meglio e volevo dirti che…”
 “Ragazzi!!!”, li chiamò Arianna, a gran voce, a qualche metro da loro, “E’ ora di pranzo!”
La guardò, promettendole così che glielo avrebbe detto più tardi.
Non aveva niente di speciale da farle sapere, solo che non capiva più niente di quello che provava.
 
 
Era piacevole stare ad ascoltare la parlantina veloce e fluida di Arianna e il suo perfetto accento londinese, quasi un po’ troppo sofisticato e altrettanto quasi inspiegabile per un’italiana purosangue come lei, soprattutto perché era quasi impossibile sentire qualche altra voce, tranne la sua. Un vulcano in eruzione aveva molte meno da dire di lei. Per tutto il pranzo fu la protagonista, così come per la prima parte della giornata, passata in quel negozio di scarpe e poi in un frenetico e veloce giro per i vicoli del centro.
Seppe così che aveva vissuto gran parte della sua adolescenza  e dei suoi venti anni nel quartiere bene di Soho, a Londra: suo padre era stato direttore della filiale inglese di una qualche importante azienda italiana, almeno finché un infarto non lo stroncò in due, citando le esatte parole da lei utilizzate. Da quel momento in poi aveva fatto la spola tra l’Italia, dove era tornata ad abitare sua madre, e il Regno Unito, dove continuava a lavorare; infine era tornata a stabilirsi nella città dove era nata, Firenze appunto, dopo che anche sua madre l’aveva lasciata. Aveva aperto quel locale, lo ‘Strictly English’, ed il resto della storia si perse di lì a poco.  Aveva quarantadue anni portati più che perfettamente ed aveva avuto una vita abbastanza movimentata, si disse Danny.
“Vado a pagare.”, fece poi Arianna, alzandosi e prendendo la sua borsa.
“No, vorrei offrire il pranzo ad entrambe.”, si oppose lui, “Ci terrei davvero.”
“Non ci pensare! Siediti e non controbattere!”, Arianna si impose su di lui, lasciandolo alquanto di stucco.
Quella donna sapeva davvero come togliere le parole dalle bocche altrui, nel senso che non dava chance di risposta. Non poté fare altro che accontentarla e, anche se la sua buona educazione gli stava imponendo di alzarsi e pagare il conto, lasciò perdere.
“E’ sempre così?”, domandò a Little, riferendosi ad Arianna.
“E’ una femminista.”, rispose lei, sorridendo stancamente, “Non è mai contenta di farsi precedere dagli uomini.”
“Ah... E’ che a volte mi spaventa.”, disse Danny, “E’ sempre un passo avanti a me.”
“Appunto, sei un uomo.”, scherzò lei.
Poi sospirò e prese l’ultimo sorso della sua acqua.
“Perché sei così silenziosa?”, le volle chiedere, ora che l’intimità di quel posto affollato era migliore della calma di una stanza vuota.
“Non sono affatto silenziosa.”, si difese lei, ridacchiando, “E’ solo che non ho molte cose da dire.”
“Ma se c’è qualcosa che ti disturba, dimmelo pure, non ti vergognare.”
“Non essere così in apprensione per me, Danny, sto davvero bene.”, ripeté lei, provando a rassicurarlo, “Credimi.”
Fu spontaneo prenderle la mano.
“Ti credo.”, le fece, “Sarai pure silenziosa, ma sei sempre...”
“Jo!”, la chiamò Arianna, “Non hanno da farmi il resto, hai mica qualche spicciolo con te?”
Chiuse la bocca, trattenendo quello che voleva dire per la seconda volta.
 
 
 
A metà giornata gli venne quasi da inginocchiarsi, unire le mani e pregare tutte le divinità ancora sopravvissute allo sterminio religioso moderno, e non doveva essere l’unico ad avere quella particolare voglia, anche Little si stava spazientendo.
“Mi fanno male i piedi...”, si lamentò lei, uscendo dall’ennesimo negozio, Arianna sempre al capo della fila.
“A chi lo dici.”, le disse Danny, “Prenderei quasi un taxi e...”
“Quanto è carino questo vestito!”, sentirono esclamare da Arianna.
“Gesù, ti prego...”, piagnucolò Little, mettendosi sconsolata le mani sui fianchi, “Abbi pietà di noi...”
Sbuffò in una risata, quella specie di tour nell’inferno dei mancati acquisti li stava veramente ammazzando dalla fatica. Ogni negozio era loro, ogni vetrina attirava l’attenzione di Arianna, che li costringeva a seguirla come se fossero stati i suoi cagnolini.
“Arianna, per favore.”, le fece Little, “Andiamo a casa, sono le cinque del pomeriggio, siamo stanchi...”
“Questo è l’ultimo negozio.”, disse la donna, con sicurezza, “Lo prometto.”
“E’ dalle tre che lo dici.”, borbottò ancora Little, “Possiamo andare a casa?”
“No, assolutamente no.”, si oppose fermamente la donna, “Entriamo qui, ti provi questo vestito e poi ce ne andiamo.”
La punta del dito della donna indicò una vetrina familiare: mostrava quel vestito azzurro che aveva visto il giorno precedente, poco prima che un animato diverbio li costringesse a litigare.
“Non ne ho voglia...”, disse Little, “E poi non ho molti soldi da spendere.”
“Te lo regalo io.”, Danny colse subito l’occasione.
Lei scosse prontamente la testa.
“No, e poi sta meglio al manichino.”, si imbronciò lei.
Danny incrociò le braccia e alzò le spalle.
“Ma sì, quel manichino è così attraente...”
 
