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Autore: Locked    21/07/2015    2 recensioni
[Questa fanfiction partecipa al contest Daddy Klaine Summer Challenge indetto da Ginny_Potter e F l a n]
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Kurt guarda il proprio riflesso nello specchio della sua camera e controlla per quella che sembra essere la dodicesima volta che la giacca blu notte non abbia pieghe e che la camicia candida non sia fuori posto – e questo non perché suo figlio non fa che ripetere da tre mesi a questa parte quanto il suo insegnante sia sempre elegante (“Ha un sacco di maioncini colorati, papà! Sono proprio belli.”) e ha una paura irrazionale di risultare trasandato. Giammai.
Kurt Hummel, trent’anni, vice-direttore di Vogue.com, ha fatto dei vestiti la propria filosofia di vita. E non si veste elegante per compiacere qualcuno da anni – tre anni.
(Che poi, da quando suo figlio è diventato così attento al colore dei maioncini dei suoi insegnanti?)
(Be’, è pur sempre suo figlio.)
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Teacher!Blaine
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Burt Hummel, Kurt Hummel, Sebastian Smythe | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Uh, okay. Questa è senz'altro la OS più lunga che io abbia mai pubblicato.
Partecipa al contest Daddy Klaine Summer Challenge indetto da Ginny_Potter e F l a n ed aveva come prompt 
Teacher!Klaine: uno dei due è l'insegnante del figlio dell'altro.
Spero di non essere andata completamente fuori-trama e perdonatemi per il ritardo, ma sono famosa per fare *tutto* all'ultimo minuto. *fissa con aria accusatoria la maglietta per il Giffoni che deve ancora finire di scrivere*
E va be'.
Come al solito i ringraziamenti: principalmente devo ringraziare Favah e Fravah (rispettivamente: Ambros ed Este) per avermi sopportata e supportata ed aiutata e minacciata giornalmente nella stesura di questa ... uhm, cosa. (Favah ha anche trovato il titolo, santa donna, se no questa OS la chiamavo "daddy klaine". E' tratto da Daydream Believer.) Ma anche tutta la Sevensome, la mia seconda famiglia - Zeppaolah, Moglieh, Mary, e Sere. 

Vi voglio bene.
Enjoy!



 
Now you know how happy I can be




13 Dicembre 2024
 
Kurt guarda il proprio riflesso nello specchio della sua camera e controlla per quella che sembra essere la dodicesima volta che la giacca blu notte non abbia pieghe e che la camicia candida non sia fuori posto – e questo non perché suo figlio non fa che ripetere da tre mesi a questa parte quanto il suo insegnante sia sempre elegante (“Ha un sacco di maioncini colorati, papà! Sono proprio belli.”) e ha una paura irrazionale di risultare trasandato. Giammai.
Kurt Hummel, trent’anni, vice-direttore di Vogue.com, ha fatto dei vestiti la propria filosofia di vita. E non si veste elegante per compiacere qualcuno da anni – tre anni.
(Che poi, da quando suo figlio è diventato così attento al colore dei maioncini dei suoi insegnanti?)
(Be’, è pur sempre suo figlio.)
Sospira, sistemandosi velocemente i capelli per un’ultima volta, prima di afferrare cellulare e portafogli ed infilarsi nel gelo di New York – e nel primo taxi vuoto che riesce a trovare.
 