 
 
“Usciamo di qua.”
“No.”
“Andiamo...”
“No.... E’ troppo scollato.”
“Jo, fuori dal camerino.”
“Arianna!”
Rise ancora e scossela testa. Seduto sul divanetto circolare del negozio, Danny aspettava che le due donne uscissero dall’angusto camerino.
“Ma Arianna...”, frignò ancora Little, “Per favore, mi sento mezza nuda.... E poi si vede... Troppo!”
“Ma se lo sistemi così...”
“E’ lo stesso!”, disse ancora Little, “Mi cambio.”
Decise di intervenire.
“Andiamo, Little, fammi giudicare.”, le fece, cercando di invogliarla ad uscire.
La prima a spuntare fu Arianna, che sgattaiolò senza aprire troppo la tenda scura, poi fu la sua testolina bionda ad apparire.
“Mi vergogno.”, disse Little, “Non ho mai avuto un vestito così.”
Le sorrise.
“Vengo a tirarti fuori?”, la avvertì scherzosamente.
Lei roteò gli occhi, poi ritrasse la testa dentro al camerino, come se fosse stato il suo carapace personale. Dovette attendere ancora diversi secondi prima che lo accontentasse.
Per prima cosa vide la mano destra, che teneva fermo il lembo destro della parte superiore del vestito, e le labbra arrossate, torturate dai continui morsi che si infieriva. Poi notò l’azzurro tenue, le spalline che scendevano e si univano alla stoffa dritta, sopra il petto, fasciandolo. Il lino continuava  liscio e leggero, qualche centimetro sopra le ginocchia, ricordandogli la moda degli anni cinquanta.
Si voltò verso Arianna, seduta accanto a lui. La donna alzò le spalle, sorridendo.
“E quella chi è?”, le chiese, scherzando, “Tu la conosci?”
“Mai vista prima.”, rispose Arianna, “Non so proprio chi sia.”
“Smettetela!”, li rimproverò Little, coprendosi il petto con le braccia, “Mi fate sentire come una scema!”
“Eppure sembra che ci conosca!”, continuò a prenderla in giro Arianna, “Ci parla!”
“Basta!”, esclamò Little.
Anche Little se stava ridendo, quello che aveva detto lo pensava veramente. Non sembrava affatto lei, quel vestito le stava così bene che Little non era più Little, ma una donna di ventuno anni, uno solo in meno di lui. Glielo avrebbe sicuramente regalato, non c’era ombra di dubbio. Era semplicemente fatto per starle indosso.
“E’ perfetto, Little.”, le fece.
“Non raccontare balle!”, sbottò lei, “Faccio schifo, lo so.”
“Giravolta, per favore.”, disse Arianna, facendo volteggiare un dito, “Mostra il panorama.”
Sbuffò, ma la accontentò. Nervosa, continuava a reggere la spallina destra del vestito, come se ci fosse stato un difetto di fabbricazione.
“E’ rotto per caso?”, le chiese, indicandola.
“Beh…”, borbottò lei, insicura.
“Lasciala pure.”, le disse Arianna, con un sorriso ed una voce rassicurante.
Little si morse il labbro, poi abbassò la mano, e la spallina si sistemò da sola su di lei. L’aveva già vista, non solo il giorno prima, quando era entrato in camera sua cogliendola alla sprovvista. Si ricordò del ristorante greco, di quella cena surreale, di lei che si era alzata dalla sedia e la maglietta che si era spostata, rivelando quel segno indelebile che lei prontamente aveva ricoperto.
Si accorse di stare a fissarla come un cretino.
“Scusa.”, le fece, “Mi ero scordato...”
“Fa niente.”, rispose lei, “E’ ormai un ricordo... Come tante altre cose.”
Le sorrise, ricevendo la stessa espressione in cambio.
“Aggiudicato!”, esclamò poi Danny.
“Ma no, lascia stare.”, si oppose ancora lei, “Sta davvero meglio al manichino.”
“Andiamo, non ti ho mai regalato niente, nemmeno per il tuo compleanno… Voglio recuperare.”
 
 
 
Il vestito se ne stava riposto nella busta di carta, rigida e plastificata, tenuta tra le mani di Joanna.
“Possiamo andare adesso?”, domandò, “Non ne posso veramente più.”
“Ah, non sei l’unica.”, le rispose Arianna, “Torniamo a casa, è meglio.”
Quella busta era leggera, ma pesante allo stesso tempo. Non conteneva solo un abito, ma l’abito, uno in particolare, quello che Danny le aveva regalato. Era stupido, era adolescenziale, era da ragazzine di quattordici anni, ma Joanna non aveva mai avuto quell’età e, anche se sarebbe stata comunque un’illusione, quel regalo significava molto di più di una qualsiasi parola detta.
“Andiamo di qua?”, chiese Arianna, indicando verso Ponte Vecchio.
Non ebbe nemmeno tempo di risponderle che aveva già voltato verso destra e, mischiandosi tra i turisti, si trovarono nel bel mezzo della calca che affollava il ponte.
“Non mi sembrava di essere passato dal ponte, prima.”, disse Danny, perplesso, “Me ne ricorderei.”
“Sì, ma tutte le strade portano alla nostra auto… Più o meno.”, gli spiegò.
“E questa più o meno delle altre?”, chiese lui, con ironia.
“Meno…”, sospirò Joanna, che aveva trovato del tutto irrazionale quella scelta di Arianna.
A dire il vero era tutta la giornata che Joanna la vedeva strana, troppo iperattiva, troppo incomprensibile, troppo enigmatica. Era da un bel pezzo che sentiva la sensazione che Arianna avesse in mente qualcosa di preciso.
Come era logico che accadesse, fu difficile districarsi nella marea di persone intorno a loro, ma la mano ferma di Arianna sul suo polso fece da guida.
“Non vedo più Danny.”, le disse Joanna.
Si fermarono e lo attesero, bloccato da un gruppo di lenti e anziani signori.
“Assicurati che non si perda.”, disse Arianna, “Anche se è alto quanto un palo della luce, c’è sempre un buon motivo per smarrirlo da qualche parte.”
“E come faccio, gli metto un guinzaglio?”, scherzò Joanna, che rise alla sola immagine.
Nel frattempo Danny le aveva già raggiunte e tornarono a camminare a stento, rallentati dal flusso di persone, finché non si trovarono fermi a metà ponte.
“Visto che sembriamo in processione”, fece ancora Arianna, “sediamoci qualche minuto sulla balaustra del ponte.”
“Arianna, andiamo a casa.”, insistette lei, lievemente stufata, seguendola insieme a Danny, “Non ne posso più di stare in giro per la città.”
“Ma che bel panorama!”, la ignorò totalmente Arianna, “Ci facciamo fare una foto tutti insieme?”
“Oh Gesù…”, borbottò Joanna, “Ti giuro che, appena siamo sole, cercherò di sopprimerti. Te lo prometto.”
“Avanti, cosa vuoi che sia una foto.”, le disse Danny, incoraggiandola.
“Ma non ha nemmeno la macchina fotografica con sé!”, si arrabbiò lei.
“E invece ce l’ho!”, esclamò Arianna tutta contenta.
Quella era la pura dimostrazione del fatto che aveva sempre avuto un’idea in mente, e non poteva essere il voler farsi ritrarre in una foto, per di più in un posto affollato come quello. Si frugò in borsa e tirò fuori la custodia marroncina che anche Joanna conosceva e che conteneva la sua fotocamera. Fermò il primo turista, gli spiegò velocemente come fare e, dopo qualche secondo, Arianna teneva abbracciati entrambi, lei e Danny, e sorrideva insieme al loro all’obiettivo. Disturbò ancora quel signore chiedendo di scattarne un’altra perché pensava di essere stata ripresa ad occhi chiusi, e poi li liberò.
“Possiamo andare?”, le domandò Joanna, ufficialmente scocciata.
“No, ora ne faccio una a voi due.”, disse lei, sorniona.
“Un’altra volta… Stasera! In giardino!”, le propose, “C’è  un bellissimo panorama da lì!”
“Taci.”, la chetò con fare aulico la donna, e le impose di posare per un’altra foto.
“E va bene…”, sbuffò, tornando verso la balaustra dove Danny se ne stava in attesa, a braccia incrociate.
Solo due passi, ma notò subito che qualcosa lo stava preoccupando. Sembrava con la testa da tutt’altra parte.
“Qualcosa che non va, Dan?”, gli domandò.
“Beh… Dopo, ok?”, tagliò corto lui, accortosi.
Si accontentò di quella semplice risposta, sapeva che non era quello il posto per chiedere ulteriori spiegazioni.
“Avvicinatevi, stoccafissi!”, disse Arianna.
Appoggiati alla balaustra, braccia incrociate o mani in tasca, sorridevano freddamente alla macchina. Lui per i suoi motivi, lei per lui.
“Non è una foto segnaletica, avanti!”, li esortò la donna a migliorarsi, “Metteteci un po’ di pathos!”
 
 
 
“Ma sono venuta con gli occhi chiusi!”, si lamentò Little, una volta tornati a casa, con la macchina digitale tra le dita che le mostrava la foto scattate su quel ponte.
Oltretutto, la luce dell'immagine era pessima ed anche lui non esibiva la sua migliore espressione. Aveva avuto il suo momento di personale smarrimento quando, poco prima di salire sul ponte, il suo cellulare aveva vibrato, in tasca. Lo aveva recuperato, ma non aveva risposto.
Non gli era sembrato il caso di parlare con Tamara, che sicuramente non aveva avuto nient’altro da dirgli tranne che aveva lasciato casa. Era ancora convinto che non potevano chiudere la loro storia con una telefonata, anche se per il momento non c’era nulla da aggiungere, ma tutto da ingoiare. Non aveva tempo per pensarci, non era quella la sua unica preoccupazione.
“Dai, rifacciamola.”, le fece, cercando di consolarla, “Potremmo scattarla fuori, nel giardino come avevi detto tu, il panorama è anche migliore che sul ponte.”
Lei annuì, comunque incerta, ed insieme andarono fuori.
“Chiamiamo Arianna, non so come si faccia a mettere l’autoscatto.”, disse lei, esaminando la fotocamera.
Provò a chiamare il suo nome più volte finché la donna si affacciò alla finestra della camera, con un asciugamano in testa e l’accappatoio indosso, segno che si era voluta donare una doccia rilassante, di cui anche lui sentiva di averne il bisogno.
“Volevo soltanto chiederti se potevi farci un’altra fotografia.”, le disse Little.
“Tra cinque minuti?”, chiese clemenza Arianna.
“Ok!”
E Little tornò ad esaminare la macchina fotografica, che sembrava un oggetto del tutto estraneo per lei.
“Perché non metti il vestito che ti ho comprato?”, le chiese.
Venne naturale, da sé.
Lei scosse la testa.
“Lo sporcherò di sicuro.”, disse, “E poi non mi va.”
“Perché?”, le chiese.
Lei alzò le spalle, come se non ci fosse un motivo apparente alla sua decisione.
“Mi sento a disagio.”, si spiegò poi.
“Credimi, Little, quando ti dico che ti sta bene. Davvero…”, le fece ancora, “Non essere così insicura, fidati di me.”
Lo scrutò, come se cercasse di capire se le stesse mentendo.
“Va bene.”
Gli lasciò la macchina fotografica e, un passo dopo l’altro, si allontanò.
 