Il Maestro Blaine, come solitamente lo chiama Michael, riceve i genitori nella sua classe. Kurt aspetta fuori, pazientemente, il proprio turno, giocherellando con i bottoni della giacca e guardandosi intorno – cartelloni con impronte di manine paffute e colorate e decine e decine di fogli A4 con disegni di case e alberi e bambini a ricoprire le pareti esterne all’aula –, a suo agio nel chiacchiericcio degli altri genitori in attesa come lui.
Quando la porta si apre, azzarda un passo in avanti, aspettando che la madre di Margaret, una donna alta e mora, dai lineamenti pronunciati e gentili al tempo stesso, saluti l’insegnante e gli lasci il posto; quando lei si volta e lo saluta con un cenno del capo ed un “Ciao, Kurt!”, agita la mano in risposta e le regala un sorriso dolce. Poi fa un passo in avanti, e oh.
Mio figlio aveva ragione, riguardo i “maioncini”, è il primo, incoerente, pensiero che lo sfiora, mentre il suo sguardo sale dai mocassini ai pantaloni arrotolati alle caviglie fino al busto fasciato dal maglione rosso del Maestro Blaine. “Buon pomeriggio, signor …?” Kurt si rende conto tutto in una volta che quella mano è apparsa nel suo campo visivo perché deve stringerla e che sarebbe educato rispondere all’implicita domanda dell’insegnante di suo figlio, piuttosto che continuare a chiedersi di che diavolo di colore siano i suoi occhi.
“Hummel – Kurt Hummel.” Le mani del Maestro Blaine sono calde e levigate, nella sua stretta.
“Oh, il padre di Michael!” esclama l’insegnante, sorridendo e chiudendosi la porta alle spalle; “Prego, si accomodi,” gli dice cordialmente, indicando con un gesto del braccio la cattedra, davanti alla quale c’è una sedia a grandezza naturale – non come le altre venti nella stanza disposte ordinatamente dietro ai banchi –, “io sono Blaine Anderson, l’insegnante di suo figlio.” La parte incoerente di Kurt si chiede se i denti del Maestro Blaine – potrebbe anche iniziare a chiamarlo Signor Anderson, giusto per darsi un minimo di contegno, ecco – siano naturalmente così bianchi, se il suo sorriso sia normalmente così dolce, se i suoi riccioli intrappolati in uno strato neanche troppo sottile di gel siano morbidi o meno. Poi la parte razionale prende il sopravvento e gli ricorda che è con l’insegnante di suo figlio che sta parlando, e che forse sarebbe meglio smetterla.
“La prego, mi dia del tu. Non sono così vecchio.” Il Signor Anderson scoppia a ridere, mentre entrambi si avvicinano alla cattedra; Kurt si siede sulla sedia davanti ad essa, Blaine si appoggia coi fianchi al suo bordo ed incrocia le braccia al petto, continuando a sorridere.
(Nessuna parte di Kurt – né quella razionale né quella incoerente – dovrebbe essere autorizzata a pensare che quel sorriso sia davvero, davvero carino.)
(Infatti entrambe pensano che sia semplicemente mozzafiato.)
“Va bene,” gli concede, “ma vale anche per te. Chiamami Blaine.” Kurt annuisce, incrociando le dita in grembo e le gambe sul linoleum. Blaine solleva un angolo della bocca e si volta giusto il tempo di recuperare un paio di occhiali graduati dalla montatura sottile e un plico di fogli. “Michael è un bambino brillante. Lo è molto di più di alcuni suoi compagni che hanno già compiuto sei anni, il che è totalmente comprensibile, visto l’impegno che mette in ogni cosa che fa.” Una sensazione di calore, di orgoglio per suo figlio, invade lo stomaco di Kurt e no, non si commuoverà davanti al suo insegnante, grazie tante, ma ora può concedersi di rilasciare il respiro che non si era accorto di star trattenendo. Non che non sapesse che Michael è intelligente e sveglio, lo nota ogni giorno a casa, si sente sempre più fiero di lui nel modo in cui solo i genitori possono esserlo – ma dopo tutte quelle critiche velate che gran parte delle madri dei compagni di suo figlio gli avevano rivolto (“Sei sicuro di volerlo mandare a scuola coi bambini più grandi di lui? E’ vero, sono pochi i mesi di differenza tra lui e gli altri. Ma – ne sei sicuro?”), è una gioia immensa rendersi conto che , ne era sicuro ed aveva avuto ragione.
Blaine sembra perdersi un attimo ad osservarlo, un sorriso morbido dipinto sulle labbra con la più leggera delle pennellate; poi sfoglia il plico ed estrae due fogli – disegni, a giudicare dai colori sgargianti –, che porge a Kurt.
Il primo raffigura, come esplicitamente spiegato dalla sfilza di lettere disordinate e tutte diverse l’una dall’altra che sovrastano l’immagine, “Michael” e il “Maestro Baine” e Kurt sorride automaticamente alla vista dei tratti di colore che ondeggiano vistosamente fuori dai margini – e un po’ anche a quella della caramella gigante che dovrebbe essere un papillon raffigurata sul collo del “Maestro Baine”; ma non si lascia neanche il tempo di ammetterlo a se stesso.
“Penso che questi siano i miei disegni preferiti di tuo figlio, Kurt,” Blaine appoggia il plico sulla cattedra e Kurt sorride ancora un po’, osservandolo spingersi gli occhiali che gli sono scivolati lungo il naso di nuovo al loro posto. Poi prende delicatamente il secondo in mano e no, non si commuoverà davanti all’insegnante di suo figlio, ma stavolta ci sta andando molto vicino, perché il disegno rappresenta “Michael” e “papa”, senza accento sulla a, e Kurt si sta seriamente concentrando per mantenere il proprio respiro regolare, mentre osserva l’azzurro acceso con cui sono colorati gli occhi di entrambi e le linee sconnesse che lo fanno sembrare sproporzionatamente alto, accanto a suo figlio.
“Io – uhm. Sono davvero belli,” mormora, porgendoli a malincuore a Blaine. Lui scuote la testa gentilmente. “Tienili pure, ho decine e decine di disegni fatti da Michael e sono sicuro che adorerà vedere questi attaccati all’anta del frigorifero.” Kurt spalanca le palpebre, gli occhi impossibilmente grandi.
“Grazie.” Blaine sorride, di nuovo, poi si sposta, andandosi a sedere sulla sedia dietro alla cattedra.
“C’è solo una cosa di cui volevo parlarti, in realtà,” inizia, e per un attimo sembra che non sappia da dove cominciare. Prende un respiro profondo, massaggiandosi le fossette che gli occhiali gli hanno scavato sul naso. “E’ stato praticamente impossibile non notare che Michael, quando disegna, si ritrae sempre e solo accanto a te. Non c’è un’altra figura, se non una certa Zia Rachel che da quel che credo di aver capito non è sua madre.” Ogni singolo muscolo di Kurt sembra scattare nello stesso momento, gelandolo sul posto, perché – oh. Blaine sembra avvertirlo, in qualche modo, ed alza le mani in avanti, come a bloccare qualsiasi cosa Kurt stia per dire.
Credimi, non è mia intenzione immischiarmi negli affari personali di una famiglia, il mio mestiere è quello di trasmettere qualcosa a questi bambini, non quello di psicoanalizzarli, ma – qui non stiamo parlando di ragazzini di dodici o tredici anni. Tutti gli altri disegnano un papà e una mamma o, be’, c’è la piccola Amy che disegna due mamme,” aggiunge con un sorriso; “Michael non lo fa, e vorrei solo capire perché, in modo da non metterlo a disagio e non lasciare ai suoi compagni la possibilità di prenderlo in giro o ferirlo per questo.” Kurt prende un respiro profondo. Non è abituato a parlarne. Non lo ha fatto per tre anni, con nessuno, perché a volte il dolore e la sofferenza che ha provato quella sera di settembre sono ancora così vivi e pulsanti sotto la sua pelle che gli fanno paura. E allora parlarne è come riviverli tutto daccapo, intenzionalmente, e Kurt è sempre stato spaventato da queste richieste.
(Ora, irrazionalmente, non lo è.)
“Mio marito è morto tre anni fa in un incidente automobilistico,” dice. Aspetta la scarica di dolore a cui non si abituerà mai, la aspetta, la aspetta, la aspetta; quando arriva non sembra forte come la ricordava – ma a questo ha poco tempo per pensarci, perché Blaine sta spalancando gli occhi e la bocca e il cuore tutto in una volta e prima che arrivi un altro di quei “Mi dispiace” che ormai gli sembrano così inutili, parole così abusate, ricomincia a parlare. “Michael non ha neanche fatto in tempo a conoscerlo, suppongo che sia per questo che non lo ritrae mai nei suoi disegni. A casa abbiamo delle foto di me e Jonathan con lui, ma Michael non ha mai fatto domande e – non voglio essere io a forzarlo. Quando sarà pronto, lo sarò anche io per rispondere a tutto ciò che chiederà.”
Blaine annuisce, piano, metabolizzando a poco a poco ogni informazione. Poi lo guarda negli occhi e Kurt trattiene il fiato, (Non ti sentivi così da dodici anni, Kurt. Ti prego, ti prego, ti prego non ora.); “So che non è molto, ma posso assicurarti che stai crescendo bene vostro figlio.” E il modo in cui lo dice, senza neanche un’ombra di compassione o pena, con una sfumatura di ammirazione che gli modella la voce e una luce tutta nuova negli occhi – Kurt resta per un attimo senza parole, perché non è abituato a questo.
“Io – grazie.”
 
Quella sera, Kurt appende i disegni Michael all’anta del frigorifero e si gode ogni più piccola tonalità del suo sorriso un po’ sdentato, quando lui e Rachel varcano la soglia dell’appartamento. Il piccolo gli si arrampica addosso, finché lui non ride e lo prende in braccio e lo stringe, le mani che si chiudono teneramente attorno al suo corpicino, e Rachel li osserva, a braccia incrociate, appoggiata alla cornice della porta della cucina.
 
 
 
Gennaio 2012 – Gennaio 2018
 
A volte Kurt pensa che Jonathan sia arrivato nella sua vita come un uragano. Inaspettato, tutto in una volta, fortissimo. Che gliel’abbia stravolta e l’abbia lasciato da solo a fare i conti con un’esistenza che non sembrava neanche più la sua, poi.
Era sempre stato così, fin dai tempi del loro primo bacio.
Gli era piombato addosso, col suo essere misterioso e il suo vedere il mondo perennemente in bianco e nero, tanto che Kurt si era sempre chiesto come ci fosse finito a quella festa di liceali, nell’inverno dei suoi diciott’anni; lui, un anno più grande, già con un passo nel mondo reale, in mezzo ad un gruppo di ragazzi alle prese con l’ultimo anno prima del college. Lui che studiava legge e si era presentato come amico di Santana – dove l’avesse conosciuto, lei, Kurt non era mai riuscito a capirlo.
Come ci era finito sulle sue labbra, invece, Kurt non se lo era mai chiesto – ricordava tutto, di quel gioco della bottiglia. Aveva ridacchiato sommessamente, mentre le grida dei suoi amici si facevano più forti e la sua bocca aveva baciato quella di Santana. Aveva urlato “Non se ne parla nemmeno, è praticamente mio fratello!”, quando il collo della bottiglia si era fermato verso Finn. Aveva spalancato gli occhi, quando invece aveva puntato verso se stesso, dopo che Jonathan l’aveva fatta ruotare, e si era perso nei suoi, così profondi e neri, neri neri neri, e poi le loro labbra si erano incontrate.
 