 
 
“Che ci fai con il vestito addosso?”, le chiese Arianna cogliendola alle spalle, alla sprovvista, lungo il corridoio.
Si voltò, come se fosse stata colta con le mani dentro ad un barattolo gigantesco di marmellata.
“Mi ha chiesto Danny …  Di metterlo.”, le spiegò.
Arianna si espresse con un paio di occhi furbi, appartenenti alla lei che ne sapeva sempre una più del diavolo, e sorrise con malizia.
“Chiamo Luigi, è meglio.”, disse, tornando verso la sua stanza.
“Eh? Cosa hai detto? Chi è Luigi?”, le domandò, allarmata.
“Un tizio insulso con cui sono stata ieri sera, a cena fuori.”, le spiegò, scrollando annoiata le spalle.
“Ah…”, fece lei, che nemmeno si era accorta della sua assenza la sera precedente.
Era incredibile quanto fosse capace di estraniarsi dal resto del mondo quando si trattava di lei e di Danny. Tutto quello non era molto salutare…
“E perché lo devi chiamare?”, insistette Joanna.
“Perché ho improvvisamente voglia di starlo ad ascoltare mentre racconta barbose storielle patetiche.”, borbottò, con tono decadente, “E poi perché non sono scema.”
“Non ho mai detto che tu lo sia.”, disse Joanna, non comprendendola.
“Allora buona serata!”, trillò la voce di Arianna.
E comprese.
Comprese tutto il piano di Arianna, tutti gli episodi apparentemente casuali. La foto, il vestito, la giornata insieme appena trascorsa, inclusa quella precedente. Comprese tutto, le sue improvvise uscite, sparizioni, le riapparizioni… Per cosa? Per niente. Potevano essere gesti da amica, per invogliare il far accadere qualcosa che mai sarebbe successo.
Nella mente di Danny c’era una persona, ma non era lei.
“Ti direi grazie per tutto quello che hai fatto ma…”
“Prego!”, la interruppe subito Arianna.
“Ma…”, riprese prontamente Joanna, “Cosa credi di fare?”
“Ti ricambio favore.”, si spiegò Arianna, con semplicità.
“Un favore? Ricambiare un favore?”, le fece, incredula.
Arianna si appoggiò allo stipite della porta di camera sua e le sorrise.
“Il favore di avermi fatto compagnia in questa grande casa vuota.”, disse poi.
Rimase senza parole, cosa abbastanza frequente.
“Sì, lo so che lo sai che mi sento sempre un po’ sola.”, balbettò Arianna, lievemente imbarazzata, “E quindi non vedo perché non aiutarti con quello scemo.”
“Ma lui ha Tamara, e io sono solo Little.”, le rispose, allargando le braccia, rassegnata.
“Sono sicura che sia già qualcosa.”, annuì l’altra, “Anzi, che sia sempre stato qualcosa.”
La capiva? Ovviamente no, era troppo chiederle di essere più esplicita.
Nel frattempo Arianna si era nuovamente chiusa in camera.
“E la fotografia?”, le chiese, senza ricevere risposta.
 
 
Si era appoggiato alla staccionata di legno, in attesa, macchina fotografica in mano. Non appena aveva iniziato a sentire il telefono vibrare ancora nella tasca sinistra dei suoi pantaloni si era voltato verso il panorama, concentrandosi sulle colline.
Ma non aveva saputo resistere.
Aveva allungato le dita e l’aveva preso, sebbene sapesse già chi fosse.
Ripose il telefono in tasca e lo ignorò, come aveva già fatto.
“Dan?”, lo chiamò Little, dietro di lui, arrivata silenziosa.
Si voltò di scatto, cancellando l’espressione dipintasi su di lui. La vibrazione tornò a torturarlo.
“Hey, già pronta?”, le chiese.
Lei annuì ed abbassò la testa per guardarsi; prese due lembi del vestito.
“Ma sei veramente sicuro che mi stia bene?”, chiese.
Maledetta lei e la sua incertezza.
“Ok, sarò sincero, sta meglio a me.”, scherzò, contento nel vederla ridere, “Dov’è Arianna?”
“In preparazione.”, rispose lei, alzando le spalle.
“Per cosa?”
“Se ne va di nuovo. Dice che vuole uscire con un tale...”, borbottò lei, giocherellando con le dita.
“Ah...”
La mondanità di quella donna era spaventevole.
“Allora... La facciamo questa foto o no?”, le fece, agitando la macchina tra le mani.
“Hai capito come funziona l’autoscatto?”, chiese lei, tornando ad osservarla come se fosse stata una navicella da Marte.
“Funziona così.”, le fece, “Vieni qua.”
La prese delicatamente per una mano e la fece voltare, per dare le spalle al paesaggio dietro di loro, ormai sulla via delle tinte calde e rosse della sera. Si avvicinò a lei, appoggiò il mento sulla sua spalla e, puntando la fotocamera davanti a loro, allungò le braccia più che poté.
I capelli di Little gli solleticavano la guancia e, con un lieve gesto, li scostò.
“Sorridi.”, le disse.
E premette il bottone.
“Fatto.”
Abbassò le braccia.
“Speriamo sia venuta bene, almeno stavolta.”, disse Little, voltandosi lievemente verso di lui.
“Ne possiamo scattare anche un’altra, se non ci piace.”, le rispose.
Verde, tanto verde, troppo vicino. Troppo, troppo vicino.
Sentì le orecchie tapparsi, otturarsi completamente, la pressione dentro di esse farsi insopportabile. Avrebbe potuto distogliere gli occhi dai suoi, spostarsi, respirare. Avrebbe potuto fare tantissime cose, ma semplicemente non ci riusciva. Le soluzioni per sottrarsi a quel verde intenso erano migliaia, tutte efficaci… Tutte impossibili da mettere in atto.
Provò a sbattere le palpebre, ma niente, non riusciva a sottrarsene.
Il telefono prese a vibrare ancora, nella tasca, facendolo sussultare. Drizzò la schiena, balbettò qualcosa e lo prese.
“Rispondo... Un attimo.”, disse, allontanandosi di qualche metro.
Little annuì, stringendosi in un sorriso, ed avviandosi verso la casa.
Sospirò.
Guardò lo schermo, era sempre lei.
Rifiutò la chiamata e spense il cellulare.
 
 
Dentro ad un paio di comodi pantaloncini e ad una t-shirt stava molto più comoda che in quel vestito, tornato nel suo armadio su una stampella. L’avrebbe indossato per occasioni più adatte, non quella, la pizza che stava mangiando avrebbe potuto sporcarlo. Avevano deciso di cenare all’aperto, all’aria fresca del giardino.
Seduti davanti alla staccionata, uno accanto all’altro, il cartone della cena sulle gambe.
“Credi che un giorno riusciremo a parlare senza litigare?”, domandò scherzosamente Danny, dopo aver mangiato il suo spicchio di pizza.
“Sarà impossibile.”, gli rispose, “Sei urticante, Jones.”
“Anche tu non scherzi, Little.”, le fece lui, “Quando ti arrabbi ti si vedono le vene, qua…”
Danny le passò un dito velocemente sul collo e Joanna tacque il brivido che sentì stuzzicarle la nuca. Non fu però in grado di resistere al guardarlo dritto negli occhi, come era successo dopo lo scatto della fotografia. Se prima non era quasi mai stata capace di farlo senza arrossire e voltarsi altrove, ora le riusciva perfettamente.
Più unica che rara, quella volta fu Danny ad abbassarli per primo.
Tornarono entrambi sulle loro pizze.
“Hai sentito Tamara?”, gli domandò.
“No… Non l’ho chiamata, né lei lo ha fatto.”, le disse, “Mi ha detto Harry che se n’è andata di casa.”
Joanna non seppe cosa dire.
“Non provare nemmeno a sentirti in colpa.”, fece lui, sorridendole, “Tu non c’entri niente, hai solo fatto accadere la cosa prima del previsto.”
Non lo comprese ed attese con perplessità una sua spiegazione.
“Quello che ti è successo mi ha fatto capire il mio errore è stato il voler velocizzare le cose. Se avessi dato più tempo alla mia relazione con Tamara, l'avrei conosciuta meglio ed avrei capito che non fa per me.”
“Ma tu lei vuoi bene.”, aggiunse lei, “E lei ne vuole a te.”
“Sì, ma non basta. Ci vuole anche la fiducia.”
“E la scala delle priorità...”, borbottò lei, scuotendo la testa, “Danny, ti ho già detto come la penso su questa cosa.”
“Puoi rimanere del tuo parere, io manterrò il mio.”, le rispose.
Morsero un po' delle loro pizze.
“Gli amici ci saranno per sempre.”, riprese Danny, “E' questo quello che ho imparato negli ultimi anni. Tamara non è un'amica.”
“Beh, ma se dici così, allora tutte le tue future ragazze ti lasceranno per questo motivo.”
La guardò.
“Chi lo sa?”, le disse.
Lei alzò le spalle.
Tornarono a guardare il paesaggio intorno a loro. Il sole era già calato da un pezzo, il giardino veniva illuminato da alcune luci nascoste nell’erba bassa, e anche da un lampione affisso alla facciata del retro della villetta. Stavano abbastanza bene, nonostante il fastidio di qualche zanzara affamata come loro.
“Mi farai avere la fotografia per e-mail?”, le chiese Danny.
“Sì, ovviamente.”
“Quelle che scattammo l’altra volta… Dove le hai messe?”
“Non le hai viste?”, gli fece, “Sono in camera, sulla parete vicino al letto, insieme al vostro poster.”
“Non ci ho fatto proprio caso…”
Non se ne rammaricò, non le interessava più di tanto. Dal canto suo, non si era nemmeno accorta che Danny aveva già terminato la propria pizza. Lei, invece, doveva ancora intaccare la seconda metà. Esitò e sospirò, guardandola.
“Dammi qua.”, le disse Danny, “La finisco io.”
“Grazie. Ho sempre odiato lasciare il cibo a metà.”
“E io ho sempre odiato chi è incapace di finire una pizza buona come questa!”
Non se lo fece dire due volte: prese uno spicchio e se lo mise in bocca.
“Non ti do del maiale solo perché tutto sommato sei molto educato.”, gli fece, ridacchiando, “Ma se ti avessi conosciuto così, credo che non saremmo qui adesso.”
“Puoi dirlo forte.”, si limitò a dire, tra un boccone e l’altro.
Cinque minuti e anche la sua pizza venne spazzolata via.
“E adesso cosa facciamo?”, le domando Danny.
“Dai tempo al tuo stomaco di assestarsi!”, gli fece, ridendo ancora.
L’altro si mise in attesa, a braccia incrociate.
“Fatto, cosa facciamo?”, sbottò poi, “Usciamo?”
“Per andare dove?”, gli fece, “Lo sai che non ho un auto.”
“Prendiamo un taxi!”, propose lui subito.
Non le andava molto di uscire. Erano stati tutto il giorno là fuori, non aveva certo voglia di tornare in città a camminare su e giù. 
“Danny, non prendermi per una piagnona...”, gli disse, “Ma ho i piedi che chiedono pietà in cinese...”
“Hai ragione.”
Non sembrava però convinto.
Joanna volle entrare in un argomento che avrebbe preferito non affrontare mai, ma che non avrebbe potuto evitare per sempre. Danny doveva tornarsene a casa, non poteva rimanere lì finché lei voleva. Almeno per il momento la questione sul cosa avrebbero fatto nelle prossime ore sarebbe stata accantonata.
“Dan, partirai domani?”, gli chiese.
“Pensavo dopo domani.”, le rispose, “Così ho il tempo di prenotare un volo con calma.”
Egoisticamente, l’averlo ancora ‘tra i piedi’ per un altro giorno la fece star bene. Si sentiva stupidamente innamorata, si volle quasi chiedere se la sua non fosse semplicemente una cotta adolescenziale per il bello della scuola.
“E quindi cosa facciamo ora?”, tornò a chiederle Danny.
“E' possibile rilassarsi guardando un film?”
 