Tipico di Kurt, che un semplice bacio al gioco della bottiglia non rimanesse un semplice bacio al gioco della bottiglia.
“Ti va di darmi il tuo numero?” Kurt, aggrovigliato alle coperte del divano, gli occhi impastati dalla stanchezza degli ultimi minuti della festa, aveva borbottato uno “Oh – uh?” prima di capire il motivo per cui Jonathan gli stava porgendo il suo cellulare, e poi era arrossito tutto in una volta e aveva annuito, digitando quelle che sperava fossero le cifre del proprio numero mentre tentava in ogni modo di evitare gli occhiolini allusivi di Santana.
Quando era andato via, Jonathan si era chinato a lasciargli un bacio sulla guancia, leggero come una carezza.
(Kurt aveva sorriso ed era arrossito ancora di più.)
Il giorno dopo, gli aveva telefonato chiedendogli un appuntamento.
(Kurt gli aveva detto di sì.)
Una settimana e tre appuntamenti dopo, lo aveva baciato di nuovo – questa volta per davvero.
(Kurt aveva sorriso contro le sue labbra e aveva ricambiato timidamente, perché non sapeva ancora come si facesse, a baciare – ad amare.)
Due mesi più tardi, Jonathan gli aveva detto “Ti amo” sotto un cielo pieno di stelle.
(Kurt aveva accettato di andare a casa sua, si era lasciato spogliare, venerare, amare – e non se ne era pentito.)
Sei mesi dopo, Jonathan si era lasciato convincere a trasferirsi a New York e continuare il suo percorso di studi alla NYU.
(Kurt lo aveva stretto fortissimo ed era tornato a cercare informazioni su uno stage a Vogue.com, mentre la sua migliore amica Rachel consumava il parquet della sua camera, camminando avanti e indietro, esercitandosi per la sua audizione alla NYADA.)
 
Sei anni, un matrimonio e una convivenza alle spalle, Kurt gli aveva detto “Voglio un figlio.”
(Jonathan aveva sorriso, lentamente, dolcemente, e gli aveva risposto “Voglio che abbia i tuoi occhi.”)
 
 
 
17 Dicembre 2024
“Sebastian, tutto questo mi sembra assurdo e fuori luogo e – cosa vuol dire – sai cosa? Potevi venire a prenderteli da solo.” Kurt solleva lo sguardo dagli scaffali dei dentifrici per bambini-fino-ai-sei-anni, la sua attenzione improvvisamente catturata da una voce squisitamente familiare, e scorge una figura altrettanto familiare di spalle, qualche metro più avanti, accanto al bancone della farmacia.
Afferra una confezione di dentifricio a caso – tanto non avrebbe comunque saputo scegliere tra brillantezza accecante e più bianco che mai – ed esita giusto un secondo, prima di avvicinarsi a Blaine, che sta ancora armeggiando col telefono, tentando probabilmente di riattaccare in faccia a chiunque sia dall’altra parte della cornetta.
“Ehi, Blaine?” Lui si volta di scatto e wow, i suoi occhi sono ancora più impossibilmente dorati di quanto ricordasse e il suo sorriso è così improvviso, come un fulmine in una notte d’estate, che per un istante gli manca il fiato.
“Ciao Kurt! Che ci fai qui?” Kurt alza un angolo delle labbra in un sorriso un po’ obliquo e solleva la confezione che ha in mano.
“Dentini che cadono, Michael ha bisogno di un nuovo dentifricio.” La curva delle labbra di Blaine cambia leggermente, le pieghe agli angoli degli occhi e della bocca che si distendono, e in quel momento ha un’aria così dolce che Kurt capisce per quale motivo suo figlio lo adori – è praticamente impossibile non farlo. “Tu?”
Blaine sembra risvegliarsi tutto in una volta e okay, stringe tra le dita una confezione di colluttorio e una di preservativi. Kurt impiega un attimo a recepirlo, poi distoglie lo sguardo dalle sue mani per puntarlo sui suoi occhi – pessima, pessima idea – e le guance di Blaine si stanno già tingendo di un adorabile rosso fragola, mentre balbetta. “Uh – oh, uhm non sono per me, sono per Sebastian. E per il suo ragazzo. Che non sono io – ovviamente. Io non li uso – “ Kurt inarca elegantemente un sopracciglio, e se fosse umanamente possibile sarebbe pronto a scommettere che il rosso fragola si sia appena trasformato in fucsia acceso. Blaine si appresta a riprendere il suo discorso sconclusionato, spingendosi gli occhiali in su lungo il naso, “Voglio dire, li uso, ma non in questo momento perché be’, non ho un ragazzo e – oh dio, ora smetterò di parlare perché mi sto decisamente mettendo in ridicolo” esala tutto in una volta, scoppiando improvvisamente a ridere e trascinando con sé anche la risata cristallina di Kurt.
Quando Blaine sembra aver ripreso un colorito normale e Kurt ha necessariamente bisogno di immagazzinare ossigeno dopo il troppo ridere, tornano entrambi a guardarsi, vagamente imbarazzati. “Non è esattamente la situazione in cui speravo di rincontrare il padre del mio migliore alunno. A proposito, dov’è Michael?” chiede Blaine, armeggiando nella tasca dei jeans per cavarne il portafoglio.
(“Speravo di rincontrare.”
Speravo.
Sperava?)
“Uh – è da Rachel. Sai, la famosa zia Rachel. Non è esattamente sua zia, è la sua madre biologica, ma Michael l’ha sempre chiamata così, quindi.” Kurt lascia la frase a metà, stringendosi nelle spalle della sua giacca di Alexander McQueen.
“Ecco da chi ha preso i riccioli mori,” sorride Blaine. Si mettono in fila alla cassa – e sì, alla fine Blaine li comprerà davvero, quei preservativi – e prima che Kurt possa in qualche modo replicare, l’altro ha già aggiunto “Gli occhi azzurri, invece, deve averli presi da te.”
Annuisce, preso alla sprovvista, abbassando lo sguardo mentre sussurra a mo’ di spiegazione “Biologicamente, sono io suo padre.” Per un attimo cala tra loro, leggero come un velo, quel tipo di silenzio imbarazzato che può esistere solo tra due persone che ancora non si conoscono abbastanza e Kurt si ritrova a pensare che sono strani, i casi della vita. Perché andiamo, otto milioni e mezzo di persone, un numero alto ed imprecisato di farmacie, decine e decine di imprevisti che avrebbero potuto impedirgli di incontrarsi per puro e semplice caso, eppure sono lì. Entrambi. E Kurt non è un esperto in calcolo delle probabilità, ma è abbastanza sicuro che non siano alte.
“Abitate qui vicino?” Blaine lo trascina a galla dall’oceano dei suoi pensieri.
“Uhm, abbastanza. Abbiamo un loft nell’Upper West Side,” spiega, gesticolando appena, “lungo la West End Avenue.” Gli occhi di Blaine s’illuminano, brillanti come scintille.
“Davvero? Anch’io – voglio dire, abito nell’Upper West Side, nella Riverside Avenue.”
(Sul serio, quante probabilità c’erano –)
“Quindici dollari e sessanta e sette dollari e trenta, faccio un conto unico o due separati?” La voce pratica e vagamente annoiata della cassiera li coglie di sorpresa, facendoli sobbalzare, ed è un attimo prima che un’espressione gentile si dipinga sul volto di Blaine mentre le risponde “Separati, grazie,” e sposta leggermente i suoi acquisti da quelli di Kurt.
 
Una volta fuori, l’aria gelida dell’inverno newyorkese li investe – Kurt trova letteralmente adorabile il modo in cui Blaine si tira la sciarpa fin sotto il naso e si stringe nel suo Montgomery. “Be’, è stato un piacere rivederti,” dice, infilandosi le mani in tasca alla ricerca dei suoi guanti. I muscoli del viso di Blaine si contraggono in quello che sembra essere un sorriso celato da uno spesso strato di lana e la sua voce viene fuori un po’ camuffata, quando risponde “Anche per me. Buona giornata, Kurt”, per poi salutarlo con un cenno della mano ed allontanarsi.
Il sorriso di Kurt non si spegne mentre congela sul marciapiede, aspettando un taxi.
(Nemmeno quando  il taxi lo lascia ad un isolato di distanza dall’appartamento di Rachel perché ha finito la benzina ed inizia a nevicare.)
(E neanche quando scopre che l’ascensore è rotto, no.)
 
 
 
17 Gennaio 2019
Michael era nato da una settimana ed era la creatura più meravigliosa dell’universo – tranne quando si svegliava alle due del mattino, facendo rotolare Kurt o Jonathan giù dal letto con una serie di sonori strilli acuti, ovviamente.
Aveva due occhi azzurri, di una sfumatura vagamente più accesa di quella di Kurt, svegli ed attenti a qualsiasi cosa e decisamente troppi capelli per essere nato da così poco tempo. Amava dormire avvolto nella sua copertina bianca di lana, svegliare i suoi genitori agli orari più improbabili della notte e schizzare ovunque quando faceva il bagnetto, ed era l’essere più piccolo che Kurt avesse mai visto – così piccolo che le prime volte aveva avuto paura a sollevarlo in braccio sotto il suo sguardo vispo e brillante, così piccolo eppure così grande che era stato in grado di risucchiare tutta la sua vita. E Kurt non se n’era mai lamentato.
 
 
 
21 Dicembre 2024
“Papà, posso dirti una cosa?” Kurt alza prontamente lo sguardo dalle zucchine che sta affettando per la cena e trova Michael arrampicato su uno degli sgabelli della cucina, gli occhi puntati sulle sue mani e il mento appoggiato alle braccia incrociate, il telecomando della televisione dimenticato sulla poltroncina del salotto da cui la stava guardando.
“Ma certo,” risponde. Michael arriccia il naso e si mordicchia le labbra piene – che ha decisamente ereditato da Rachel – e per un attimo sembra impegnato a riordinare le idee. Poi incontra lo sguardo di Kurt; “Oggi Margot e Beth mi hanno preso in giro perché quando parlavamo delle vacanze di Natale ho detto che le avrei passate qui, solo con te e la zia Rachel e lo zio Finn e il nonno Burt e la nonna Carole, mentre loro hanno quattro nonni e due di loro vivono in Canada e hanno una casa grande grande nei boschi.” Le mani di Kurt si bloccano – un po’ come fa il suo respiro, e per un attimo non è neanche in grado di sbattere le palpebre sperando che tutto quello sia solo un brutto sogno.
Michael continua, un po’ più a bassa voce, “E poi hanno anche detto che avere un solo genitore fa – “ Esita un attimo, guardandolo con gli occhi grandi e limpidi “Fa schifo – però ti prego, non ti arrabbiare se ho detto quella parola, io non volevo – è solo che lo hanno detto loro e io volevo ridirtelo.” Kurt scuote la testa, sorridendo appena.
“Tesoro, vieni qui.” Si pulisce le dita su uno strofinaccio e fa un cenno a Michael, che saltella giù dallo sgabello e corre verso di lui, salendogli in braccio. “Non sono arrabbiato perché hai ripetuto quella parola,” gli sussurra, accarezzandogli dolcemente una guancia, “Sono arrabbiato perché le tue compagne hanno detto una cosa molto, molto sbagliata, e voglio che tu sappia che niente di ciò che è uscito dalle loro bocche è vero perché per prima cosa,” inizia, passando le dita tra i suoi riccioli, “i tuoi due nonni e i tuoi due zii non sono solo i tuoi nonni e i tuoi zii, ma sono persone che ti amano, che ci amano, e il punto delle feste è proprio quello di passarle con le persone a cui vuoi bene quindi direi che siamo messi bene, non credi?”
Michael sorride e annuisce, nascondendo il viso nella curva della sua spalla.
“Secondariamente, ometto, non so come la vedi tu, ma io penso di essere il papà più fortunato del mondo ad avere un figlio come te, e sì, siamo solo io e te, ma penso che formiamo comunque una bella squadra, sai?” Lo stringe un po’ di più, combattendo contro il suo stesso respiro affinché non acceleri perché per tuo figlio, Kurt, sii forte per tuo figlio.
“Sono d’accordo,” mormora Michael, agganciando le manine dietro il suo collo. Kurt sorride, gli lascia un bacio sulla guancia.
“Papà?”
“Mmh?”
“Posso dirti un’altra cosa?”
“Mmh.”
“Perché continui a cucinare le zucchine se sai che non mi piacciono?” Kurt scoppia a ridere e si scosta appena per guardarlo in quei suoi occhi così azzurri e così furbi che a volte sembrano essere specchi dei suoi.
“Michael Hummel, non ci provare nemmeno. Fila a lavarti le mani, che tra poco si cena.” Michael sospira ed esala un “Uffa”, calcando particolarmente la u e la a, poi si lascia depositare a terra, prima di correre in bagno.
 
Kurt si guarda le mani. Tremano.
Ricaccia indietro le lacrime e prende un respiro profondo.
(Come lo spieghi, a tuo figlio, che quando suo padre era relegato ad un letto di ospedale, in fin di vita, i suoi nonni non ti avevano fatto neanche avvicinare alla sua camera?
Come lo spieghi, a tuo figlio, che di nonni ne ha solo due, perché quando tu e suo padre vi siete sposati i suoi genitori avevano deciso che eravate un ‘abominio’ e che non volevano più avere a che fare con loro figlio e con suo marito?
Come lo spieghi, a tuo figlio, che lo sai che avere un solo genitore a volte fa schifo, perché ci sei passato anche tu?)
 