 
 
Tornati in soggiorno, Little stava scegliendo qualcosa da poter proporre, lui si occupava con lo spulciare attentamente il mobiletto che conteneva numerosi cd.
“Sono tuoi o di Arianna?”, le domandò Danny, distraendola.
“Arianna.”, rispose, “I miei li tengo nella mia stanza.”
“Forse è lei la donna della mia vita.”, scherzò.
Davanti a lui l'intera discografia completa del suo mito di sempre, il Boss, più altre opere appartenenti a gran parte dei suoi gusti musicali preferiti.
“Lo ha detto anche lei quando mi hai spedito il poster di Springsteen.”, rispose Little, “Ho dovuto lottare per appenderlo nella mia stanza, lo voleva per sé.”
“Fortuna che hai vinto tu, allora!”, ridacchiò.
Le dita scorsero sulla lunga lista musicale di Arianna, fermandosi su un'artista che conosceva benissimo. La reputava una delle cantautrici più dolci del pianetta. Estrasse il cofanetto e ne prese il cd: sotto l'occhio poco vigile di Little lo inserì nello stereo.
“Conosci questa canzone?”, le chiese, selezionandola.
Lei si voltò, abbandonando la scelta del film. L'orecchio si mise ad ascoltare quelle note.
 
How can I think I'm standing strong, yet feel the air beneath my feet?
 
“Certo che la conosco.”, disse lei, “E' Katie Melua, mi piace molto.”
“Sul serio?”
Lei annuì con un cenno di testa ed un sorriso.
“Allora? Cosa  ci vogliamo guardare?”, gli domandò, “Ho pensato di scartare alcuni titoli.”

How can happiness feel so wrong?  How can misery feel so sweet?
 
Non si sentiva molto d'umore giusto per sedersi e guardarsi un film. Anzi, non ne aveva proprio voglia, ma la accontentò comunque. Lasciarono che la musica continuasse il suo corso, come sottofondo.
“Scegli tu, questi ancora non li ho visti.”, disse Little, porgendogli le sue scelte.
Qualche commedia, un supereroe pipistrello, un thriller del maestro scrittore dell'horror, un titolo a lui sconosciuto.
“Non saprei.”, le rispose, “E questi li ho già visti.”
Eliminarono alcune di quelle custodie.

How can you let me watch you sleep, then break my dreams the way you do?
 
Era indeciso, nessuna delle rimanenze lo attirava.
“A te cosa piace, Little?”, le domandò, “Quale guarderesti tra questi?”
Si fece pensierosa e si riprese i dvd, spulciandoli attentamente. Neanche lei sembrava decidersi, osservando le copertine dei film e leggendo nomi dei protagonisti, dei registi e talvolta anche un piccolo brano della trama sul retro. Mordicchiandosi le labbra, studiava la sua scelta.
“Mannaggia, questo non ha l'opzione della lingua inglese.”, borbottò infastidita, scansando via una delle commedie.
“Potremmo anche sederci ed ascoltare la musica.”, le propose, “E chiacchierare.”
“Finiremo per litigare, lo sai.”, disse lei ridacchiando, ancora intenta a leggere.
Lui si appoggiò al mobiletto, braccia incrociate.
Gli era balzata una stupida idea in testa.

How can you make me fall apart then break my fall with loving lies?
 
“Madame Little, vorrebbe concedermi questo ballo?”, le fece.
“Lo sai che sono goffa come un asino.”, si negò subito lei.
“Andiamo.”, cercò di esortarla, “Ci divertiremo!”
“Danny, per piacere...”, ribatté lei.
I dvd sembravano così interessanti che non aveva distolto gli occhi per un solo istante. Né gli aveva prestato attenzione, né gli aveva dato la minima importanza.
“Che ne dici di Shining di Kubrick?”, propose poi.
“Naaah!”, esclamò, “Troppo pauroso per te. Ti verranno gli incubi.”, la prese in giro.
Lei tirò fuori un sorriso sornione.
“Da piccola Miki mi ha vaccinato sottoponendomi alla visione forzata di centinaia di film horror.”, disse, arieggiandosi, “Non credo che sarò io ad avere gli incubi, stanotte...”

How can you treat me like a child, yet like a child I yearn for you?

“Come vuoi. E Shining sia.”, le disse, prendendo il dvd dalle sue mani, “Ci penso io a sistemarlo nel lettore, siediti pure.”
Little lo accontentò, sedendosi sul divano con pazienza. Inserì il dischetto nella 'lingua' dell'impianto, poi si avvicinò allo stereo per spengerlo e godersi così il film senza essere disturbati dalla musica.
 