*
 
Due giorni dopo Kurt si ritrova davanti all’aula di suo figlio, il labbro inferiore stretto tra i denti e lo stomaco contratto per l’ansia. Dopo averci riflettuto per ben ventiquattro ore, ha deciso che non gli importa che sia il giorno prima della Vigilia di Natale e che sta praticamente buttando via la sua già breve pausa pranzo, ha bisogno di parlare con Blaine perché l’idea che suo figlio subisca delle cattiverie – che subisca anche solo un briciolo di quello che è stato costretto a sopportare lui stesso, anche se per altri motivi – lo fa stare male.
Letteralmente.
Quindi prende tre respiri profondi e batte velocemente due colpetti sulla porta di legno chiaro, aspettando un “Avanti!” che arriva prontamente ed aprendola gradualmente.
“Buongiorno.” Blaine sta finendo di pulirsi le mani su un tovagliolino di carta, quando alza lo sguardo dal suo panino per incontrare il suo e si apre in un sorriso, e Kurt ha voglia di schiaffarsi una mano in fronte ed insultarsi da solo, perché è ovvio che Blaine stia mangiando – come tutti gli esseri umani dotati di uno stomaco e di una certa fame, visto l’orario improbabile.
“Buongiorno, Kurt! Scusa – stavo finendo di mangiare, aspetta – “ Fa per infilare il suo pranzo in un sacchetto di carta ma Kurt è più svelto e lo blocca, rimanendo sulla soglia.
“No! No – davvero, sono io quello che si deve scusare, è che è l’unico momento libero che ho tra il lavoro e Michael e, ovviamente,” alza gli occhi al cielo, “non ho pensato che questa fosse la pausa pranzo anche per te.” Blaine inclina un po’ il viso di lato e scuote appena la testa.
“Non importa! E comunque ora sei qui. Quindi – dimmi pure,” dice, invitandolo con un gesto della mano ad avvicinarsi, e Kurt lo fa, infilandosi le mani in tasca giusto per avere qualcosa da fare. Prende un respiro profondo – e davvero, chi ha inventato questa cosa dei respiri profondi per calmarsi deve essersi sbagliato di grosso, perché il nodo d’ansia che ha all’altezza dello stomaco non sembra aver intenzione di sciogliersi.
“Michael mi ha raccontato – uhm, due giorni fa? che due sue compagne di classe, lo hanno preso in giro. E davvero, se fosse stato per un motivo futile, come il suo taglio di capelli o un suo quaderno non sarei qui a dirlo a te, ma Michael non ne parlerebbe mai con un insegnante e –“ Alza lo sguardo dal pavimento per incastrarlo a quello di Blaine, che non ha più alcuna sfumatura divertita ma è tinto di una luce brillante e seria al tempo stesso.
So che sono bambini e che non si rendono neanche conto di ferire con le parole che dicono, ma sentirsi  dire che avere un solo genitore fa schifo è –“ Blaine lo interrompe con un gesto della mano.
“Non è necessario che continui, so chi sono queste bambine e purtroppo non sei il primo genitore che si viene a lamentare per questo motivo. Dev’essere capitato in un’ora non mia, altrimenti me ne sarei accorto – comunque credo che a questo punto informeremo i genitori e prenderemo provvedimenti.” La sua espressione si addolcisce e s’intristisce insieme, mentre dice “Mi dispiace solo che sia dovuto capitare anche a Michael.” Kurt è senza fiato per un attimo, poi annuisce.
“Grazie.”
“Faccio solo il mio lavoro, davvero.” Kurt sorride.
“Be’, grazie per farlo bene e tenere a questi bambini e a Michael e – credo che a questo punto potrei anche andare, dato che ti ho rubato quasi tutta la pausa e quel panino non si mangerà da solo, quindi – sì – “, gesticola in maniera impacciata verso il ripiano della cattedra – e sul serio, perché non ha continuato a tenere le mani in tasca?
“Figurati! Non faccio un pasto decente da giorni, sto cominciando ad avere la nausea  di questi panini.” Kurt deve seriamente mordersi la lingua per impedirsi di proporgli “Ehi, non per vantarmi, ma cucino un carpaccio di verdure che è una meraviglia; non è che ti va di passare a pranzo, tra una lezione e l’altra?” perché
Perché non può, semplicemente.
Quindi si dipinge addosso un sorriso un po’ tirato e dice “Buona giornata, Blaine. Oh – e buon Natale!”, avviandosi verso la porta.
“Anche a te e – Kurt? Ti andrebbe di prendere, che ne so? Un caffè, magari? Un giorno? Quando sarai libero?” E no. Non è possibile. No.
 
Tutto in una volta gli vengono in mente telefonate improvvise in piena notte e corse in ospedale e bip-bip assordanti nel silenzio delle camere sterilizzate e poi nulla, il vuoto più totale, dentro di lui, fuori, ovunque, e il pianto di Michael, così, così piccolo nelle sue braccia, e la vita di suo marito che scivola via davanti ai suoi occhi e il freddo, così tanto freddo che anche adesso gli sembra di percepirlo, mentre gli risale le vene e le arterie e gli avviluppa il cuore in una morsa troppo stretta – che non ce la fa neanche a respirare, con tutto quel gelo addosso.
E poi i giorni, i mesi, gli anni.
Imparare ad andare avanti da solo, stringere i denti e cercare di non arrendersi mai. E poi tornare a vivere, invece che sopravvivere – uscire di casa, accendere l’auto senza scoppiare a piangere, tornare a Vogue.com, andare da Rachel e Finn, crescere Michael. Aprirsi a poco a poco, di nuovo. Arrossire davanti alle occhiate che altri uomini gli lanciano a lavoro o la sera, quelle pochissime volte che si concede di uscire con Rachel e di lasciare Michael con Finn.
Rachel, che aveva iniziato a dire “Lui l’avrebbe voluto, sai? Che ti rifacessi una vita con qualcuno” e “Sei così giovane, Kurt”. E Kurt sorrideva mestamente, scuoteva la testa e rispondeva “Lo sai che non posso”. Per Jonathan. Perché non sapeva se crederci, a quel lui l’avrebbe voluto. Perché forse in fondo non ne era mai valsa la pena. Ma.
Ma.
Ma ora c’è Blaine a tre metri da lui, seduto dietro una cattedra piena di fogli e di cartacce di un pranzo che molto probabilmente non riuscirà nemmeno a finire. Blaine, con gli occhiali perennemente calati sul naso e un maioncino color senape avvolto attorno al busto e alle braccia e un sorriso a metà speranzoso e a metà timido ad incurvargli le labbra. Blaine. E Kurt non pensa più no.
Pensa perché no?
(Perché è l’insegnante di tuo figlio.
Per Jonathan.
Perché hai paura.)
“Perché no?” dice, e forse ha aspettato troppo tempo per rispondere, perché Blaine stava per aprire di nuovo la bocca e la sua espressione era diventata più imbarazzata che speranzosa o timida; ma ora sembra più sconvolto che altro, quindi annuisce e afferra il biglietto da visita che Kurt è tornato indietro per porgergli.
“A presto, allora.” Kurt sorride e lo saluta con un cenno della mano.
“A presto!”
 
 
 
26 Dicembre 2024
Sono passati tre giorni, e Kurt sta seriamente rischiando una crisi di nervi mentre si chiede probabilmente per l’ottocentesima volta quanti significati abbia la parola presto. Blaine non ha ancora chiamato, ed è diviso tra l’essere terrorizzato da questa cosa e l’essergliene grato, perché forse ha realmente bisogno di tempo, per metabolizzare.
Perché ha davvero accettato di uscire con qualcuno dopo tre anni da –
Anche se Rachel e Finn sono tornati al loro appartamento dopo i due giorni di festa, sente ancora il fantasma del “Kurt, sono così felice per te. E – lo sarebbe anche lui, sai?” che la sua migliore amica gli aveva sussurrato mentre lo stringeva forte, in cucina, circondati da decine di pirofile piene e lontano dagli sguardi degli altri. Ma la verità è che nonostante sia terrorizzato dal fatto che Blaine non abbia ancora chiamato, lo è altrettanto dal fatto che potrebbe chiamare da un momento all’altro.
Per questo nemmeno se ne accorge, quando scivola sul divano accanto a Burt, stando ben attento a non urtare la pericolante costruzione di lego che Michael e Carole stanno componendo.
“Figliolo,” suo padre gli scompiglia i capelli e Kurt glielo lascia fare, solo perché è lui e lo fa da quando era piccolo, e in quel momento ha davvero tanta voglia di essere trattato come quando era un bambino. “Sei uno straccio in questi giorni – non dirmi che il tuo capo ti sta riempiendo di lavoro anche a Natale.” Kurt si accoccola un po’ più vicino a lui ed appoggia la testa alla sua spalla, roteando gli occhi.
“No, no – Isabelle è meravigliosa, papà. E non è Vogue il problema, anche se alcuni stilisti stanno tirando fuori idee orrende per la collezione Primavera-Estate.”
“Ma se è ancora inverno, perché tanta fretta?” Kurt ridacchia sommessamente, le mani che scompaiono dentro le maniche del maglione mentre le tira più giù, fino a coprire le nocche. “Vuoi dirmi cosa c’è, allora?” continua Burt.
“Noi adesso andiamo a vedere se i biscotti sono pronti, non è vero Michael?” Carole afferra la mano del bambino, che la trascina in cucina con un “Sì!” entusiasta, e fa un occhiolino a Kurt allontanandosi. Gliene è grato, lui; perché forse parlare con suo padre è esattamente ciò di cui ha bisogno, in quel momento.
Non sa bene dove guardare – sarà che gli occhi di suo padre lo hanno sempre messo in soggezione, così simili ai suoi da far spavento; sarà che è pur sempre suo padre, e le sue parole sono più importanti di quelle di chiunque altro – quindi opta per fissarsi le dita e giocherellare con l’orlo del maglione.
“Se avessi conosciuto Carole – non so, otto anni prima, l’avresti sposata lo stesso?” Burt solleva le sopracciglia incuriosito, poi scrolla le spalle.
“Certo,” dice con semplicità. A quel punto Kurt si volta di scatto, piegando una gamba sotto di sé.
“Anche se la mamma era morta solo da tre anni? Voglio dire – “ esita un istante, cercando accuratamente le parole, “Non ti sarebbe sembrato – troppo presto?”
“Kurt, tu conosci Carole, le vuoi bene. Pensi davvero che averla avuta nella tua vita otto anni prima avrebbe influito sul ricordo che hai di tua madre? O sull’affetto che provavi per lei?” Kurt apre la bocca per ribattere, poi la richiude. Scuote la testa.
“Esatto.” Burt sorride, “Ed avrebbe significato darti la possibilità di crescere con un’altra figura al tuo fianco, oltre a me. Ed è vero, noi Hummel ce la siamo sempre cavata alla grande anche da soli, ma con Carole e Finn sotto lo stesso tetto siamo diventati veramente una famiglia. Quindi, se, come credo di aver capito, pensi di aver trovato qualcuno per cui valga la pena rimettersi in gioco – fallo, Kurt. Provaci.”
 
Quella sera, dopo cena, il telefono di Kurt squilla e lui non guarda neanche chi lo sta chiamando, troppo impegnato a cercare d’infilare Michael dentro il suo pigiama azzurro cielo.
“Pronto?”
“Kurt?” Blaine. E grazie a dio Michael ha appena deciso che ha voglia di andare a dare la buonanotte a Nonno Burt e Nonna Carole, perché il sussulto che ha appena emesso – con conseguente scossa di colpi di tosse estremamente imbarazzante – sarebbe stato difficile da spiegare.
“Ehi, tutto bene?” E Kurt ha voglia di sbattere la testa contro il muro, davvero.
“Sì –“ colpo di tosse, Kurt per l’amor del cielo riprenditi “Eccomi, scusa.” Soffia una risata imbarazzata e sente Blaine rispondere allo stesso modo, dall’altra parte della cornetta.
“Spero di non disturbarti. Non ho voluto chiamare in questi giorni, sai – magari avevi ospiti a casa. Non volevo – intralciare.” Kurt scuote la testa, prima di ricordarsi che ehi, è al telefono, e Blaine non può vederlo, quindi si affretta a rispondere con un “No, no – voglio dire, ci sono mio padre e sua moglie Carole e anche – okay, sì, avevo ospiti. Ma non disturbi ora, davvero.”
“Menomale, perché volevo chiederti se sei ancora disponibile per quel caffè. Domani.” Chiude gli occhi, prende un respiro profondo.
“Certo – uhm, ti dispiacerebbe il pomeriggio? Domani mattina mio padre e Carole hanno il volo per tornare a casa e voglio accompagnarli.”
“Nessun problema. Ti mando l’indirizzo dello Starbucks per sms, okay?”
“Va benissimo – Michael! Torna subito qui – devo andare, scusami. Buona serata, Blaine.”
“Buonanotte.” E quando Kurt chiude la chiamata e si lancia in una corsa ad ostacoli per riacciuffare suo figlio, che ha pensato bene di togliersi la casacca del pigiama anche se fuori ci sono circa tre gradi sotto lo zero, non riesce a fare a meno di evitare che un sorriso abbastanza idiota gli si imprima sulle labbra e lo accompagni fino al momento in cui cade nelle braccia del sonno.
 
*
 
Kurt si presenta all’appuntamento – che non è un appuntamento, non lo è, ma il suo cervello ormai l’ha classificato in questo modo, quindi – con sette minuti di ritardo, le guance arrossate dal freddo e una sciarpa di Calvin Klein avvolta attorno al collo, e quando scorge Blaine, seduto ad un tavolino accanto alla vetrina di dolci, che non sembra essersi reso conto del suo arrivo, sente una piacevole sensazione di calore avvolgergli lo stomaco e diramarsi per ogni sua terminazione nervosa.
“Ehi,” dice, avvicinandosi e sedendosi sulla sedia davanti alla sua. Blaine sussulta e si volta, aprendosi in un sorriso, e Kurt nota un sacco di cose tutte in una volta – che non ha gli occhiali, ad esempio; che ha usato più gel del solito, che stavolta non indossa nessun maioncino, ma una camicia bianca e un gilet verde bottiglia, e che è assolutamente ed indiscutibilmente bellissimo.
“Ehi, ciao. Vuoi ordinare qualcosa?” gli chiede gentilmente. Kurt annuisce, sfilandosi la giacca ed appendendola allo schienale della sedia.
“Un non-fat mocha, grazie.”
“Torno subito.” Blaine si alza, e probabilmente Kurt non dovrebbe notare il modo in cui i suoi jeans gli cadano a pennello, come se fossero fatti su misura per abbracciare le sue gambe, quindi distoglie lo sguardo e lo punta insistentemente sulle proprie dita intrecciate, finché Blaine non fa ritorno al tavolino con due bicchieroni e un incarto con un muffin al cioccolato.
Gli porge il contenitore con scritto Kurt e d appoggia il dolce a metà strada quello e la sua bevanda, che ha l’aria di essere un medium drip. Kurt solleva un sopracciglio, incuriosito, e Blaine risponde con una scrollata di spalle. “L’ho preso per me, ma sono una persona molto generosa e te ne lascerò fare un morsetto.” Ridacchiano entrambi, le mani attorno ai bicchieri per trattenere un po’ di calore, e dopo qualche sorso Kurt prende il coraggio tra le mani e chiede “Chi sei, Blaine?”, perché perché no? sembra essere diventata la sua nuova filosofia di vita.
L’altro lo osserva divertito, si appoggia allo schienale della sedia e prende un pezzetto di muffin, spostando l’incarto verso Kurt.
“Ho ventinove anni e vivo a New York da quando ne avevo diciannove. Bevo il medium drip da praticamente sempre e ho una passione sfrenata per i muffin al cioccolato. Mi piaceva molto suonare e cantare, quando ero al liceo, ma ora non lo faccio quasi più. Insegno a un mucchio di bambini che mi faranno venire i capelli bianchi prima dei trentacinque e ho studiato alla Columbia, lettere.” Kurt quasi soffoca nel sorso di caffè che ha appena preso.
“Alla Columbia? Ma è – una delle università più prestigiose del mondo. Wow. Complimenti.” Blaine arrossisce, scuotendo appena la testa.
“E’ il tuo turno.” Kurt resta in silenzio per un attimo, riordina le idee.
“Ho trent’anni, e vivo qui da undici e sono il vice-direttore di Vogue.com. Ho un’ossessione per i vestiti e per i cibi salutari che si rivela particolarmente difficile da gestire, avendo un figlio esperto nell’imbrattare qualsiasi sua maglietta con la Nutella che mangia di nascosto. Mmh, cantavo anch’io, al liceo – nel Glee Club. Vivevo in Ohio. Lima.” Stavolta è Blaine a rimanere letteralmente a bocca aperta.
“Stai scherzando – anch’io sono dell’Ohio!” Le sopracciglia di Kurt si sollevano di scatto.
“Davvero?”
“Sì! Westerville. E anch’io cantavo nel Glee Club, i – “
“Warblers. Oh dio, ci batteste alle regionali – credo? Cantaste qualche canzone di –“
“Pink. Raise your glass. Ero il solista,” sussurra Blaine, e per un attimo sembra perso nei suoi ricordi. “Non mi ricordo di te – mi dispiace,” ammette con una punta di dispiacere, ma Kurt non può fare a meno di ridere.
“Be’, sicuramente ricorderai la nostra solista. Rachel.” Blaine lo guarda negli occhi, prima di annuire e spalancare di nuovo la bocca.
“Rachel – la stessa Rachel –?” Kurt annuisce.
“La madre biologica di Michael, che attualmente lo starà ingozzando di Nutella alle mie spalle perché non è capace di tener testa al suo broncio, quando va a casa sua.”
“Wow,” esala Blaine, e Kurt pensa Seriamente, quante possibilità c’erano –
 