How can anyone feel so wild? How can anyone feel so blue?
 
Le sue dita esitarono nel premere il pulsante di spegnimento.
Era musica quella che ascoltavano ed era sempre un peccato interrompere una canzone a metà, soprattutto quando ne veniva riprodotta una tra le sue preferite. Decise di lasciar correre le strofe fino all'ultima, piuttosto che sentirsi in colpa per aver troncato in due la voce vellutata della Melua.
Little lo colse alle spalle, picchiettandogli sul braccio.
“Il film è iniziato, l'ho messo in pausa.”, gli disse, “Spegni la musica.”
“No, aspettiamo che finisca.”, rispose Danny, “Questa canzone mi piace troppo.”
“Come vuoi.”, disse lei, sorridendo, “Forse Arianna è davvero la donna della tua vita, anche lei odia interrompere la musica a metà.”
“Scelgo sempre quelle sbagliate.”, ironizzò lui, “Mi conviene farmi frate.”
“Ti ci vedo bene con il vestito marrone, la corda bianca...”, continuò lei.
“Sì, la corda bianca al collo...”, borbottò, con aria fintamente sconsolata.
“Andiamo, non ti deprimere!”, gli fece, “Magari tutti questi fallimenti stanno a significare che hai un'omosessualità latente!”
“Omosessuale? Io?!?”, ne rimase stupito, “Lo sai anche tu che non è vero!”
“Non devi mica dimostrarmi niente.”, disse Little, “Se lo sei, sono fatti tuoi. Alcuni amici di Arianna sono gay: tipi bizzarri, ma simpatici e dolci. Secondo me finiremo di becchettarci quando scoprirai di esserlo anche tu.”
“Ma io non lo sono!”, le fece, “E mi piace quello che c'è tra noi così com'è, anche se il cinquanta percento del tempo lo passiamo a litigare.”
“Cinquanta percento?”, disse lei, perplessa, “Novanta percento!”, lo corresse, “Diventerò lesbica per salvare la nostra amicizia.”
Volle giocarle un tiro mancino e vederla arrossire un po', per sfizio personale.
“Sarebbe una brutta notizia.”, le fece.
Lei si fece sempre più perplessa.
“Cosa?”
“Il fatto che ti piacessero le ragazze al posto dei ragazzi.”, si specificò.
“Non sarai mica omofobo!”, esclamò lei, “Ma guarda dove siamo andati a parare con questa conversazione...”
“Già, siamo arrivati ai confini della stupidità...”, disse, “E comunque non lo sono.”
“Neanche io.”
“Oh, bene.”
“E allora perché dovrebbe essere una brutta notizia il fatto che lo sia?”, sbottò lei.
Non era ancora arrivato a farla imbarazzare, quella volta lei non ne voleva sapere di colorare le sue guance di un bel rosso scarlatto, ma sapeva di esserci molto vicino.
“Sarebbe un peccato.”, disse, guardando con noncuranza le sue unghie, “Intendo un peccato per l'universo maschile.”
“Oh sì, perché l'universo maschile si interessa a Joanna Bellini!”, sbottò lei ridendo, “Penso che nessuno si sia mai voltato indietro quando gli sono passato accanto.”
“Meglio così.”
“Ma una volta ogni tanto farebbe anche piacere!”, continuò lei.
“Voi donne siete tutte uguali.”
Lei aggrottò la fronte ed incrociò le braccia, tipica posizione che significava 'attento a quello che dici’. Conosceva la forza dei suoi artigli verbali ma il suo scopo non era farla innervosire, sebbene lei si stesse comunque spazientendo.
 
It's so easy to break a heart, it's so easy to close your eyes.
 
Perse il filo mentale delle parole che le aveva preparato, si sentì pronunciare qualcosa di non valutato.
“E poi mi darebbe fastidio che gli altri si voltino quando gli cammini accanto.”, si spiegò.
L’espressione sul suo viso era un mescolarsi di confusione e fastidio.
“Perché anch’io non ti voglio dividere con nessuno, Little Joanna.”
 
This is the closest thing to crazy I have ever been...
Feeling twenty-two, acting seventeen.
 
Entrambi rimasero spiazzati da quelle parole.
Lui si sentiva stordito, fuori fase, tanto che sorrise imbarazzato. Si grattò la fronte, passandosi le dita per i capelli in cerca di un attimo di pace. Little lo fissava, gli occhi sbarrati, come se avesse detto una pazzia. Fece per dirle qualcosa ma non ebbe la forza per altro tranne che boccheggiare. Era rimasto senza lettere da pronunciare, senza frasi di senso compiuto da farle sentire.
Abbassò lo sguardo, non sapeva come uscire da quella situazione.
Non aveva previsto quello che era successo, neanche si ricordava quello che avrebbe voluto dirle esattamente. L’ultima frase non era stata inserita nel copione mentale che aveva velocemente scritto e che avrebbe dovuto farla diventare paonazza. Lo scopo era stato pienamente raggiunto, ma completamente fuori dallo schema preparato.
 
How can I have got in so deep? Why did I fall in love with you?

“Guardiamo il film?”, esordì poi Little, rompendo il silenzio
“Sì.”, le rispose, cercando di cancellare quello che era accidentalmente uscito dalle sue labbra.
Velocemente, lei si sedette. La riproduzione dei titoli iniziò. Spense lo stereo e la raggiunse, lasciando un evidente spazio vuoto sul divano.