Quel giorno, Kurt scopre che Blaine ha avuto solo una storia seria con un certo Sebastian – lo stesso Sebastian dei preservativi, sì –, ma che è decisamente finita, perché entrambi si sono resi conto fin da subito che funzionavano meglio come migliori amici, ed è così che sono rimasti; che Blaine non mentiva, quando diceva di avere un’ossessione per i muffin al cioccolato e che Blaine è davvero quel tipo di persona con cui gli piacerebbe costruire qualcosa – amicizia, fiducia reciproca, qualcos’altro, forse.
Forse è per questo che quando lui gli dice che vorrebbe rivederlo, ma che potrebbe essere poco professionale, perché “Sono l’insegnante di tuo figlio e – “, Kurt lo interrompe con un gesto della mano e gli risponde che sì, forse non è la cosa più saggia, e sì, forse non dovrebbero, ma “Ti va di cenare insieme?”
E Blaine sorride spiazzato, annuisce. “Certo.”
 
*
 
“Rach?”
“… Kurt?”
“Se il ragazzo di cui ti parlavo l’altra sera fosse – l’insegnante di mio figlio –“
“Oh mio dio, vai a casa tua. Sto venendo lì con Michael.”
 
*
 
Alla fine cenano insieme, a casa di Kurt, il ventinove dicembre – lui cucina davvero il carpaccio di verdure, e Blaine gli fa i complimenti almeno una decina di volte, mentre si serve una seconda porzione e si guarda intorno spaesato, come se i quadri grandi dell’appartamento di Kurt e le pareti in vetro che si affacciano su New York lo mettessero in soggezione, in qualche modo.
Parlano di tutto.
(“Qual è il tuo libro preferito, Kurt?”
“Cime Tempestose, lo rileggo ogni inverno.”)
(“Non puoi seriamente preferire Katy Perry a Lady Gaga. Andiamo.”
“Ehi, non metto in dubbio che fossero entrambe i pilastri musicali della nostra adolescenza, ma Katy è decisamente meglio di –“
“Non ti azzardare a terminare questa frase, Blaine Anderson.”)
Ma non di loro – mai, di loro.
Quando lo accompagna alla porta e Blaine lo ringrazia di nuovo per la splendida serata e per la cena squisita, Kurt pensa potrei anche baciarti. E non lo fa.
Ma quando Blaine gli si avvicina tutto in una volta e lo stringe appena – una mano su un fianco e una sulla schiena, un contatto così lieve da sembrare una carezza –, Kurt sobbalza e s’irrigidisce per un istante – perché è tanto, troppo tempo che qualcuno, al di là della sua famiglia, non lo abbraccia. Poi si scioglie, gradualmente, e gli cinge la vita con un braccio in risposta.
“Buonanotte, Kurt.”
“Buonanotte.”
 
*
 
Messaggio da: Blaine – 30 dicembre 2024, 21.37
Ehi! So che per domani sera avrai già altri programmi e – tranquillo! Non voglio chiederti di sconvolgerli. Ti andrebbe solo di fare colazione insieme? Così, per scambiarci gli auguri di buon anno nuovo.
 
Messaggio a: Blaine – 30 dicembre 2024, 21.45
Certamente! Ci troviamo al solito Starbucks alle 8.00?
 
Messaggio da: Blaine – 30 dicembre 2024, 21.49
Perfetto.
 
*
 
Messaggio da: Blaine – 1 gennaio 2025, 0.00
Felice anno nuovo, Kurt. :)
 
Messaggio a: Blaine – 1 gennaio 2025, 0.01
Buon anno anche a te, Blaine!
 
*
 
Kurt lo invita a casa sua un pomeriggio di gennaio – Michael è dal suo migliore amico, Oliver, quindi – perché no?
Mettono su un film – Serendipity – e si siedono sul divano, le ginocchia che si sfiorano anche se c’è abbastanza spazio per evitare che lo facciano, e sorseggiano cioccolata calda come ragazzini.
A fine film, Kurt riaccende le luci e si ritrova davanti il naso di Blaine arricciato in una smorfia adorabile.
“Hai della cioccolata – qui –“ dice lui, e Kurt si preme una mano sulla bocca, realizzando solo poi che probabilmente sta solo facendo peggio, togliendola e cercando di arrivarci con la lingua. Blaine sorride e scuote la testa; avvicina le dita al suo viso con lentezza, come se gli stesse chiedendo il permesso, e le preme a pochi millimetri dalle sue labbra, delicatamente, piano, come se potesse spezzarlo.
“Kurt – io vorrei fare una cosa,” esala, e sul serio – come ci è arrivato così vicino? Così vicino che gli sembra di star annegando nei suoi occhi – che ha deciso, non sono né verdi né castani né dorati, sono ambrati – che ora lo stanno attraendo come calamite. Kurt annuisce, piano, e Blaine si avvicina ancora di più.
Tiene gli occhi aperti finché non sente le sue labbra premere contro le proprie, poi vede le sue palpebre svolazzare e li serra di scatto perché – Blaine lo sta baciando.
E lui sta baciando Blaine. E le sue labbra sono così morbide, delicate, lievi, gentili, che sembrano essere state create apposta per sfiorare le sue e venerarle, distruggendogli il cuore e rimettendolo a posto frammento dopo frammento ad ogni tocco, e ora le mani di Blaine gli incorniciano il viso e quelle di Kurt stringono a pugno il suo maglione verde bottiglia, mentre le loro labbra si schiudono come boccioli di fiori – ed è come ritrovare il tuo pezzo mancante, quello che combacia con te spigoli contro spigoli e curve contro curve, che per un attimo ti sembra di non essere mai stato solo in tutta la tua vita.
Si separano con un respiro, non del tutto, le mani ancora ancorate a guance e petto e gli occhi lucidi – come se ci fossero emozioni, dentro di loro, così grandi e complesse che sembrano quasi troppo.
“Era – okay?” chiede Blaine, e il fiato gli scivola via dalle labbra come se non gli appartenesse veramente, come se lui fosse ancora perso in qualche dimensione a metà tra la realtà e il sogno.
“Più che okay.” E si baciano ancora, di nuovo, di più.
 
*
 
(“Mi togli una curiosità, Blaine?”
“Mmh?”
“Cosa ci fa un laureato alla Columbia in una classe di bambini di sei anni?”
“E’ – complicato, suppongo.”
“Ho tutto il tempo per ascoltarti.”)
(“Posso farti una domanda, Kurt?
“Certo.”
“Per quale motivo tuo figlio non ha anche il cognome di Jonathan, oltre al tuo?”
“Lo ha sempre voluto lui – diceva che Hummel suonava meglio di Owen e –“
“Ehi, non piangere, non volevo, mi dispiace mi dispiace mi dispiace, dio, vieni qui.”)
 
*
 
Il dieci gennaio Blaine si presenta nell’appartamento di Kurt con una scatola di lego e un libro di Peter Pan impacchettati tra le mani.
Michael pensa che sia strano, che un insegnante gli faccia dei regali di compleanno, ma costruire una fortezza di costruzioni giocattolo sembra molto più allettante che porsi domande complicate.
 
La sera lo chiede al suo papà, comunque. Gli risponde che Blaine oltre ad essere un suo insegnante sta diventando anche un amico di famiglia. Michael scrolla le spalle.
“Mi piace il Maestro Blaine, sono contento che siete amici.”
 
*
 
Vanno a cena fuori una volta a settimana. “Non voglio lasciare Michael da Rachel troppe sere,” aveva detto Kurt. Blaine aveva annuito comprensivo e gli aveva regalato uno dei suoi sorrisi brillanti – quelli che a Kurt piaceva credere riservasse solo a lui.
La quarta settimana il taxi li lascia davanti all’appartamento di Kurt. Scendono entrambi – perché, ovviamente, Blaine è anche un gentiluomo, e l’auto resta dietro di loro ad aspettare, il motore che rilascia piccole nuvolette grigie nell’aria fredda di febbraio.
“Sono stato benissimo, stasera.” Kurt solleva gli occhi al cielo.
“Lo dici tutte le volte.”
“Questo è perché sto benissimo tutte le volte.” E Kurt vorrebbe davvero riuscire ad essere spigliato, ad alzare gli occhi al cielo un’altra volta e a rispondergli con una battuta ironica, ma la verità è che è passata una settimana dall’ultima volta che ha baciato Blaine e le sue labbra sono così invitanti, adesso, incurvate in un sorriso genuino e dolce, così piene eppure a malapena in grado di nascondere i suoi denti, bianchi come la camicia che indossa stasera sotto il suo Montgomery – che Kurt si accorge che è pronto.
E’ totalmente, completamente terrorizzato, ma è pronto.
Quindi si sporge in avanti, tuffa una mano nel portafoglio ed infila una banconota nelle mani dell’autista ancora a bordo, che lo ringrazia e riparte come se niente fosse.
Blaine osserva il taxi allontanarsi a bocca aperta, poi si volta confuso verso Kurt.
“Dovevo tornarci a casa, con quello,” dice, lentamente, come se stesse cercando di capire quello che sta succedendo – inutilmente. Kurt annuisce, sorride.
“Lo so,” sussurra. Muove due passi all’indietro, poi si volta e si incammina verso l’ingresso di casa.
Blaine impiega cinque secondi a capire, poi sorride, sorride, sorride, si avvicina velocemente e lo bacia in piedi, contro la porta, le labbra incurvate verso l’alto contro quelle di Kurt.
 
*
 
Amare Kurt in ogni accezione della parola stessa è così giusto e naturale che si chiede come abbia fatto, per tutto quel tempo, a sopravvivere senza. Senza le sue labbra contro la pelle, senza il suo respiro che accelera ad ogni tocco, senza il suo cuore che rimbomba come impazzito premendo contro la cassa toracica, senza le curve del suo corpo e gli spigoli della sua anima.
 
*
 
(“Io voglio che sia una cosa seria.”
“Tu lo sai, vero? Che cosa significa tutto questo? Significa me. Significa Michael. Significa convivere con il fatto che da essere solo passi ad avere una famiglia. Significa niente più locali di notte e serate con gli amici. Significa esserci sempre, ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni a settimana. Significa aspettarsi domande e dover dare spiegazioni. Significa il ricordo di Jonathan. E io – non so se lo vuoi davvero.”
“Kurt, mancano due mesi alla fine dell’anno scolastico. Dopodiché chiederò di poter cambiare sezione in modo che non ci siano problemi se dovessi ritrovarmi ad insegnare a Michael. Voglio che sia una cosa seria – ne sono sicuro come lo sono stato di poche cose in vita mia e questo è perché ti amo, Kurt, e – non c’è niente che potrebbe farmi desistere dal voler passare la mia vita con te.”
“Mi – ami?”
“Sì.”
“Anch’io – penso – penso di amarti anch’io.”)
 
 
 
14 Febbraio 2029
Era stato facile, per Michael, smettere di chiamarlo Maestro Blaine. Era stato un po’ più difficile arrivare a chiamarlo papà – c’era stata una fase in cui era stato l’amico Blaine o semplicemente Blaine – ma era arrivato tutto, col tempo.
Kurt e Blaine si erano sposati quasi due anni dopo essersi conosciuti – una sera di maggio, pochi amici stretti e gli occhi incatenati mentre pronunciavano quei “Sì” a fior di labbra.
Avevano imparato ad incastrare due vite che non c’entravano nulla, l’una con l’altra – Kurt aveva conosciuto Sebastian e l’aveva detestato, poi lo aveva conosciuto un po’ di più e si era ritrovato ad adorarlo, anche se non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura; Blaine aveva imparato a memoria gli impegni settimanali di Michael ed era andato a tutte le sue partite di basket, seduto sugli spalti ad applaudire ogni volta che segnava un punto.
E avevano litigato, oh, quanto avevano litigato, e avevano urlato e avevano imparato a far pace facendo l’amore, mappando il corpo dell’altro con una precisione millimetrica.
E si erano amati – tanto.
 
“Papà!”
“Dimmi, tesoro,” Kurt si sporge dalla cornice della porta della cucina, già vestito e pettinato, mentre armeggia con un incarto che probabilmente sarà il suo pranzo.
“No, non solo tu. Tutti e due. Di solito quando dico papà venite entrambi –“
“Arrivo! Eccomi eccomi eccomi, ci sono,” Blaine sbuca saltellando su un piede solo dalla camera da letto, una scarpa su un piede e l’altra in mano, mentre si avvicina urtando pericolosamente il divano. Kurt rotea gli occhi.
“Cosa volevi dirci?” chiede, porgendo un braccio a Blaine per aiutarlo a ritrovare l’equilibrio. Michael gira su se stesso una volta.
“Come sto?” Kurt e Blaine lo guardano confusi per un attimo, e Michael pesta il piede a terra, l’accenno di un broncio già pronto a spuntare sulle sue labbra. “Sono vestito male, non è vero? E’ che oggi è San Valentino e voglio portare un bigliettino a Malerie, ma lei non mi noterà mai se sono brutto.” Blaine – la scarpa è riuscito ad infilarsela, alla fine – fa un passo in avanti e s’inginocchia davanti a lui.
“Piccolo, innanzitutto sei meraviglioso,” gli scompiglia i riccioli mori, “e poi sei vestito benissimo e sono sicuro che a Malerie il bigliettino piacerà comunque. Ma – se vuoi esserne sicuro, qui abbiamo un esperto di moda, no?” Michael risucchia in bocca il labbro inferiore e guarda Kurt speranzoso e lui sorride, imita i gesti di suo marito e gli accarezza una guancia.
“Stai benissimo.” Lo osserva per un attimo, l’orgoglio negli occhi. “E ora forza, prendi il cappotto o farete tardi e Malerie non vorrà vederti mai più, perché a nessuno piacciono le persone ritardatarie.” Dire che Michael corre ad agguantare il cappotto sarebbe un eufemismo.
Blaine gli afferra il polso e si rialzano in sincronia, e quando sono di nuovo in piedi gli incornicia il viso con le dita e lo bacia – così, senza preavviso, perché è il modo migliore in cui gli piace sorprenderlo.
“Buon San Valentino,” sussurra.
“Papà! Guarda che mi fai fare tardi!” Kurt ridacchia, gli avvolge la vita con un braccio, gli schiocca un bacio leggero sulle labbra.
“Buon San Valentino anche a te.”








(N.d.A.: La scena del taxi è ispirata ad una scena del film "Gli Stagisti", quello con Dylan O'Brien, che dovete vedere tutti almeno una volta nella vita perché fa scompisciare.)
(N.d.A. 2.0: Non potevo chiamare il figlio dei Klaine Fettuccine Alfredo o Ringo, abbiate pietà.)
   
 
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