And there's a link between the two,
Being close to craziness and being close to you.

“Qualcosa da mettere sotto i denti?”, propose Little.
Ci rifletté.
“No... Grazie.”
“Da bere?”
“Sono a posto così.”
“Ok, prendo comunque qualcosa.”, non si volle arrendere.
Little si alzò, lasciandolo solo a godersi i silenziosi nomi che scorrevano sullo schermo della televisione, alle prima immagini del film.
Danny ebbe un deja-vu. Possibile che quella settimana insieme gli ricordasse sempre di più quella di un anno prima? I fatti si riproponevano, in chiavi e significati diversi.
Loro erano diversi.
Lui si sentiva diverso, sotto tanti punti di vista.
Quello che aveva dentro era confusamente diverso.
I passi leggeri di Little lo riportarono con la testa sulle spalle. Teneva tra le mani una bottiglia di quello che, al colore, poteva sembrare del the, insieme ad un pacchetto di patatine. Li sistemò sul basso tavolino davanti a loro e tornarono a guardare il film.
Kubrick, forse quello era il secondo film che vedeva di quel regista. L’altro era stato Eyes Wide Shut, visionato tanti anni fa con gli altri tre, solo per vedere le scene di nudo e di sesso ed erano tutti rimasti profondamente delusi. Non ne ricordava neanche la fine.
“Di cosa parla?”, le domandò.
Lei stava già sgranocchiando un paio di chips.
“Beh... Di una famiglia che si chiude in questo hotel, il padre è stato assunto come manutentore della struttura per tutto l’inverno... E poi succede del casino.”, fece lei.
“Quanto casino?”, cercò di tornare ad essere ironico.
“Tanto casino.”, rispose Little, “O almeno così c’è scritto.”
“Bene.”
Jack Nicholson e la sua famiglia erano appena arrivati al grande hotel di montagna.
“Ti piace lui come attore?”, le chiese ancora.
“Abbastanza. Ma preferisco Antony Hopkins.”
“Sì, sono entrambi molto bravi. Come si chiama l’altra attrice?”
 “Non lo so.”, rispose Little, “Non la conosco affatto.”
“E il bambino è abbastanza terrificante di suo!”, disse, ridacchiando.
Perché non riusciva a stare zitto? Perché si sentiva gli spilli premergli ovunque, facendogli venire la voglia di lasciare la stanza e rifugiarsi altrove?
“Hai visto? Parla con il suo dito!”, esclamò di nuovo, ridendo anche più forte.
“Vuoi una patatina?”, gli chiese lei.
Little gli porse il sacchetto e vi infilò la mano. Le dita non riuscivano a imprigionare nessuna delle patatine, che continuavano a sgusciare via. Istintivamente gli venne da sorreggerlo con l’altra mano, al di sotto di esso. Non percepì immediatamente il calore della pelle di Little. Ci volle qualche secondo prima chi si accorgesse che la mano di lei riposava nella sua, e teneva il pacchetto degli snack da ben prima che anche lui fermasse la propria  intorno alla plastica del bordo inferiore.
Rapidamente, la mano di Little sgusciò via.
“Prendile pure.”, fece.
Avvicinò il sacchetto e sgranocchiò quello che riuscì a prendere. Little si versò un bicchiere di the e ben presto l’aroma di limone arrivò anche alle sue narici. Posò le patatine e ne prese un po’ anche per sé.
Ne bevve un sorso.
“Chi morirà per primo in questo film?”, le chiese stupidamente, “Facciamo una scommessa?”
“La moglie di Nicholson.”, rispose lei, con una risata soffusa, “Ha la faccia di una che viene uccisa a cinque minuti dall’inizio del film.”
Perché anch’io non ti voglio dividere con nessuno, Little Joanna.
Stava ridendo ma quelle parole lo fecero abbuiare.
“E il bambino rimarrà l’unico sopravvissuto, alla fine.”, continuò lei, “Non c’è cosa più noiosa di quando comprendi la fine di una storia vedendone solo l’inizio.”
“Già...”
Si accorse che quel suo monosillabo le fece saltare la mosca al naso. Little si voltò verso di lui, per scrutarne l’espressione.
“C’è qualcosa che non va, Dan?”, gli domandò.
C’era una valanga di cose che non andavano.
Le sorrise.
“No, tutto tranquillo, Little.”, le fece.
“Ne sei sicuro?”, insistette lei, “Ha a che vedere con il film, vero?”
Non era alla televisione che continuava a pensare, non erano gli stravolgimenti dell’evoluzione della trama che aveva in mente.
Sospirò.
Con più forza, gli spilli presero a conficcarsi ovunque, soprattutto sulle sue mani, e posò il bicchiere sul tavolino, accanto al pacchetto di patatine. Poi gli spilli si concentrarono sulle sue gambe, e fu costretto a muoverle, a spostarsi lungo la seduta del divano.
Quei 'cosi' infernali tornarono poi a dolergli sulle mani.
Le posò sulle sue guance.
Sentì un fastidio sulle labbra.
E le posò su quelle di Little, baciandole.





Credo che non ci sia bisogno di commenti da parte mia. Ormai sono un caso perso :)
La canzone citata è The Closest Thing To Crazy, che dà anche il titolo al capitolo, ed è cantata da Katie Melua. Non c'è scopo di lucro.
Alla fine ci siamo arrivati, volenti o nolenti. Prometto che la prossima storia sarà diversa.... Migliore :)

Ringrazio comunque ludothebest, picchia, ciribiricoccola, kit2007, blossom e giuly  ** spero di trovarvi anche nel prossimo... Siamo quasi alla fine :) Resistete!
   
 
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